Non è vero, come dicono molti, che si può seppellire il passato. Il passato si aggrappa con i suoi artigli al presente1; è un concetto semplice, ma che in Afghanistan non attecchisce. Le armate macedoni, britanniche, sovietiche e, da ultimo, NATO, nell’arco dei secoli si sono scontrate con una realtà clanica ed asimmetrica che ha reso irraggiungibile la conquista di un Paese cardine nel gioco ad ampio spettro delle relazioni regionali, dove il territorio ha agevolato il prolungamento di una guerra fatalmente segnata da crimini2, e dove puntare sull’integralismo religioso si è rivelato intento autolesionista.
Momenti ed attori sono mutati, gli stessi Talebani hanno variato tattiche, struttura, tecnologie e propaganda; malgrado non abbia sbocchi sul mare, l’Afghanistan gioca un ruolo determinante per le sorti di una considerevole porzione planetaria.
In questo ambito, negli ultimi decenni l’Asia ha accresciuto il proprio ruolo internazionale e, con la fine dell’ordine bipolare, è stata impressa una velocità che l’ha posta centralmente rispetto alla politica globale, malgrado eterogeneità dei contesti nazionali ed estensione geografica3. Ed è qui che si è sostanziato il concetto di Indo-Pacifico, così come definito dall’ex premier giapponese Abe, un’unica estensione geopolitica che racchiude due Oceani e che conserva una vasta comunanza di interessi.
In Afghanistan si sono combattuti diversi conflitti, più o meno evidenti; a quello condotto dalla coalizione internazionale si è aggiunto lo scontro che ha coinvolto frammenti pashtun, tagiki, hazara che, potenziali detonatori di un conflitto etnico, hanno parcellizzato il Paese assecondando traiettorie contrastanti che hanno mostrato l’insorgenza talebana, termine concettualmente non esaustivo per un panorama così complesso, come entità politica di certo non monolitica.
L’umiliante ritiro delle truppe NATO, forti di un’indiscussa ma evidentemente inane tecnologia, dopo la guerra più lunga e costosa d’America, se da un lato ferisce un orgoglio occidentale immiserito da politiche interne al limite del nichilismo e da affermazioni diplomaticamente d’accatto che, comparando carrozze e zucche, hanno trasformato una sconfitta storica in una decisione epocale, fa immaginare l’Afghanistan come la classica mina innescata tra le zampe di un Wile E. Coyote in caduta libera, tenuto peraltro conto di un riassetto istituzionale che non potrà compiersi se non in tempi prolungati; la stessa Cina, pur confinando per un breve tratto, contribuisce alla creazione di un’entropia politica che, secondo le linee di un fronte instabile, giunge al porto di Gwadar, completando così il quadro delineato dal corridoio economico sino afghano pakistano, un transito che consente di evitare il choke point di Malacca sotto controllo USA, in un contesto percepito come imprevedibile, bizzarro, che acuisce la necessità di sapere se deflagrerà una nuova guerra civile, di certo lunga se si considerano la refrattarietà afghana per i monopòli, la perdita delle fonti di intelligence, e la posizione assunta dai mujahideen del Nord, avversi ai Talebani.
Dunque ancora il Dragone sugli scudi, con l’esaltazione, nel quadrante Indo Pacifico, degli aspetti asimmetrici tra obiettivi e linee strategiche sino americane che lasciano impregiudicate le possibilità di un confronto cinetico che vede gli USA partire da una posizione di vantaggio fondata su superiorità militare e logistica, e su una solida rete di alleanze strategiche, come quelle del Quad4 utili, peraltro, all’esercizio di una influenza economica concorrente a quella cinese.
