Come ampiamente prevedibile, la crisi in atto tra Israele e Hamas continua ad assorbire l’attenzione; lungi dal prospettare soluzioni funzionali al raggiungimento di uno stato quanto meno di temporanea non belligeranza, ha avuto tuttavia il pregio sia di evidenziare politiche globali cristallizzate e poco innovative, spesso ideologicamente estremizzate, sia di porre sotto i riflettori elementi saliti alla ribalta.
Il conflitto israelo palestinese porta ad esaminare l’evoluzione degli schieramenti dem occidentali azzardando previsioni sul loro futuro data la trasformazione da partiti della classe operaia socialdemocratica in movimenti che hanno risentito, come accaduto in UK, dei forti movimenti migratori di masse etniche islamiche, in un momento storico in cui il massimalismo ha condotto a semplificazioni fuorvianti.
In ambito israeliano, la crisi ha ricondotto Netanyahu al centro del proscenio quale leader di governo, pur a fronte dello sfavorevole esito elettorale del 23 marzo. A fronte dell’incarico conferito da presidente Rivlin al centrista Yaïr Lapid, l’evoluzione della crisi militare e securitaria ha indotto Naftali Bennett, esponente del partito La Nuova Destra, a dichiarare il ritorno all’alleanza con il Likud, ed a ritenere improbabile il ricorso all’appoggio del partito islamico degli arabi israeliani di Ra’am.
Un primo risultato politico della situazione si sostanzia dunque o nell’ipotesi di un ennesimo ricorso alle urne1 o nell’improbabile approvazione di una legge che preveda l’elezione diretta del primo ministro; questo in considerazione del fatto che gli sforzi principali sono stati profusi per favorire la sconfitta di Netanyahu piuttosto che per assicurare la formazione di un vero governo del cambiamento.
Dal lato della barricata palestinese il rinvio delle elezioni, che avrebbero presumibilmente potuto consentire ad Hamas di assurgere ad un ruolo politico interno ed estero di maggiore rilevanza, ha concorso ad individuare in Gerusalemme Est un punto di attrito, utile ad innescare incontrollabili pulsioni religiose palestinesi, nella consapevolezza che qualunque risposta ebraica avrebbe posto Israele sotto un’ottica di illegittimità riducendone i margini di manovra.
Fissare Gerusalemme quale termine dell’equazione mediorientale ha consentito ad Hamas di interpretare il ruolo di difensore dei luoghi santi, confinando nell’angolo dell’irrilevanza Abu Mazen e l'ANP. L’azione palestinese è tuttavia incorsa in un errore cognitivo di valutazione, poiché ha sottostimato l’inevitabile durezza della risposta israeliana, una reazione che ha fiaccato rapide possibilità di reintegro delle capacità belliche palestinesi. Strategicamente Israele ha proceduto secondo la logica della dichiarazione di guerra, ed in quest’ottica sta adottando regole che, per modalità e tempi, lasceranno il segno.
Prima conclusione: l’iniziativa di Hamas ha determinato, storicamente, un allontanamento dall’ipotesi di formazione di uno stato indipendente. La graduazione dell’importanza degli eventi, mostra una realtà particolarmente complessa; innanzi tutto Israele non è riuscito a dare una stabilità politica, sia pur fatta di compromessi, in grado di fornire ai palestinesi una soluzione equivalente a quella dei due stati; l'AP in Cisgiordania, si è mostrata ugualmente poco propensa ai compromessi e, nonostante le esigue possibilità di successo, ha fatto ricorso alla violenza non riuscendo tuttavia a fornire leadership ed esecutivo vicini alla parte più giovane della società; Hamas a Gaza ha fatto ricorso sia ad infrastrutture2 belliche la cui collocazione fisica ha trasformato i civili in bersagli, sia a forme di violenza che hanno determinato la reazione israeliana; gli arabo israeliani hanno cominciato ad emergere come soggetti politici calati in un contesto fortemente ebraico; il ruolo della religione, quale elemento sempre più divisivo per cui gli ebrei continuano ad essere considerati non tanto popolo quanto piuttosto membri di una comunità da ridurre ad uno stato inferiore istituzionalizzato come minoranza non musulmane protetta; l’instabilità esterna indotta da Siria, Iran, Turchia, Libano, Giordania, Egitto.
Ed ora il secondo aspetto, non trascurabile da parte israeliana, forse anche più pericoloso dei razzi lanciati da Gaza: l’apertura di un fronte interno ha contemplato in gran parte dei centri abitati misti3 il dilagare della violenza fra arabi ed ebrei al grido di Khaybar! Khaybar!4, un fenomeno che, rasentando la possibilità di una guerra civile, ha denunciato una debolezza politica stigmatizzata dal presidente Rivlin5, un’attestazione di impreparazione dovuta ad una sottovalutazione del fattore umano, e ad un’ipervalutazione dei toni concilianti dei partiti arabi, particolarmente interessati a determinare gli equilibri politici. Ma le fonti di instabilità non provengono solo dagli attriti con gli arabo israeliani, ma anche da un contrasto culturale tra il secolarismo ed un’ortodossia che fruisce di particolari benefici, e che si scontra con una parte della società moderna. Il progetto di Ben Gurion, che ipotizzava uno stato secolare e progressista, sembra tramontare tra il conflitto palestinese ed una società che vede contrapposte le due anime della comunità ebraica.
