Cinquantatre (+1, ndd) è il numero dei caduti italiani nel conflitto afghano. Seicentocinquantuno è il numero dei feriti italiani nel conflitto afghano.
Questo è stato il costo - tremendamente alto per quella che ci è stata sempre propinata come una "missione di pace" - della presenza armata nazionale in Afghanistan da vent'anni a questa parte. Cosa rimane all'Italia di questa esperienza non è politicamente utilizzabile né umanamente tangibile. Al di là di qualcosa di utile (l'esperienza sul campo) per aggiornare la dottrina militare relativa alla controguerriglia, per il resto un pugnetto di sabbia come souvenir è quanto gli Italiani riportano indietro dalla "tomba degli Imperi".
Il "ve lo avevamo detto" dei reduci d'ogni grado, dai generali ai soldati semplici, risuona come una condanna per tutta la classe politica nazionale, da destra a sinistra nessuno escluso.
E se l'onore militare è salvo grazie alle battaglie vinte ed all'opera prestata, quello politico rischia di crollare sotto le pesanti colpe di non aver voluto salvare - ancora - gli interpreti ed i collaboratori afghani del nostro contingente che, a vario titolo, hanno sostenuto la presenza delle nostre forze nel Paese contribuendo alla buona riuscita dell'operazione in una delle province, quella di Herat, nelle quali la presenza talebana era massiccia.
Vent'anni di sacrifici buttati al al per calcoli elettorali altrui, è la triste storia di una Italia che partecipa alle missioni internazionali per ordini provenienti da oltrefrontiera e non per gli interessi nazionali.
In una intervista di qualche giorno fa il generale Marco Bertolini ha dichiarato che "l'Afghanistan non è un Paese occidentale". Una ovvietà geografica si dirà, ma che contiene una grande verità storica: l'Afghanistan è una terra che non può essere conquistata e poi "liberata" secondo i canoni della guerra e della politica occidentali. L'Afghanistan non è una nazione ma un agglomerato di tribù dove forte è l'appartenenza etnica, ancor più quella religiosa, fortissimo l'isolazionismo perché è nei "piccoli spazi" che si esercita il potere e la sua logica di gestione è clanica.
L'Afghanistan si trova in una posizione strategica, fin dai tempi del "great game" anglo-russo di fine '800 dove faceva da cuscinetto tra l'Impero zarista ed il Raj britannico d'India, per poi ricoprire lo stesso ruolo tra Unione Sovietica ed India.
Oggi il Corridoio di Wakhan collega l'Afghanistan alla Cina incuneandosi tra Pakistan e Tajikistan e sarà sicuramente, con la vittoria dei talebani, uno dei problemi geopolitici più stringenti per Pechino (v.articolo).
La geografia condanna l'Afghanistan ad essere periodicamente al centro delle dispute internazionali, vittima di spinte e controspinte provenienti da Ovest e da Est, da Nord come da Sud, ma la storia lo vuole particolarmente "fiero" della sua libertà tribale.
C'è un filo rosso che lega la sconfitta subita dagli Inglesi a Gandamak nel 1842, il ritiro (nonostante la vittoria) delle giubbe rosse da Kandahar nel 1881, la disfatta dell'Armata Rossa nel decennio 1979-1989 e la fuga frettolosa della Coalizione dopo vent'anni di guerra e guerriglia oggi. E questo "filo rosso" è quello della mancata comprensione dell'Afghanistan, della sua essenza profonda.
Basta vedere l'indice di sviluppo umano, il livello infrastrutturale, il progresso nella qualità della vita che le truppe ed i funzionari civili della Coalizione hanno portato nelle province afghane che hanno, per un periodo, governato direttamente e poi "de facto"; un'opera positiva è stata inevitabilmente portata avanti ma si tratta di un "modello alternativo" di vita rispetto ai canoni afghani che non poteva essere accettato dalla popolazione.
Lo stesso vale per le istituzioni governative afghane troppo deboli, troppo lontane dal popolo, incapaci di controllare il territorio perché modellate sulla base della statualità euro-occidentale.
L'esercito afghano, addestrato ed equipaggiato dalla Coalizione, si è sciolto come neve al sole di fronte all'avanzata talebana, interi reparti hanno varcato le frontiere con l'Iran e con il Pakistan consegnando le armi per evitare la sicura rappresaglia islamista e lo stesso "fronte di resistenza" annunciato dai governativi e da qualche giornalista occidentale non è nulla più che il frutto della propaganda diffusa a poche ore dalla sicura caduta di Kabul.
Mentre si consuma la tragedia afghana, con Kabul divenuta una nuova Saigon, e con le bandiere bianche dei talebani che sventolano nei sobborghi, finisce drammaticamente anche il "sogno" degli europei nella NATO (ben più radicali dei neoconservatori statunitensi) di fare di questa terra dell'Asia Centrale una liberaldemocrazia.
Agli Americani interessava dare la caccia ai terroristi in un Afghanistan "pacificato" e dominato dai signori della guerra, forse l'alternativa più realistica all'Emirato talebano, gli europei sono stati invece "abbagliati" dal sogno di esportare la democrazia.
L'Afghanistan è stato un Iraq a parti invertite da questo punto di vista e le conseguenze le abbiamo pagate e le pagheremo a caro prezzo.
Foto: U.S. DoD