È qui appena il caso di rammentare che l’Afghanistan ha riserve considerevoli di rame, carbone, ferro, gas, cobalto, mercurio, oro, litio e torio, per un valore di oltre 1.000 miliardi di USD, e che nel 2011 la CNPC5 si è aggiudicata, per 400 milioni di USD, il diritto di perforare tre giacimenti petroliferi, contenenti circa 87 milioni di barili, per 25 anni; le imprese cinesi hanno infine ottenuto i diritti di estrazione del rame a Mes Aynak, a circa 40 km a sud-est di Kabul.
Washington ha la responsabilità di aver sopravvalutato le proprie capacità di contrasto al terrorismo, un errore strategico che si sta ora ripetendo molto più pericolosamente che in Iraq, dove non c’era una forza politica concorrente assimilabile a quella talebana.
L’Indo-Pacifico diviene dunque scenario integrato e centrale nella stabilizzazione degli equilibri internazionali, caratterizzato dalla ridefinizione dei rapporti di forza condizionati dall’assertività cinese, basilare per la stesura di una configurazione geopolitica che segue una nuova mappa asiatica tratteggiata secondo un arco di continuità. Sotto quest’ottica, il disimpegno da Kabul si rivelerà controproducente laddove gli accordi con i Talebani si paleseranno vantaggiosi solo per gli USA; è palmare che ritirare le forze consente di indirizzare altrove le risorse, ma ingenera di contro un senso di inaffidabilità così forte da indurre i Paesi circostanti, impegnati nel contrasto al radicalismo islamico, ad affidarsi a Xi quale alfiere dell’anti-terrorismo transfrontaliero dell’ISIS ed uomo della pioggia6, abbandonando definitivamente al loro destino gli uiguri dello Xinjiang, cui non è sufficiente professare la stessa fede islamica.
Tanti gli attori di rilievo: intanto India e Pakistan, con il secondo, che dalla fine del XX secolo persegue l’aspirazione geopolitica di fondare un grande stato formato dai territori afghani meridionali, divenuto fondamentale per Pechino ed impegnato nella preservazione di una profondità strategica in chiave anti indiana, ma a cui Washington ha revocato i privilegi concessi dopo la rivoluzione teocratica iraniana e l’invasione sovietica dell’Afghanistan, per accordarli a Delhi.
Tenuto conto che gli studenti coranici non risultano invisi alle autorità di Islamabad, che li hanno sostenuti con il secondo governo di Benazir Bhutto7, va ricordato che l’India, pur avendo reso i rapporti più complessi dopo i raid aerei contro il Pakistan ed ancor di più dopo la cancellazione dell’autonomia del Kashmir, si è interposta diplomaticamente fin dal 20118, investendo cospicuamente in strategiche opere infrastrutturali e di comunicazione9, senza porsi particolari problemi di ordine religioso, anche grazie agli inviti di Washington conformati ad una sostanziale realpolitik, la stessa che, tuttavia non ben gestita, nel febbraio 2020 ha condotto l’allora segretario di Stato USA Mike Pompeo, ed il Talebano mullah Abdul Ghani Baradar, a siglare un accordo bilaterale scarsamente produttivo in quanto ad esiti, e che ha lasciato al presidente Biden, oggetto sia dei tentativi di dissuasione da parte dei militari sia delle lodi di Trump, la gestione di una difficile exit strategy da concretizzarsi entro settembre di quest’anno.
Trump, ottenendo la fine delle ostilità con i Talebani, escludendolo da qualsiasi trattativa, ha di fatto indebolito il governo afghano imponendo condizioni non condivise, ma conferendo al movimento Talebano, che non riconosce il presidente Ghani, una inaspettata legittimità internazionale che non ha impedito gli eccessi di violenza rilevati dalle cancellerie occidentali.
Al momento, anche il sostegno offerto ai Talebani dal primo ministro pakistano Imram Khan va interpretato in termini realistici secondo un fondamento strategico che ambisce a mantenere una forte influenza in ambito afghano in ragione dell’appoggio al movimento da parte dell’opinione pubblica pakistana.