Terzo elemento: nessuno degli antagonisti storici di Israele ha direttamente generato il momento di crisi, né tanto meno lo hanno fatto i soggetti politici arabi regionali, di fatto distaccati dalla realtà contingente palestinese; restano tuttavia sia da valutare i tentativi esogeni di incrinare gli Accordi di Abramo, sia di verificare se la Turchia, che stava tentando di riaprire un canale diplomatico con Gerusalemme, intenderà continuare a perseguire l’obiettivo del primato sunnita strappandolo all’Arabia Saudita; se l’Iran intenderà rafforzare la sua mezzaluna sciita oppure se, realisticamente, giungeranno ambedue alla conclusione che indebolire Israele rischierebbe di attirare le attenzioni americane sui rispettivi disegni fra Mediterraneo e Mesopotamia. Attenzioni forzate, dato che il presidente Biden non sembrava aver annoverato la questione israelo-palestinese tra le sue priorità, dopo il conseguito e controverso disimpegno afghano.
Gli USA, consapevoli di essere gli unici a poter esercitare un impatto significativo, puntano al sostegno ad Israele, pur con diversi limiti, e ad un celere cessate il fuoco basato su un negoziato mediato magari dall’Egitto o dalla tuttavia debole Autorità Palestinese, che non può trascurare il peso strategico assunto da Hamas. Nella perdurante ed eterea evanescenza europea, la scelta americana di non condannare né gli uni né gli altri, flemmatizzando le manovre diplomatiche del Consiglio di Sicurezza delle NU, va inserita nell’ambito del confronto fra repubblicani, fautori degli Accordi di Abramo (foto) e pro Israele, democratici della sinistra progressista, che non esitano a definire quello di Tel Aviv come uno Stato che ha fatto dell’apartheid il proprio credo, e democratici moderati; posizioni di principio che, tuttavia, non hanno di certo impedito l’autorizzazione ad un’ingente e recente vendita di armi a Gerusalemme. Non c’è dubbio che la politica americana dovrà essere rivista dopo le elezioni di midterm del 2022.
Nel frattempo, non è così peregrina l’ipotesi per cui Netanyahu, dopo aver indebolito la coalizione Lapid-Bennett, e dopo aver inferto una dura sconfitta ad Hamas, potrebbe mostrare la sua disponibilità a terminare le operazioni, secondo gli auspici di cui si è fatto latore Hady Hamr6.
Altro fattore che va rammentato riguarda la salvaguardia dei già richiamati Accordi di Abramo stretti tra Israele, EAU, Bahrein, Marocco e Sudan con la mediazione dell’Amministrazione Trump, e che hanno posto in evidenza la collaborazione anti-iraniana, anche se parzialmente occultata, fra Stato ebraico, Arabia Saudita e monarchie sunnite del Golfo; una cooperazione ritenuta necessaria in merito alla trattazione della tematica nucleare del JCPOA, e che ha reso palese che per diversi governi arabi la querelle palestinese non risulta tra le priorità.
Strategicamente Israele è impegnato su più fronti; se da un lato non è opportuno esprimersi, per i contrasti interni, in termini di guerra civile poiché lascerebbe spazio ad interpretazioni estremiste, dall’altro le operazioni contro Hamas devono tenere conto del fatto che ogni conquista presenta dei limiti; per Israele risulta indispensabile impedire il dominio di Hamas ostacolandone il controllo delle importazioni nella Striscia in modo da non permetterne un futuro rafforzamento militare, e tenendo fuori dall’escalation la Cisgiordania; in questo momento Israele gode ancora di un buono spazio di manovra che gli consente di continuare a colpire obiettivi e simboli militari gazawi, pur evitando i boots on the ground.
Da un punto di vista operativo, come in passato, la dimensione strategica israeliana rimane più rilevante di quella di Hamas, comunque in crescita. Dimensioni e complessità delle FA convenzionali di Tel Aviv consentono un’ampia scelta di soluzioni tattiche da opporre ad un antagonista che opera in termini asimmetrici esaltando gli ambiti politico ideologici. I razzi di Hamas, a cui si sono aggiunti i droni, se valutati da un punto di vista bellico convenzionale, non esprimono particolare efficacia, visto che, peraltro, non hanno sistemi di guida funzionali all’attacco di un obiettivo predefinito; la loro rilevanza risiede nell’esecuzione di attacchi di saturazione indirizzati contro i centri abitati.
Colpire e terrorizzare il cuore di Israele diventa target pagante, e l’uso deliberato dei razzi contro i civili li rende armi psicologiche sì di forte impatto, ma che ha comunque reso più coeso lo Stato Israeliano, sentitosi così legittimato alla reazione con attacchi chirurgici indirizzati su singoli obiettivi. Il peso politico di queste operazioni è notevole: basta tenere presente che analoghi attacchi condotti senza l’ausilio di armi guidate producono danni collaterali ormai intollerabili; ovviamente anche gli attuali attacchi riguardano operazioni tali da comportare perdite civili quando condotti in teatri operativi popolati come a Gaza, dove operano forze infiltrate che raccolgono informazioni pro Israele7, cosa che rende fisiologicamente drammatici i bilanci, visto che Hamas sfrutta la densità abitativa, mimetizzando i sistemi di lancio tra le abitazioni civili, ed usando fabbricati residenziali come depositi.
