Gli sviluppi dopo il referendum nel Kurdistan iracheno

(di Antonio Vecchio)
14/10/17

Lo svolgimento del referendum consultivo del 25 settembre scorso per l’indipendenza della regione autonoma del Kurdistan iracheno (KRG), con i suoi dati di partecipazione (72,6%) e consenso a favore della secessione (92,7%), ha aperto un nuovo capitolo nel fragile equilibrio dell’area.

Ma qual è la situazione, a poco più di due settimane dalla votazione?

Il parlamento iracheno, come era prevedibile, ha condannato la consultazione definita dal premier Al Abadi “incostituzionale”, precisando che “nessun dialogo potrà aver luogo con Erbil se il referendum non sarà annullato”.

Questa settimana sono stati bloccati i flussi bancari con il KRG e si è proceduto alla nazionalizzazione delle compagnie telefoniche ivi operanti, la più importante delle quali - la Korek - è di proprietà della famiglia Barzani (sul presidente del KRG, Masoud Barzani, pende ora un vecchio procedimento per corruzione, ripescato nei giorni successivi al referendum).

In aggiunta a questo, l’11 ottobre scorso, una procura irachena ha spiccato un mandato di arresto nei confronti dei dodici membri della commissione elettorale indipendente che aveva il compito di presiedere al corretto svolgimento della consultazione, rei di aver violato la legge della Corte Suprema dello Stato.

Cresce intanto, da parte del Consiglio di Sicurezza del KRG, la paura per “possibili attacchi significativi” da parte delle milizie a sud di Kirkuk e nord di Mosul, che ha causato la momentanea chiusura, il 12 ottobre, delle uniche due strade che collegano il KRG a Mosul, passando per Erbil e Dahuk.

Indicativa al riguardo la dichiarazione alla rete Tv Kurdistan-24 del capo di una delle milizie popolari sciite (PMF) che fanno capo a Hashd al Shaabi, di voler liberare quanto prima l’intera provincia di Kirkuk, l’area di Shingal e la piana di Ninive.

A gettar un po’ di acqua sul fuoco, il 12 ottobre, la dichiarazione del primo ministro Al Abadi (foto) che “mai saranno imbracciate armi contro i curdi d’Iraq”, seguita poche ore dopo dal posizionamento di mezzi pesanti e artiglieria delle Iraqi Security Forces (ISF) alle porte della città petrolifera di Kirkuk.

Alla fermezza del governo regionale di Erbil fa da contraltare la frammentazione dei due principali partiti di opposizione curdi, Gorran e Partito dei Lavoratori (PUK), che hanno in precedenza rispettivamente osteggiato e “non contrastato” il referendum.

Negli ultimi tempi, infatti, sono aumentati in seno al PUK di Kirkuk, probabilmente su pressione dell’Iran, le divisioni interne per non aver a tempo debito contrastato il referendum, concedendo prima del voto libertà di coscienza.

Il timore di pagare un caro prezzo alle prossime elezioni amministrative previste per metà novembre e la recente morte di Jalal Talabani (foto), padre nobile del partito e vecchio presidente dell’Iraq, hanno considerevolmente aumentato la differenza di posizioni all’interno della compagine politica.

A tale situazione di stallo, si aggiungano i rancori verso il presidente Masoud Barzani, il cui mandato è scaduto nel 2015 uniti alle rimostranze per il congelamento dei lavori parlamentari, per comprendere la fragilità del fronte politico curdo, acuita dalle preoccupazioni per le possibili, future mosse che le milizie sciite potrebbero intraprendere contro i Peshmerga.

Motivo di inquietudine è infine dato dalle dichiarazioni turche a sostegno della minoranza turkmena di Kirkuk e dalle verosimili pressioni iraniane sul premier Al Abadi, che da una azione netta contro il KRG potrebbe vedere, in vista delle future elezioni di novembre, la sua leadership rafforzata in seno alla componente araba dello Stato.

Allargando il campo, l’Iran ha immediatamente condannato il referendum, sia con la minaccia del presidente Hassan Rouhani di chiudere i confini - cui però non è stato dato alcun seguito -, sia con iniziative più marcate, come il recente meeting a Teheran tra i capi di stato maggiore iraniano e turco.

Il vantaggio di Teheran rispetto ad Ankara, che ne amplifica potenzialmente il campo di azione, è dato dal poter contare su un proxy importante come le PMF, regolarizzate (e retribuite) dal governo di Baghdad lo scorso dicembre.

Da notare, al riguardo, come più volte nell’ultimo periodo sia stata riportata nel KRG la presenza del gen. Soleimani, capo della guardie rivoluzionarie iraniane e principale regista dell’azione militare persiana all’estero.

Passando alla Turchia, Erdogan è tra i leader quello che ritiene maggiormente l’iniziativa e lo dimostrano i suoi recenti contatti con primo ministro iracheno Haider Al Habadi e con il presidente iraniano Rouhani, dai quali è scaturita la dichiarazione ufficiale che nessuna iniziativa sarà intrapresa, se non sarà stata prima concertata dai tre Paesi.

La sua azione è mossa principalmente dal timore di uno stato indipendente curdo ai propri confini, potenzialmente in grado di risvegliare le ambizioni dei “turchi delle montagne”, appellativo dato da Ankara agli abitanti di etnia curda che vivono nel Paese, pari al 20% circa.

Sarà interessante vedere come la Sublime Porta intenderà coniugare la sua decisa postura nei confronti della iniziativa referendaria di Erbil, con gli ingenti interessi economici che detiene nel KRG.

Al momento, però, al netto delle tante dichiarazioni di minaccia, fatta eccezione per la chiusura dei voli sul capoluogo della regione autonoma, nessuna misura è stata intrapresa nei confronti del partner curdo, con il quale proseguono normalmente le relazioni commerciali.

Cosa dire dei principali due attori esterni, Russia e USA?

Putin, come già riportato la scorsa settimana su questo testata, ha assunto sin da subito un atteggiamento ambivalente nei confronti del referendum, dettato principalmente dalla volontà di non voler indisporre l’Iran con cui coopera in Siria, e la Turchia per la sua crescente importanza nello scacchiere.

È da notare, però, come i massicci interessi economici con il KRG, in questa fase, stiano condizionando significativamente la postura di Mosca.

Infatti, alla dichiarazione di Putin del 4 ottobre scorso di non ingerenza negli affari interni iracheni, è seguita, quattro giorni dopo, quella del suo ministro per l’energia, Alexander Novak, in ordine al progetto di convogliare parte del sistema di pipeline curdo sino al Mar Nero.

Singolare che la posizione di Mosca questa volta appaia convergere con quella degli USA, interessati a una possibile interruzione dell’ “arco sciita” creata da uno stato curdo indipendente, e preoccupati dall’attivismo iraniano in Iraq.

Potrebbe essere proprio questa “insolita convergenza” di interessi russo-americana a ispirare l’azione del vecchio Barzani, che non appare particolarmente scosso dagli ultimi avvenienti, assieme alla convinzione che difficilmente la Turchia passerà dalle parole ai fatti, considerati i suoi tanti interessi economici e finanziari che la legano al KRG.

Le prossime settimane ci diranno se tale visione risulterà vincente.

(foto: U.S.. Army / U.S. Air Force / U.S. DoD / presidenza della Repubblica turca / Türk Silahlı Kuvvetleri)