Non c’è dubbio che gli americani abbiano garantito un equilibrio sul limes sino afghano tale da permettere l’apertura della finestra cinese di opportunità strategica ora a rischio, dato il vuoto di potere che determina un’alea di incertezza al contrasto alla tattica del terrorismo, una situazione estremamente fluida cui la Cina ha comunque reagito stringendo accordi sia con i talebani sia con Islamabad, sensibile ai finanziamenti promessi.
Ma non è tutto: l’Afghanistan è anche punto di confronto geopolitico tra le superpotenze old fashioned, USA e Russia, con la Russia che, temendo per la tenuta della cintura protettiva meridionale, e scopertasi terminale di un cospicuo traffico di oppiacei, ha tenuto un profilo basso sull’Afghanistan ospitando i talebani, corteggiando l’opposizione al presidente Ghani, restituendo notorietà all’ex presidente Karzai, benevolmente disposto a gettare nel dimenticatoio l’occupazione di Mosca, per riaffacciarsi sul proscenio con un sottile soft power improntato al modello siriano, puntando sia al controllo dell’Asia centrale, sia ad evitare che americani e cinesi si convincano della difficoltà russa nel controllare gli eventi10; Mosca non ha motivo di prendere possesso del vuoto lasciato dagli USA, sia per effetto della scarsa vena filoslava del presidente Ghani, sia per il saggio ed inevitabile coinvolgimento talebano nelle dinamiche politiche, sia per l’adombrato supporto fornito alle milizie talebane segnalato dal Generale J. Nicholson nel 2016 e dall’Intelligence americana nel 2020.
Che gli yankee, as usual, come a Cuba nel ‘62 e per gli euromissili dell’80, non abbiano compreso appieno i fattori determinanti della politica estera russa appare evidente, come sembra evidente la sorpresa generata dall’assertività, dalla contraddittorietà e dall’agilità politica del Cremlino; resta solo da comprendere in quale misura possano tararsi il merito russo e l’impreparazione occidentale. Mentre i confini afghani diventano una querelle internazionale, ed i Talebani asseriscono di controllare i valichi con Pakistan, Tagikistan, Cina, Uzbekistan, il ministro degli Esteri cinese invita gli studenti coranici all’abiura dei rapporti con i gruppi jihadisti ed alla riconciliazione con i soggetti politici afghani, in accordo con linee che puntano a legittimare l’avanzata talebana contro le Forze armate regolari di Kabul per proporsi come validi interlocutori con paesi confinanti e potenze di riferimento; ecco che la Cina viene definita paese amico foriero di investimenti, e che la Russia viene blandita per non correre il rischio che le forze armate del Cremlino, prossime ad un intervento di stabilizzazione in Tagikistan, vengano impiegate altrimenti.
Mentre Mosca sa di non disporre di soluzioni, ma è cosciente di aver acquisito rilevanza politica sul piano internazionale, la Cina ha assunto parte del controllo del settore minerario preparandosi per fare dell’Afghanistan un hub della BRI, a prescindere dal DNA del prossimo governo afghano. Se Parigi val bene una messa, la Cina può senz’altro sostenere un regime talebano pur di salvaguardare confini ed investimenti, anche a costo di sacrificare il rapporto politico con il Pakistan, come accaduto con il colpo di stato in Myanmar, tenuto comunque conto del fatto che Pechino è già pervasivamente più che presente, dal punto di vista economico, negli affari di Islamabad11. Ad ovest di Kabul Teheran guarda alla possibilità di contare su un esecutivo in grado sia di contenere la presenza americana sia di controllare le basi aeree, spina nel fianco orientale della Repubblica islamica12, che a Mashhad ha ospitato a lungo una shura13 della guerriglia.