Dal lato israeliano spicca l’uso del mezzo aereo, che consente di evitare l’intervento delle forze di terra, o di tecniche di basso profilo8 che, tuttavia, andrebbero a detrimento della velocità della risposta, indispensabile per scoraggiare il nemico mostrando efficienza di fronte al proprio Paese. Nel rammentare la difficoltà nell’accettare le conseguenze della guerra una volta innescata, dal punto di vista militare vi è da considerare che le opzioni terrestri incrementerebbero perdite inaccettabili tra le fila israeliane; è dunque logico infliggere un maggior numero di vittime al nemico per via aerea, piuttosto che correre il rischio di aumentare le proprie.
Iron Dome in termini difensivi si è dimostrato eccezionalmente efficace, meno dal punto di vista strategico; i costi del sistema sono infatti elevatissimi a fronte del costo e degli effetti prodotti dai razzi palestinesi, visto che la proporzione tra danni arrecati e contromisure non è compensata dall’entità di risorse economiche sovradimensionate rispetto alla minaccia; a fronte dei costi sociali da dover sostenere per la difesa della popolazione, andrebbero comunque considerati gli impatti di una campagna missilistica protratta nel tempo sul bilancio della Difesa.
È fattibile una campagna terrestre? Non c’è dubbio che in uno scontro diretto le IDF prevarrebbero, infliggendo peraltro perdite ancora più dure di quelle arrecate dagli attacchi aerei; tuttavia questo tipo di operazioni sarebbe estremamente difficile, dato anche il particolare teatro operativo. Gaza andrebbe circondata su tre lati in modo da consentire il controllo di vie di comunicazione e di varchi di accesso, con la contestuale interdizione delle trasmissioni palestinesi in zone densamente abitate dove Hamas contrapporrebbe tecniche di guerriglia alle tattiche ravvicinate israeliane, che potrebbero venire indebolite da fattori più tradizionali in cui il vantaggio tecnologico scemerebbe. Tsahal probabilmente annienterebbe Hamas, ma ad un caro prezzo.
Esiste un rischio da considerare, ovvero quello che vedrebbe l’exploit militare quale successo momentaneo e non in grado di evitare ennesimi conflitti futuri. Israele dovrebbe aumentare le unità combattenti ricostituendo un’efficace difesa territoriale9.
In attesa di un auspicabile cessate il fuoco, è inevitabile rimarcare come Israele sia stato colto alla sprovvista dall'espansione della capacità operativa di lancio di Hamas. In ottica politica, quanto è avvenuto e sta avvenendo costituisce un warning per chi sperava che i conflitti fossero divenuti contenibili, specialmente in relazione ai risultati conseguiti con gli Accordi di Abramo. Quali possono essere i vantaggi? Non è da escludere che Hamas intenda mantenere un potere ricattatorio di intervento, assurgendo ad utile strumento di pressione da parte di potenze esterne che puntano all’instabilità di una terza Intifada, anche se al momento ha ottenuto di fatto la devastazione di Gaza; tuttavia, se è vero che Israele intenderà affermare di aver ripristinato la deterrenza, continuare il bombardamento della fascia costiera contribuirà ad alimentare il rischio di compromettere il suo tessuto sociale.
Se da un lato è ipotizzabile un ruolo congiunto di Egitto, Giordania ed attori internazionali che inducano i contendenti a cercare un compromesso, dall’altro sembra sussistere l’assenza di una chiara volontà di superare la fase critica, che si somma alla situazione contingente che vede in contrasto il supporto fornito ad Hamas da Iran e Turchia, e l’equilibrio determinato dagli Accordi di Abramo.
1 Il 5° in tre anni
2 Sistemi d’arma e tunnel
3 Esemplari Lod e Acre
4 La conquista di Khaybar vide i musulmani, guidati dal loro Profeta, impadronirsi di Khaybar, un'oasi del Ḥijāz a 150 km a nord di Medina, prevalentemente abitata da ebrei, per lo più dei Banu Nadir
5 Il presidente ha addirittura citato a titiolo di paragone i pogrom
6 funzionario del governo americano che serve come vice segretario aggiunto per gli affari israeliani e palestinesi presso l'Ufficio per gli affari del Vicino Oriente all'interno del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.
7 Attività Humint, Sigint, Comint
8 Individuazione dei singoli obiettivi
9 Yigal Alon ha affermato che "senza la difesa territoriale, che si basa principalmente sulle località rurali, l'esercito dovrebbe allocare forze considerevoli alle funzioni difensive. L'IDF, che è più piccolo degli eserciti arabi che circondano Israele, non può consentire un indebolimento della sua forza offensiva"
Foto: IDF / Twitter