Il Dragone suscita sempre interesse; se è vero che il suo potenziamento bellico ha attratto più di un’attenzione, è altrettanto vero che gli avvenimenti pandemici hanno ampliato il focus su un panorama complesso. Che la silhouette di una portaerei sia più seducente della macroeconomia è fuori di dubbio; che trascurare l’aspetto economico non faccia intendere appieno il realismo1 delle relazioni internazionali è però inevitabile come l’imbattersi in aspetti poco analizzati che riconducono ad un quadro geopolitico che, se non compreso, non permette nemmeno di immaginarseli ponti di volo e top gun.
Secondo Kissinger la potenza planetaria cambia con cadenza secolare: il PCC, convinto del declino occidentale opera per imporre un modello politico-economico capace di accantonare capitalismo, democrazia, comunismo sovietico.
La Cina è un Paese dal DNA imperiale che vuole dimostrare di poter cancellare un passato umiliante. Non è così facile. Pechino è l’ultimo grande soggetto politico comunista, stigma che non impedisce la coesistenza di falce e martello e doppiopetto sartoriale: è come la tana del bianconiglio, nulla è come appare. Se l’Occidente fosse stato più avveduto si sarebbe accorto, fin dagli anni ’70, che Deng Xiaoping non era una bizzarria politica, ma l’espressione della volontà leninista del Partito.
Se è vero che non è importante il colore del gatto purché prenda il topo, creazione delle imprese private e silenziosa revisione maoista sono state funzionali ad esercizio e mantenimento del potere a fronte del fallimentare modello economico sovietico, per il quale ancora adesso è arduo immaginare politiche economiche diversificate ed aperte agli investimenti. Deng si volge quindi verso spazi finanziari esterni necessari alla ripresa economica stroncata prima dal fallimentare Grande Balzo in Avanti2 (1958-1961), poi dalla violenta Rivoluzione culturale (1966-1976).
Ascesa economica ed ingresso cinesi nel WTO divengono il segno di una globalizzazione che, attagliata per l’anglosfera, calza a pennello sulla zhongshang3 maoista indossata dai principi rossi, e per la quale Tien an Men ha un suo accettabile perché; un perché reiterato nel 2008 con la sanguinosa repressione tibetana seguita dopo circa 10 anni da quella uigura nello Xinjiang. E dopo la globalizzazione la sua antitesi, sostenuta dalla ristrutturazione di Xi Jinping con la riduzione dell’interdipendenza economica agevolata dall’elezione di Trump, oppositore di una globalizzazione che stava favorendo solo il Dragone.
Sotto la guida di Xi la Cina del partito unico è passata dallo stato di economia chiusa e pianificata, a seconda maggiore economia aperta e decentralizzata. Beninteso, è vietato parlare al Timoniere: in Cina il denaro apre ogni porta meno quella del potere; lo sa bene Jack Ma, fondatore di Alibaba, che per aver osato criticare il sistema ha dovuto ritirarsi spintaneamente dalla vita pubblica.
È socialismo cinese, è capitalismo di stato, è trasformazione da produttore a basso costo ad esportatore ed innovatore in tecnologici avanzata, è investimento in tecnologie duali: è potere economico teso ad ottenere influenza politica internazionale; il problema si porrà quando, raggiunta la frontiera tecnologica più avanzata, che deve potersi alimentare al libero mercato delle idee, l’economia comincerà a soffrire il morso della burocrazia. Ma la Cina, attrice dell’economia planetaria, impermeabile alle infiltrazioni, mantenendo il controllo del mercato interno, si è posta nelle condizioni di poter affermare di essere ancora in via di sviluppo, dunque immune a qualsiasi sollecitazione esterna volta a richiedere riforme.
L’obiettivo politico si sposta sull’integrazione tra circolazione economica esterna ed interna, dove la strategia sostiene la domanda sul proprio mercato, ritenuto in grado di supportare l’economia, incrementando il livello reddituale medio e riducendo la vulnerabilità alle crisi esterne; si determina così la rilocalizzazione delle aziende strategiche straniere fuori dall’impero di mezzo.
