L’imperversare del Covid-19, in taluni casi, non sembra impedire l’evoluzione delle crisi sottese alle relazioni internazionali. La Libia non è esente da queste dinamiche; un indice della criticità della situazione si è evidenziato con le dimissioni di Ghassan Salamè, capo delegazione ONU; dimissioni che, per molti, non hanno costituito una sorpresa, a prescindere dagli addotti "problemi di salute", tanto da far pensare ad una decisione spinta da elementi esterni, magari da quegli stessi segmenti di potere che hanno più volte accusato Salamè di non essere in grado di comprendere la realtà libica, e di non essere riuscito a conquistare la fiducia né dell’ala tripolina né di quella di Bengasi, verso cui è stato accusato di un attendismo che ha consentito ad Haftar di portare avanti la sua azione volta a prendere Derna ed il Fezzan secondo una valutazione (ingiusta) che non ha tenuto conto della mancanza di rispetto del feldmaresciallo. Al di là di tutto Salamè, gettando la spugna, ha lasciato la Libia nel caos e con una produzione petrolifera inconsistente.
Proprio il calo dei proventi riconducibili all’estrazione del greggio sta penalizzando l’efficienza del servizio sanitario libico che, già provato da anni di guerra, vede estinguersi una fonte di risorse utili al pagamento del personale ospedaliero. Del resto, pur a fronte dell’apparente accoglimento dell’invito ONU del 22 marzo di una tregua umanitaria per la pandemia in atto, le violazioni si sono susseguite con reciproche accuse, sancendo così uno stato di perenne ostilità determinato dalla fragilità degli accordi stretti già a partire dalla Conferenza di Berlino che non ha prodotto alcun risultato di valore duraturo; data la posizione di forza acquisita, una tregua umanitaria, per Haftar, è scarsamente vantaggiosa, visto che, tra l’altro, il generale è riuscito comunque a ricevere un ampio riconoscimento internazionale pur non essendo a capo di un governo internazionalmente riconosciuto.
Nessuna sospensione del conflitto dunque, perché imporrebbe azioni coordinate con la controparte, ma che inevitabilmente accrescerà l’emergenza sanitaria, con sullo sfondo il costante supporto fornito dai vari mentori, a cominciare dai mercenari Siriani a supporto di Serraj, per passare agli aiuti emiratini, egiziani e giordani per Haftar che può contare anche sulle prime spaccature interne al governo di Tripoli, con il ministro dell’Interno Fathi Pashaga impegnato a perseguire un’azione di riavvicinamento ad USA e UK che sembra molto più personale che collegiale, ed indirizzata al contenimento del potere delle milizie. Sotto questo aspetto, non vanno sottovalutate le dichiarazioni del portavoce dell’LNA, al Mismari, che ha rivelato che il Comando, ottemperando alle richieste dell’ONU, potrebbe decidere di interrompere le ostilità contro Tripoli per confermare la volontà di costituire un governo di unità nazionale con il compito di portare il Paese alle elezioni.
Al momento, per contrastare l’azione di Haftar, Serraj ha dato il via all’operazione di autodifesa Tempesta di pace, ulteriore elemento di preoccupazione per quelle cancellerie che, a dispetto del coronavirus, riescono a tenere la barra sulla politica estera, prestando attenzione peraltro all’incerto rispetto dell’embargo sulle armi destinate alla Libia.
Al di là delle buone intenzioni, Haftar ha preso il controllo della città di Zliten, e di parte delle zone antistanti il confine tunisino, continuando a lanciare missili su Tripoli dalla Base aerea di al Watiya (ancora oggetto di contesa), a poca distanza dalla capitale, con un’ulteriore legittimazione all’uso della forza da parte del generale, a seguito dei controversi risultati di Berlino, più utili a segnare il definitivo declino della moral suasion europea.
Data la debolezza del governo riconosciuto, e la volitività dell’anziano Haftar, determinato a bloccare gli oleodotti, l’unica strada che sembra più logicamente portare alla fine delle ostilità è quella che passa per la debellatio di una delle parti in conflitto.
Nel frattempo Haftar si è avvicinato al confine tunisino, attendendo di coordinarsi con il locale governo; da notare che le forze tripoline in fuga si stanno dirigendo proprio verso il confine tunisino. L’assalto alla capitale libica, intanto, alimenta preoccupazioni sia in Algeria che in Tunisia, consce di un aumento dell’instabilità regionale, vista anche l’estrema porosità confinaria di una zona peraltro scarsamente popolata e difficilmente controllabile ai fini della preservazione dell’integrità degli impianti petroliferi.
A differenza dell’Egitto, che ha confermato la sua linea pro Haftar, sia Algeri che Tunisi hanno preferito mantenere una equidistante neutralità, evitando, al di là delle formalità ufficiali, di farsi coinvolgere nel conflitto libico, probabilmente anche per effetto delle complesse condizioni politico-economiche interne. La posizione algerina, in proposito, vede il riconoscimento del GNA, ma non nega un ruolo decisorio ad Haftar, impegnato nella campagna del Fezzan proprio in coincidenza con le contestazioni algerine contro l’ennesima candidatura del presidente Bouteflika.
Un altro aspetto che può indurre alla preoccupazione Haftar e ad indurlo a decidere per un’ulteriore accelerazione degli eventi, può individuarsi nel nuovo governo Tunisino di Elyes Fakhfakh, in cui la presenza del partito islamista Ennahda, in appoggio a Turchia e Qatar, potrebbe far pendere la bilancia verso il GNA di Serraj.
In questo momento, quindi, con le petromonarchie in supporto politico, ma geograficamente distanti, la Tunisia si trova alle prese con crescenti problemi di sicurezza che evidenziano la necessità di coordinamento e condivisione delle informazioni, di pianificazione e valutazione tattico-strategiche; questo alla luce del ricordo, sempre vivo, delle imprevedibili minacce che, nel tempo, sono giunte dal vicino libico.
Vale la pena ricordare l’incidente di Gafsa del 1980, in cui la Libia organizzò un’azione armata contro il governo tunisino, a cui è seguita nel 2016 l’azione di cinquanta militanti dell’ISIS che, provenienti dalla città libica di Sabratha, hanno cercato di prendere possesso del centro di Ben Gardane. Da qui nasce la necessità tunisina di porre rimedio alle carenze tattiche ed operative secondo una pianificazione proiettata a contenere le possibili traiettorie libiche da ora ad almeno 20 anni, visto che, peraltro, Tunisi nel tempo è rimasta senza punti di riferimento politico amministrativo costanti a Tripoli. È innegabile che la Libia rimanga una preoccupazione per la sicurezza nazionale tunisina, in un contesto in cui i militari tunisini sono costretti da un lato a prendere contatto con i molteplici rappresentanti delle varie milizie libiche, dall’altro a continuare a sostenere la via diplomatica.
Mentre la Tunisia chiude i confini per contenere il coronavirus, si fa più forte la pressione sugli stati confinanti con la Libia per un intervento a detrimento delle ambizioni di Haftar; malgrado le rassicurazioni del presidente Tunisino Saied che non intende muoversi dalla sua proclamata neutralità, il generale ha impartito gli ordini necessari a controllare la frontiera tra Ras Jedir e Dhehiba, per evitare che la Tunisia possa diventare un serbatoio jihadista con la connivenza dei Fratelli Musulmani.
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