Il “sogno cinese” di Xi Jinping

(di Antonio Vecchio)
15/03/21

Nessuna nazione mai ha sperimentato la qualità e la velocità di sviluppo con cui la Cina si è affacciata negli ultimi 30 anni sul proscenio internazionale.

Interprete e artefice pro tempore (non sappiamo ancora per quanto tempo) ne è l’attuale presidente della repubblica popolare e segretario del partito comunista (PCC), Xi Jinping.

Le sue qualità non sono certamente in discussione - da tempo, la Cina ha eletto il merito a cifra delle procedure di selezione della propria classe dirigente -, ma il progresso del paese parte da più lontano, ossia dalle coraggiose riforme in campo economico che Deng Xiaoping attuò nel periodo 1978-1992.

Xi, a differenza dei suoi predecessori, ha invece dedicato gran parte delle energie al rafforzamento del Partito e alla coesione nazionale. La qual cosa ha una logica proprio nell’imponente sviluppo economico poc’anzi accennato. Vediamo perché.

La Cina è oggi una superpotenza, uno stato di un miliardo e quattrocento milioni di abitanti, che rappresenta la seconda economia del mondo (nel 2010 ha superato il Giappone); la prima se si considera il PIL a parità di acquisto.

È prima per numero di brevetti depositati e investimenti nel campo dell’intelligenza artificiale, seconda in quello degli armamenti1, cui devolve l’1,9% del PIL, contro 3,2 degli USA. Nel campo degli investimenti all’estero la Cina ha da tempo superato gli USA, così come nella cantieristica navale: è cinese la prima flotta al mondo per tonnellaggio.

Si consideri inoltre che, nonostante il suo peso industrial-manifatturiero, la percentuale di cinesi che lavorano nelle campagne è superiore al 40% (negli USA solo l’1% dei lavoratori), il che dà un’idea della imponente capacità di crescita industriale residua.

Ma non è tutto. Il Dragone è il primo partner economico di oltre 130 paesi, numero destinato a crescere con il completamento della Belt and Road iniziative (BRI): il collegamento commerciale che attraversa 65 paesi, dove vive il 44% della popolazione mondiale, pari al 30% dil PIL globale.

Una manna, per una classe media che ha già superato quella occidentale (EU e USA assieme); un miliardo e 200 milioni di consumatori, il cui PIL pro capite ha già eguagliato quello della federazione Russa ($13.000).

Se si aggiunge poi l’incremento dell’aspettativa di vita a 75 anni, (era di 45 anni solo pochi decenni fa), i 120 milioni di cinesi che hanno viaggiato all’estero negli ultimi cinque anni, e i circa 1,6 milioni che all’estero ci sono andati per studiare, si completa il quadro di una nazione ormai protesa a raggiungere, con congruo anticipo, il secondo degli obiettivi2 del millennio (2049): diventare “un paese socialista, moderno, prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato e armonioso”.

Come accennato, questi dati macroeconomici sono il frutto delle aperture economiche di Deng Xiaoping, che a partire dagli anni 80, al grido di “arricchirsi è glorioso!”, introdusse i primi distretti economici, aprendo così il paese agli investimenti esteri e alla mercatizzazione.

È grazie a quelle politiche, sapientemente proseguite dai suoi predecessori, che la Cina, in meno di trent’anni, è riuscita a strappare alla povertà oltre 750 milioni di cittadini.

Si è trattato di un lungo quanto impetuoso processo di sviluppo, che ha lasciato dietro di sé una lacerante stratificazione sociale dettata da profonde ineguaglianze, con parti della società arricchitesi a dismisura, ed altre rimaste ai margini.

Potremmo dire che, in quegli anni, il socialismo cinese riuscì nella difficile impresa di togliere via di mezzo il proletariato, sostituendolo con una società interclassista: una contraddizione non da poco per uno stato che si definisce ancora "marxista".

La parola d’ordine era investire, produrre, crescere, spendere, il tutto con la benedizione dei funzionari del Partito, che avevano un ruolo cruciale nella concessione di mutui, nel rilascio delle autorizzazioni, e nelle pratiche di espropriazione necessarie ad agevolare gli interventi.

Col risultato che le corruttele aumentarono vertiginosamente, e il partito si trasformò, sotto gli occhi di tutti, in uno strumento di arricchimento personale.