Malgrado le incognite pandemiche è lecito supporre che la Cina continuerà a crescere, ma rimane il dubbio circa la capacità di adattamento al suo stesso sviluppo; aumento del debito, demografia calante, interventi radicali, richiedono un welfare diverso scevro dalle rigidità di partito. Insomma, tutti elementi in conflitto con l’ambizione di Xi di guidare il Paese sfidando i sistemi democratici a suffragio universale. Se si accetta il pragmatismo cinese, l’ossimoro capitalcomunista risulta privo di contraddizioni, perché secondo Pechino il comunismo è un obiettivo da raggiungere per fasi successive dopo capitalismo e socialismo, e con un’equa distribuzione della ricchezza.
Le proiezioni di potenza cinesi a fondamento della Guerra Asimmetrica4 vengono dunque avvolte dalla seta di una via che sta impoverendo interi stati, sotto la celestialità di lunghissime marce. Il capitalismo ibrido permette alle aziende pubbliche di avere investitori privati, di essere quotate sui mercati mantenendo un regime concorrenziale ed accedendo, nebulosamente, a sussidi che permettono al Partito di operare scelte strategiche basate sia sull’applicazione arbitraria del diritto sia, risvegliato dal Covid, su di un sentimento autarchico maoista, fondato sull’innovazione tecnologica disaccoppiata da quella americana, in grado di fissare gli standard internazionali secondo un rigido modello statale5.
Mentre anche l’economia comincia a frenare, Xi indossa i panni del buon padre di famiglia, ed evitando accuratamente di affrontare i misteri della pandemia, invita ecumenicamente ad abbandonare mentalità conflittuali da guerra fredda poco compatibili con i prossimi giochi olimpici invernali. Sarà; il rallentamento rimane, e ad esso rimangono avvinte la crisi immobiliare innescata da Evergrande e quella produttiva generata dalle restrizioni imposte dalla strategia zero covid.
Mentre la Banca centrale taglia gli interessi per favorire la ripresa, la Cina deve prendere atto del record negativo di una natalità mai così bassa. Il film lo abbiamo già visto: il costo della vita aumenta, le famiglie si riducono, la spesa pensionistica triplica intaccando il PIL. La demografia, toccando le tasche, è come il cuore: difficile comandarla, specie quando va ad intaccare le strategie di Partito che con Xi ed il suo lockdown di interi centri urbani, ha già compromesso le catene di approvvigionamento globali provocando aumenti dei prezzi ed inflazione.
Insomma, anche i Timonieri sbagliano adottando strategie controproducenti, specialmente quando la diplomazia assume posture aggressive, l’economia si fa animare dallo spirito di coercizione, ed i social network si insinuano nei meccanismi delle politiche pubbliche. La Cina può dunque ottenere buoni risultati tattici ma non strategici, come evidenziato dalla BBC6, che non ha esitato a puntare il suo faro sui finanziamenti cinesi destinati a prostrare le economie più fragili.
Ritorniamo dunque all’economia ed a cicli meno virtuosi, visto che i cinesi sono maestri nell’allestire trappole. Tra quella delle dita e quella del debito ci sono poche differenze: dalla prima, malgrado sia difficile, si può provare a liberarsi, dalla seconda no. I finanziamenti cinesi verso i Paesi del terzo mondo, basati su contratti dal contenuto politico, costituiscono una realtà finanziaria di grandi dimensioni7 che vincola i destinatari con accordi che assicurano a Pechino la tutela degli interessi pubblici, una posizione preminente, e minimizzano il rischio di una mancata restituzione.
L’uso di clausole predatorie e di riservatezza, unite al divieto di partecipare ad accordi di ristrutturazione8, permette ai cinesi di incidere sulle scelte politiche dei Paesi debitori. I flussi di cassa degli investimenti vengono versati su un conto corrente intestato – con disponibilità limitata - al debitore ma presso una banca di fiducia del creditore.
Tra l’altro, le clausole di cross-default permettono la risoluzione del finanziamento con facilità, concedendo al creditore cinese un forte potere contrattuale che, in caso di rescissione anche unilaterale, impone la restituzione immediata del prestito.