In opposizione allo sciismo iraniano rimane la sponda sunnita-saudita che, tuttavia, conserva legami sia con i gruppi jihadisti pakistani ed afghani, sia con la famiglia Haqqani, la più ortodossa dell’universo talebano. Del resto la componente wahhabita, riveste un’importanza significativa, visto che l’impronta salafita ha caratterizzato da sempre il movimento talebano, che ha fatto sua la radicalizzazione qaidista, che ha trasformato il conflitto afghano da locale a globale, aspetto che rende difficile un intervento saudita, data l’inaccettabilità di un insuccesso politico e strategico in capo a Riyadh.
Anche il Qatar, aspirante dominus regionale, si è posto in evidenza ospitando a Doha il negoziato talebano-americano fregiandosi di tutti i successi lì conseguiti, con gli EAU quale forziere in grado di assicurare un flusso di finanziamenti costanti a prescindere dalla matrice ideologica del prossimo governo afghano.
Come recitava una hit di qualche anno fa, cosa resterà? Seguendo la linea precedentemente tracciata da Obama e Trump, Biden ha abbandonato la remora afghana, segnando così la fine di questa fase egemonica, e ponendo le basi per l’inizio di un nuovo conflitto, che interesserà i soggetti geopolitici eurasiatici.
Checché ne dica la sinistra dem americana con B. Sanders ed E. Warren, gli USA ritirandosi hanno palesato una preoccupante debolezza destinata a riverberarsi nell’immediato sulla popolazione civile, in particolare sulle donne. Mai il pivot to Asia americano è stato così incerto e pericoloso.
La Turchia, che punta a somalizzare Kabul, ambisce a rimanere militarmente sul suolo afghano, ergendosi a campione sunnita, ma partendo da premesse inconsistenti: i Talebani hanno chiesto supporto tecnico, non soldati, Ankara ha invocato il denaro necessario a sostenere il proprio impegno bellico. Un proposito geopolitico d’espansione quello di Ankara, che necessita di sponde ora offerte dall’Ungheria di Orban in rotta con Bruxelles e bisognoso di appoggio americano, ma che andrebbe prima finanziato dall’egemone in ritirata, e poi condotto da chi ha elevato a sistema la propria inaffidabilità. Se non ci fosse sul terreno il progetto pan islamista di Ahmet Davutoglu, che punta a stabilire una sfera d’influenza nell’heartland eurasiatico, sarebbe solo esilarante, così è grottesco. Le ambizioni imperiali turche rendono più strutturata la condotta della politica estera regionale, mentre la Cina guarda alla destabilizzazione conseguente al ritiro americano ed ai rigurgiti indipendentisti uiguri, senza contare che gli accordi economici tra Pechino ed Ankara non cancellano i dubbi Han circa la coerenza politica neo ottomana, in un momento in cui Xi Jinping è assorbito dalla geopolitica del Mar Cinese Meridionale.
Anche l’Iran percepisce la minaccia talebana, tanto che ha optato per l’appoggio dell’insorgenza dell’Alleanza del Nord, nella previsione di dover colmare una faglia geopolitica che già ora costringe Teheran su più fronti, non ultimo il JCPOA; mentre il grande Ayatollah Golpaygani, uno dei religiosi più anziani, ha criticato la linea politica tenuta dalla Repubblica islamica, l’agenda del presidente Raisi annota rapporti e negoziati sia con le frange talebane sia con il legittimo governo in carica. Mentre Islamabad sfrutta i Talebani quale background strategico con l’India per la problematica Kashmir, New Delhi manifesta il suo disappunto circa la legittimazione Talebana, poiché giustamente convinta che tutto ciò potrebbe concorrere ad un accerchiamento cinese, con Pechino pronta a sfruttare il suo potere economico nei confronti pakistani, attraendo, ob torto collo, anche il deep state indiano nella sua orbita. È il momento di chiudere trama ed ordito di una tela dai colori cangianti.
