Cina – Vaticano: le ragioni (e i rischi) del nuovo accordo

(di Antonio Vecchio)
03/11/20

Era nell’aria, e non sorprende quindi la notizia della conferma, il 22 ottobre scorso, dell’accordo tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese.

Firmato per la prima volta il 22 settembre 2018, il documento recentemente rinnovato dal Vaticano ad experimentum ha natura esclusivamente pastorale e, stando alle dichiarazioni ufficiali, non tocca il campo delle relazioni diplomatiche e lo status giuridico della Chiesa cinese.

Conferma però la nomina dei vescovi “concordata” con le autorità statali, e nel farlo, conferisce all’intesa un importante significato politico, anche solo per lo scendere a patti di un istituzione religiosa millenaria con un potere autocratico e ontologicamente ateo, che calpesta la libertà religiosa dei suoi cittadini e i loro diritti.

D’altronde, tale significato promana anche dal modo con cui l’operazione è stata negli anni preparata, e da come il santo padre l’ha strenuamente difesa.

La notizia dell’intesa, due anni fa, fu - all’epoca sì - accolta ovunque con grande sorpresa.

Le relazioni tra i due stati si erano infatti interrotte nel 1949, con la presa del potere da parte dei comunisti di Mao e la cacciata del nunzio Antonio Riberi.

In tutti questi anni, l’assenza di dialogo tra i due governi non ha però impedito il formarsi in Cina di una Chiesa clandestina, leale a Roma, oggetto - oggi più di allora - di continue persecuzioni, che non hanno però impedito un inarrestabile opera di proselitismo.

Sarebbero 12 milioni i cattolici oggi presenti nel paese, parte di quei 68 milioni di cristiani che il Pew Forum on Religion & Public Life prevede superino, entro la fine di quest’anno, i 72 milioni (5,2% della popolazione).

Numeri importanti, dietro i quali si cela l’avvicinamento al colosso asiatico promosso dal segretario di Stato, card. Pietro Parolin (foto), il vero regista dell’operazione e ispiratore di Francesco.

Tale accordo, al netto dell’impulso datogli dall’attuale successore di Pietro, è il frutto di decenni di particolare attenzione che Roma ha riservato alla Cina, e la lettera1 di Benedetto XVI del 2007, in cui auspicava “la normalizzazione della vita della Chiesa in Cina (mediante) un dialogo franco, aperto e costruttivo con le Autorità”, ne è prova.

L’intesa promette di rafforzare la presenza cattolica in un continente principalmente popolato da musulmani, induisti e buddisti, il che rappresenta un fattore non secondario, considerato che il papa rimane pur sempre un gesuita, che riconosce nella evangelizzazione uno dei capisaldi dell’Ordine.

Per Francesco, una presenza in Cina ufficialmente riconosciuta, oltre a rimandare alla grandiosità dell’azione di padre Matteo Ricci2, offrirebbe, in un’epoca di crescente secolarismo e di chiese sempre più vuote, la possibilità di raggiungere centinaia di milioni di potenziali fedeli.

Il papa sud americano, d’altronde, non perde occasione di promuovere l’universalità di una Chiesa “post occidentale” (non più incentrata sul continente che l’ha accolta e proiettata ai quattro angoli del pianeta), e per indirizzare la sua opera di evangelizzazione guarda sempre più a est, dove il potere globale si è ormai spostato.

In tale prospettiva, l’accordo con il nuovo Imperium cinese rende la Chiesa “organica” alla società cinese, replicando - con tutti i distinguo del caso - quello che avvenne nel quarto secolo con Costantino.

C’è, infatti, una forte analogia tra le finalità che portarono l’imperatore romano ad assorbire i cristiani - il rafforzamento della sua figura e la coesione interna dell’impero -, con quelle di Xi Jinping, che si propone da un lato di incassare l’innegabile dividendo politico diplomatico e, dall’altro, di utilizzare strumentalmente la religione, qualsiasi essa sia, per controllare meglio i cittadini e compattare lo Stato.

Alcuni aspetti, rimangono però oscuri, e meritano una analisi approfondita.

Perché se da un lato appare chiaro lo spirito con cui la Chiesa di Roma si accorda con la Repubblica Popolare Cinese, lo stesso non si può dire dell’altro sottoscrittore dell’accordo.

Anzi, le maggiori insidie nascono proprio dalla verosimile asimmetria con cui i due Stati percepiscono, ognuno a modo proprio, il vicendevole avvicinamento.

Se la percezione romana è, infatti, in linea con le ragioni di evangelizzazione poc’anzi accennate, coerente, quindi, col primigenio messaggio apostolico, quella di Pechino appare al momento essenzialmente coincidere con il vantaggio, anche d’immagine, derivante dall’accordo con la principale autorità morale e spirituale dell’Occidente, suo competitor.

Ottenuto, questa vantaggio, si badi bene, nello stesso momento in cui l’altro pilastro della nostra civiltà, quello temporale (si passi l’uso improprio del termine, che in questa sede intende indicare la potenza di riferimento della nostra civiltà), incarnato (sino a quando?) dagli USA, quella stessa autorità morale critica apertamente, come ha fatto due settimane fa il segretario di Stato Mike Pompeo3.

Il Vaticano, in questa ottica, finisce addirittura per favorire Pechino nella sua affermazione globale, mascherata dietro il sostegno ad un marcato multilateralismo, che ha essenzialmente lo scopo di guadagnare spazi di manovra a danno di Washington, per creare un nuovo ordine mondiale.

L’interlocuzione con il capo della Chiesa cattolica consegue allora l’effetto di “mondare” Pechino dei “peccati” che la comunità internazionale gli ascrive, e ne avvalla l’attivismo nei principali fori internazionali, in un momento in cui l’America di Trump cede sempre più a pulsioni isolazionistiche.

L’impressione è che Francesco abbia considerato tutto ciò, e che prevalga in lui, in aggiunta alla volontà (legittima) di incrementare il proprio gregge, una certa visione mondialista, figlia del retroterra culturale in cui si è formato nel paese di origine.

Riemerge allora, ancora una volta, il carattere politico dell’operazione, così come squisitamente politico è il silenzio del papa alle grida di dolore dei cattolici cinesi a lui fedeli, quelli della Chiesa sotterranea che ancora vive sulla propria pelle l’ostracismo dell’altra Chiesa, quella “patriottica”, in una realtà quotidiana fatta di persecuzioni e violenza.

Per non parlare dell’apparente indifferenza verso i diritti umani calpestati ogni giorno a Hong Kong e Taiwan (v.articolo), e nei campi di rieducazione dello Xinjiang, dove oltre un milione di Uiguri di fede musulmana sono rinchiusi (v. articolo).

Il pericolo di una sinizzazione del messaggio cristiano, ossia la realizzazione di quella che Xi Jinping chiama religione con “caratteristiche cinesi”, trasformerebbe l’annuncio del Vangelo in un nuovo instrumentum Imperii - la storia si ripete -, con il risultato, questa volta, di rendere la Chiesa di Roma complice del nuovo imperatore.

C’è infine la concreta possibilità, che nell’inseguire la nuova frontiera, la Chiesa di Francesco, in netto contrasto con quella dei suoi predecessori, perda di vista la collocazione geografica dell’”evento cristiano”, che pur attualmente indebolito dalla cultura dominante e dal pensiero comune, al nostro continente, e solo a lui, deve la sua universalità.

Se ciò avvenisse, sarebbe la fine dell’Occidente.

3https://www.repubblica.it/esteri/2020/09/20/news/vaticano_segretario_di_...

Foto: MoD People's Republic of China / Vatican News / Xinhua