Alla base di tutto, la Belt and Road Initiative, la via geostrategica destinata ad intaccare l’egemonia statunitense, che prevede il ricorso a finanziamenti erogati da banche di scopo9 che, secondo logiche geopolitiche di Partito, prestano denaro in base a criteri arbitrari e raramente pubblici10, e che l’UE vorrebbe contenere con l'European Global Gateway, tardivo investimento da 300 miliardi di euro da operare entro il 2027 nei paesi in via di sviluppo.
Questo ha generato debiti per centinaia di miliardi di dollari a carico di non meno di 42 Paesi dal reddito medio basso, con esposizioni superiori al 10% del PIL.
Tutti contenti? Mica tanto. L’Esercito di liberazione del Belucistan ha fatto saltare in aria un pullman con 9 operai cinesi; in Kazakistan, dove si teme il neocolonialismo pechinese, la sinofobia ha trovato ampio spazio nelle proteste di dicembre scorso; in Sri Lanka il Porto di Hambantota è passato di fatto in mano cinese (tra le contestazioni), così come accaduto in Laos per parte della rete energetica.
Ed ora? Come visto la politica estera cinese sta lentamente spostando il suo focus e, dopo devastanti prestiti miliardari in Africa, Pechino concentra le sue trappole solo sui Paesi strategici o più ricchi di risorse. Sulla sponda atlantica, la Cina ha acquistato titoli fruttiferi del debito USA non facilmente spendibili: se li convertisse in yuan apprezzerebbe il proprio tasso di cambio sottraendo competitività alle imprese; se li vendesse creerebbe un’instabilità di cui pagherebbe per prima le conseguenze, limitando le sue stesse esportazioni.
E l’Europa? Tra l’acquisto cinese di debito UE che smentisce la vantata autonomia strategica del Vecchio Continente e sguardi più o meno interessati verso la BRI, dopo Jp Morgan e Goldman Sachs anche la tedesca Deutsche Bank si prepara a stringere accordi con gli istituti bancari cinesi per puntare all’enorme risparmio privato, operazione agevolata dalla stessa Cina che ha invogliato la partecipazione finanziaria estera sul proprio mercato comunque scosso dal default miliardario della Evergrande; già declassata da S&P’s e da Fitch, Evergrande non può essere comparata a Lehman Brothers, viste le capacità monetarie statali cinesi in grado di ammortizzare il colpo sui mercati internazionali; non così su quello interno più contagiabile, evenienza questa che ha interessato sia altri gruppi immobiliari come Sinic, Kaisa o Fantasia, sia svariati milioni di creditori cinesi11. Di certo si profila un panorama che neanche la più fervida fantasia poteva immaginare quando il real estate, dalla crisi del 2009, ha funzionato come puntello politico economico a basso costo e che ora Xi ha depotenziato12 programmando una ristrutturazione parziale a guida statale, visti sia i crediti inesigibili rimasti nelle casse delle banche, che hanno continuato ad erogare finanziamenti pur a fronte del calo della richiesta, sia il danno di immagine del Partito.
Come uscirne? Con il solito sistema: scaricando la responsabilità sulla comunque colpevole dirigenza, nazionalizzando ma tenendo conto che l’economia sta andando incontro ad un periodo di contrazione della domanda e di shock dell’offerta, dove Covid ed effetto domino immobiliare stanno frenando le attività, e dove la produttività di fine anno ha solo compensato il calo delle vendite al dettaglio.
Mentre Evergrande collassa, il mercato si accorge che non ci si può fidare delle grandi società cinesi e del loro debito, cosa che spinge a ridurre l’acquisto di azioni e di bond per l’anno corrente; insomma il 2022, secondo Reuters, non sorriderà molto a Pechino, che rischia di non trovare investitori internazionali.
L’abbandono dell’obiettivo dell’aumento annuale del PIL, con il difficile raggiungimento della prosperità condivisa di Xi, costituisce un segnale di debolezza economica e politica.
Nota tricolore: secondo SACE13 nel 2019 il valore delle esportazioni italiane in Cina riguardanti l’edilizia sfiorava i 2 miliardi di euro.