Parafrasando Edward Lorenz, un battito d’ali di farfalla afghana provoca uragani indopacifici. Si chiude nel declino statunitense una fase egemonica violenta e se ne apre un’altra, enigmatica e controversa, che richiederà la taratura di un nuovo equilibrio di potenza. Mentre le milizie Talebane, profondamente diverse da quelle a cui l’Occidente, nel suo sopore, era avvezzo, riprendono le armi per ripristinare l’emirato del mullah Omar ovvero un regime nazionale dominato dall’etnia pashtun, cedendo alle lusinghe della realpolitik cinese il vuoto generato dalla partenza delle armate dell’ovest viene riempito con sapiente lentezza, grazie ad una diplomazia e ad una filosofia politica che optano per i rapporti sotto traccia e per un’accorta politica del doppio forno, con ciò a dimostrare che il possesso di mezzi ancorché potenti non colma carenze culturali e di prospettiva.
L’Afghanistan è un vaso di Pandora da cui trarre profitti, ma che obbliga a tener sempre desta l’attenzione circa la concreta possibilità di perdite dovute ad un qualsiasi cigno nero che nessun egemone degno di questo titolo può permettersi di non prevedere.
L’attuale evoluzione storica ci conferma che, nel susseguirsi dei cicli temporali, sul panorama geopolitico non sempre si è stagliato un impero lungimirante: è ora evidente la difficoltà di un attore che, pur in possesso della massima potenza militare e tecnologica, non riesce a coniugarvi un’adeguata sagacia politica.
Indicativi i richiami alla prudenza degli inascoltati strateghi del Pentagono e di Hillary Clinton, cui fa da contraltare il plauso dell’ala estrema dello stesso partito, completamente priva di visione e profondità strategica, di cui sa fregiarsi invece la Cina. Nessuna glorificazione: la politica è come il Bolero di Ravel, diabolicamente ineseguibile alla domenica; ma abilità, competenza e mestiere non possono essere sottaciuti, specialmente se in possesso di un pericoloso antagonista che fa del realismo il suo unico e proficuo credo. Del resto non è la prima volta che gli alleati d’oltre oceano decidono il ritiro venendo meno alle promesse di stabilizzazione e lasciando il Paese di turno nel caos; è accaduto in Libano nel 1983, si è ripetuto in Somalia nel 1994: evidentemente poteri e responsabilità vanno a braccetto solo a Hollywood.
Se gli USA intendono contenere la Cina e controllare l’Indo-Pacifico, non possono perdere il dominio dell’Afghanistan, e devono affrontare due rischi ben precisi: il ritorno di al-Qaeda, prossima a diventare il maggior beneficiario di un regime talebano, e la possibilità di dover risbarcare a Kabul.
Mentre Washington intende dedicarsi alle dinamiche internazionali, Pechino sta rafforzando la propria posizione in via regionale, mentre la Russia, con l’Iran che si sta avvalendo della presenza di una nuova milizia sciita a Kabul, ha assunto una postura volitiva soprattutto in Siria, Yemen ed Ucraina; ad essere brutalmente onesti, l’abbandono del territorio non rientra nel novero dei lampi di genio, dato che non supporta né il contrasto al terrorismo né la competizione con le grandi potenze, che anzi possono beneficiare del maggior spazio di manovra; agli USA non rimane dunque che rafforzare l’intelligence e l’impegno navale nel Golfo, utile a monitorare gli avvenimenti afghani visto che, abbandonata Bagram, la base più vicina sul fianco del Comando Centrale sarà in Qatar, a migliaia di miglia dalla Cina.
La carenza di diottrie geopolitiche europee si tara qui, sulla puerile esultanza per l’apparente soluzione di un problema che in realtà è stato solo accantonato, e sul miope trionfo ideologico di cortile.
Pensando al rischioso approccio wilsoniano della nuova amministrazione americana in MO, è possibile rifarsi al pensiero di Richard Dawkins, per il quale "Un delirio è qualcosa in cui le persone credono nonostante la totale mancanza di prove": è il caso dell’Iran, con il quale la Casa Bianca riteneva di appianare i contrasti solo per aver decretato il termine della campagna trumpiana della massima pressione, eventualità smentita dall’elezione dell’intransigente Ayatollah Raisi.