Questa, la Cina che Xi fu chiamato a governare nel 2012, una società lacerata nel profondo, in cui le leggi del mercato avevano la meglio su tutto il resto.

Di fronte a una tale situazione, egli ebbe sin da subito l’intuizione che, se non avesse ristrutturato dalle fondamenta l’intero sistema, questo sarebbe crollato, trascinando con se tutte le conquiste raggiunte sino al quel momento.

Da queste basi, all’insegna del “colpirne uno per educarne cento” di maoista memoria, mosse i primi passi una formidabile opera di moralizzazione, che in poco tempo portò dietro le sbarre numerosi pezzi da novanta del regime.

Essa partì dai piani alti della nomenklatura, senza distinzioni di sorta, grazie anche all’istituzione di commissioni disciplinari rette - mossa geniale - non da maturi funzionari del partito, bensì da giovani ufficiali subalterni, spietati e motivati come solo un giovane ufficiale all’inizio della carriera può esserlo.

Ma l’analisi di Xi si è spinta ancora più a fondo. Temendo che in Cina si stessero creando le condizioni che avevano portato al tracollo del regime sovietico, sin dai primi anni del suo mandato ha avviato un ampio piano trasversale di riforme.

La caduta del blocco sovietico era stata provocata da una molteplicità di fattori, i più rilevanti dei quali erano: l’insostenibilità economica, la perdita di credibilità del PCUS, divenuto elefantiaco e burocratico e, in ultimo, lo sfaldamento dell’Armata Rossa negli eserciti nazionali delle repubbliche ex sovietiche.

Partendo da queste considerazioni, il “timoniere” ha puntato a liberalizzare l’economia, garantendo però allo Stato una rinnovata centralità al fine di guidare gli “spiriti animali” del mercato.

Ha poi rafforzato il Partito, imponendo la fedeltà all’ideologia e la disciplina interna, mediante il rafforzamento delle scuole di partito e l’arricchimento dei programmi di insegnamento in quelle statali. (Per Xi, che all’educazione delle masse attribuisce grande importanza, “la leadership del controllo del pensiero costituisce la priorità assoluta per mantenere la leadership complessiva”).

Non è infine mancata una ampia centralizzazione dell’apparato del PCC, avocando a sé e ai suoi fedelissimi, la guida di numerose commissioni centrali.

Ma non si è fermato qui. Ha anche avviato una gigantesca azione di modernizzazione dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA), gravitando maggiormente sulla componente navale, a dimostrazione della proiezione esterna della nuova Cina.

La sua azione riformatrice si è poi rivolta alla dimensione ideologica, agendo sulle tre principali direttrici del pensiero politico cinese - marxismo, eredità confuciana e patriottismo - adattandone i concetti alla Cina della nuova era.

Sul piano della rifondazione del pensiero marxista, ha istituito due commissioni col compito di rafforzare l’ideologia del partito, rielaborando continuamente il pensiero marxista per adattarlo alla realtà attuale. L’attuale segretario è infatti convinto che il marxismo sia soprattutto un metodo scientifico con cui plasmare non solo la complessa realtà sociale e economica, ma anche i rapporti politici e quelli economici.

Ha poi recuperato il lascito dell’eredità confuciana, rispolverando i valori e i principi che da 25 secoli permeano la società cinese, che Mao aveva tentato invano di cancellare con la rivoluzione culturale.

Ha infine agito sul rafforzamento dello spirito patriottico nazionale, agendo sul senso di rivalsa del popolo cinese dopo il “secolo delle umiliazioni” durante il quale la nazione fu depredata dalle potenze coloniali europee.

Introducendo così una nuova narrazione secondo la quale è arrivato per la Cina il tempo di riprendersi il posto che le spetta per rango e per storia.

Per Xi, è questo il secolo in cui la nuova Cina, ricca, potente, prospera, priva di disuguaglianze al suo interno, e quindi “armoniosa”, sarà, dopo 500 anni, nuovamente in grado di indicare la strada alle nazioni della terra.

Lo ha battezzato il “sogno cinese”, e ha voluto che venisse inserito nello Statuto del partito (2017) e nella Costituzione della repubblica (2018), come parte del suo pensiero. Un privilegio sino ad allora riservato solo a Mao e Deng Xiaoping.

2http://www.xinhuanet.com/english/2017-10/17/c_136686770.htm

Foto: Ministry of National Defense of the People's Republic of China