C’è da preoccuparsi? Nì; i comparti interessati alle esportazioni non si limitano alla sola edilizia residenziale, ma un’onda lunga di crisi non può escludersi a priori, anche se sia Federal Reserve che BCE gettano acqua sul fuoco14. Sarà. E con questo poniamo fine alle sassate economiche, noiose, complicate e troppo spesso riportate a sproposito; visto che ci siamo, tiriamo allora la riga degli sbilanci geopolitici.
Due le considerazioni; la prima: tempo fa una pubblicità dissuasiva, (s)qualificando un aspirante presidente USA come un poco affidabile venditore di automobili, sfidava chiunque ad acquistarne i veicoli; la seconda: un coraggioso gladiatore ricordava che quanto compiuto in vita avrebbe riecheggiato per l’eternità. Se si dovessero considerare i tragici errori del maoismo, la repressione di Tien an Men, in Tibet, Hong Kong e Xinjiang, gli scontri confinari con l’India, la trappola del debito con il land grabbing, unitamente ad un riarmo impetuoso, qualche dubbio sull’artefatto paternalismo dei vari leader succedutisi al comando della celeste plancia insorge.
Ma non basta: a lungo solo il suono “Wuhan” non potrà non suscitare il ricordo di centinaia di migliaia di vittime cancellate con un tratto di penna da un presidente marxista osannato, ennesimo ossimoro, nel massimo consesso liberista.
Il sistema cinese, incompatibile con quello occidentale ha prodotto PIL, ma minimizzando dal 2012 le disastrose performance della Rivoluzione Culturale, ha riacceso forti perplessità sulle reali capacità di controllo su un progresso viziato dall’influenza burocratica di un partito che, con basse tattiche di infoware, ha tentato di attribuire ad altri la responsabilità di un contagio devastante.
C’è da fidarsi? La macchina la compreremmo davvero chiavi in mano? E la casa? L’acquisteremmo da chi ha costruito laiche cattedrali di cemento in un deserto? La tecnologia bellica ed il sistema di comando e controllo sono pari in quanto ad affidabilità ai sistemi di sicurezza dei laboratori di ricerca?
L’eco che riecheggerà in un’eternità frutto di un presente così manipolabile, potrebbe non essere né così celeste né così gradevole per le prossime generazioni, costrette a guardarsi da vie commerciali che di serico non hanno nulla.
1 È utile ricordare come la Cina, atea e comunista, nell'ambito della BRI, abbia concordato con il governo algerino la costruzione della più grande moschea africana.
2 Frank Dikötter, Mao’s Great Famine, 2010; nel testo viene attribuita al presidente Mao la responsabilità della morte di almeno 45 milioni di persone, per fame, malattie, o condannati alla pena capitale per non aver raggiunto gli obiettivi di produzione fissati o per aver dichiarato pubblicamente che erano irraggiungibili, o per aver criticato la politica governativa.
3 Giacca che indossava Mao
4 Guerra senza limiti. L'arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, di Liang Qiao e Xiangsui Wang
5 Basti pensare al 5G
6China, big spender or loan shark?
7 Secondo la Johns Hopkins University, tra il 2000 ed il 2019, nei confronti dei Paesi africani, i prestiti ammontano a circa 153 miliardi di dollari. I finanziamenti hanno riguardato principalmente trasporti, energia, comunicazioni ed acqua.
8 Come quelli previsti dal Club di Parigi, escluso scientemente dalla possibilità di ricorso
9 China Development Bank, Cdb, Export-Import Bank of China, Agricultural Development Bank of China
10 Ricordiamo Pakistan, Gibuti, Sri lanka, Cambogia, Kazakistan, Venezuela, Angola, Comore, Congo, Maldive, Tonga, Montenegro, Zambia, Laos
11 A questi si aggiungono UBS, Allianz, Blackrock
12 Xi ha introdotti tre limiti per le aziende immobiliari: un tetto del 70% sulle passività per le attività, un limite del 100% sul debito netto per il patrimonio netto e liquidità per coprire l’indebitamento a breve termine.
13 Gruppo di riferimento per tutte le esigenze assicurative e finanziarie italiane
14 Soggetti italiani interessati: Fideuram e Mediobanca.
Foto: Ministry of National Defense of the People's Republic of China / Xinhua / presidenza del consiglio dei ministri / China Daily