In cauda venenum: l’Italia.
Mentre il ritorno del contingente italiano dall’Afghanistan passava in imbarazzante sordina, altri militari italiani approntavano lo smantellamento della base di al Minhad, negli EAU, conseguenza della crisi innescatasi con alcune delle principali potenze arabe14; una crisi peraltro anticipata, in termini politici, dalle inaspettate difficoltà incontrate per la partecipazione all’operazione europea a guida francese di pattugliamento aeronavale dello Stretto di Hormuz EMASOH15, una missione che mira a contenere l’assertività iraniana, ora peraltro vincolata a Pechino, e che dovrebbe trovare base presso strutture emiratine che potrebbero non gradire presenze italiane.
Alla luce di queste considerazioni, l’opportunità offerta da Anthony Blinken di divenire crocevia regionale fattivo della politica mediorientale appare abbastanza remota; che la diplomazia sia tornata a calcare le scene è vero, che il nostro sistema sia pronto a partecipare pienamente alle rappresentazioni è da verificare, tenuto conto del fatto che, al di là delle assenze ingiustificate presso gli scali aeroportuali di arrivo del personale militare, non è pervenuta alcuna valutazione ad ampio spettro di un’area che, come visto, è quanto mai ribollente e globalmente connessa.
1 Khaled Hosseini, “Il cacciatore di aquiloni”
2 Le NU hanno denunciato un aumento delle uccisioni di civili in Afghanistan da parte dei gruppi antigovernativi, ed Amnesty International ha chiesto che talebani ed altri gruppi insorti siano incriminati e processati per crimini di guerra. L’Australia chiede ufficialmente scusa a Kabul per l’uccisione di civili e prigionieri da parte dei suoi soldati tra il 2005 e il 2016. Cnn: "I talebani giustiziano a freddo 22 soldati arresi": la Croce Rossa segnala il ritrovamento di 22 corpi in quello stesso villaggio
3 Concettualmente dal Giappone alla costa est del Mediterraneo
4 Quadrilateral Security Dialogue, Australia, Giappone, India, USA
5 China National Petroleum Corporation
6 In gergo legale è l'avvocato che procaccia le cause più ricche, quelle che producono i profitti più alti
7 Si ricorda il supporto dei servizi segreti pakistani e del dirigente del Ministro degli interni Naserullah Babar
8 Vanno comunque normalizzate le relazioni, dato che i talebani hanno ospitato ripetutamente gruppi ostili all’India.
9 Vd. diga di Salma cui hanno provveduto per la sicurezza i militari italiani, e la diga di Shatoot lungo il fiume Kabul
10 Da ricordare comunque la presenza delle forze Uzbeke, Kazake e Tagike, le basi russe in Tagikistan e Kirghizistan; Il coordinamento tra queste varie forze è assicurato attraverso la Collective Security Treaty Organization (CSTO), alla quale appartengono Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan; e a livello bilaterale con l'Uzbekistan. Nell’ottobre 2012, è stato firmato un accordo che estende, fino al 2042, il periodo di stazionamento della base militare russa in Tagikistan.
11 Islamabad ha chiesto la ristrutturazione di 3 miliardi di interessi su un prestito da 31 miliardi concesso dalle banche cinesi per finanziarie le infrastrutture energetiche, Ma Pechino ha risposto negativamente.
12 Alcune fonti riferiscono che l’accordo tra americani e talebani comprenderebbe (in quota parte della documentazione lasciata riservata) una clausola a garanzia del controllo USA sulle basi aeree afghane
13 Consiglio
14 EAU, Arabia Saudita ed Egitto
15 European Maritime Awareness in the Strait of Hormuz
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