La storia quadrimillenaria di Israele è ricca di paradossi. Il mito fondativo israeliano, con la sua forte tradizione diasporica e con circa 8 milioni di soggetti a fronte dei circa 6 di residenti nella Terra Promessa, rimane avversato ma determinante per la comprensione di uno Stato dalla struttura istituzionale non ancora integralmente compiuta. Già all’atto della fondazione alcuni partiti religiosi sostennero l’inutilità di una Carta Fondamentale, dato che la Torah rimaneva l’unica Costituzione del popolo ebraico; più prosaicamente Ben-Gurion, impegnato nell’edificazione dello Stato, ne pospose l’adozione per un’innata contrarietà verso qualsiasi normazione limitasse il potere esecutivo; un habitus di fatto perpetuato nel tempo e che vede ora Netanyahu interprete di una politica delle mani libere, che gioca sui punti deboli dell’alleanza Mosca-Teheran in Siria e sulla geopolitica delle start up che volge sguardo ed interessi verso Cina, India, Brasile e che preoccupa gli USA per il possibile scambio di know how tecnologici. Di fatto Israele stenta ancora a dotarsi di una Legge Costituzionale così com’è intesa in Occidente; una Legge in grado di compendiare, soddisfacendole, le istanze delle molte etnie presenti e frammentate sul territorio. Regionalmente Israele è l’unico soggetto politico, insieme con gli “Imperi” Iraniano e Turco, che possa comunque presentare una reale struttura statuale, malgrado gli esperimenti coloniali anglo francesi che hanno tracciato labili frontiere sulla sabbia.
Da un lato Israele è un Paese tecnologicamente avanzato, colto, ricco (secondo gli standard d’area), al momento l’unica potenza atomica mediorientale, nonché il detentore di cospicue risorse energetiche nelle aree prospicienti la sua costa; dall’altro è una realtà entropica, multietnica e plurireligiosa da sempre in lotta con un nemico che funga da aggregatore delle sue diverse anime.
La sicurezza di Israele dipende da una superiorità militare capace di controllare i vicini annichilendo gli aggressori; ma è ipotizzabile un impero Israeliano, laddove deficit spaziali e demografici vanno ad inficiare qualsiasi strategia? La recente Legge della Nazione, criticata anche in Patria, prevedendo il diritto di autodeterminazione ristretto al solo popolo ebraico, ha riacceso il desiderio di un’espansione nella Giudea e nella Samaria del Vecchio Testamento, ovvero in aree attualmente arabo-palestinesi. Eretz Ysra’el è la Terra d’Israele, l’oggetto della promessa biblica che, tuttavia, non indica una demarcazione confinaria certa, degna di un Medinat1. La Legge della Nazione, in quanto norma che riconosce Israele come Stato Nazionale del popolo ebraico, diventa quindi socialmente dirompente e strategicamente essenziale, ed è animata dal principio dell’attacco preventivo capace di annientare le minacce nemiche quando ritenute imminenti. Del resto Moshe Dayan diceva che Israele deve essere visto “come un cane pazzo, troppo pericoloso per essere disturbato”.
La Legge ha diviso l’opinione pubblica ottenendo due risultati rilevanti: una spaccatura sociale tra gruppi etnici trascurati ma significativi (arabi e drusi), ed una politica, anche nell’ambito del Likud, con un rapporto conflittuale con la diaspora statunitense, troppo liberal per comprendere una realtà nazionale culturalmente e storicamente distante che allontana, almeno concettualmente, chi pur essendo ebreo rifiuta l’aliyah e la qibbutz galuyot2 e che mette alla prova lo status di “unica democrazia medio orientale”. Ysra’el saprà conservare il favore di una retroguardia così strategica?
Forza e deterrenza
Israele da un lato palesa capacità militari, tecnologiche ed economiche significative, dall’altro evidenzia limiti nel massimizzare politicamente le opportunità relative alla salvaguardia degli interessi securitari, unitamente alla valutazione dei rischi di un’escalation su più fronti. Le azioni belliche di bassa intensità contro i nemici chiave non hanno condotto a risultati politici rilevanti; l’asimmetria di obiettivi ed aspettative non ha tenuto conto delle diverse percezioni, per cui quella che per alcuni è una "non disfatta" per altri si traduce in una vittoria. C’è inoltre da considerare che esiste una forte deterrenza di base che sconsiglia agli avversari di Israele di intraprendere azioni su larga scala, inducendoli a perseguire iniziative poste appena al di sotto della soglia della guerra. Il risultato determina un’estrema instabilità in Siria, Libano e nella Striscia di Gaza, in grado di condurre ad uno scontro multifrontale. Gerusalemme, al momento, ha optato per una politica di contenimento di breve termine che, escludendo gli attacchi al radicamento iraniano in Siria ed al trasferimento di armi a Hezbollah, mantiene uno status quo potenzialmente sostenibile ma che va a detrimento della sicurezza futura.
La politica USA con i suoi tweet presidenziali, insieme con il pragmatismo sunnita regionale che ormai identifica quale nemico l’Iran e non più Israele, non sempre agevolano il compito; se da un lato POTUS3 rassicura retoricamente, dall’altro (come con il ritiro dalla Siria) ingenera perplessità che inducono a non scartare due possibili “luci” strategiche: una difficile campagna contro l’Iran, ed un nuovo piano d’azione per la Palestina, anche in virtù del fatto che il dinamismo delle relazioni internazionali potrebbe limitare il campo d’azione israeliano.
Pazienza Strategica, precisione, paure
La Persia, secondo Israele, costituisce una minaccia che agisce secondo due linee che si rafforzano vicendevolmente: la nucleare e la convenzionale. L’ombrello atomico è inteso a garantire un’egemonia regionale, mentre l’attuale proiezione di potenza finora condotta grazie ai proxy ed alle basi in via di realizzazione in Siria, Libano ed apparentemente in Iraq, dovrà essere sostenuta convenzionalmente. Teheran, economicamente vulnerabile e soggetta ad un’erosione dei consensi popolari, ha inteso sviare l’attenzione di Gerusalemme dal suo programma nucleare attaccando Israele direttamente con azioni cui le IDF4 hanno immediatamente reagito sul fronte siriano, assumendosene la responsabilità ed elevando così il livello dello scontro. Israele, a fronte della temporanea pazienza strategica iraniana, dovrà prepararsi ai possibili futuri cambiamenti della politica USA, e ad un’ipotetica e fallimentare rinegoziazione del JCPOA (accordo sul nucleare iraniano, ndr). La linea convenzionale iraniana si replica poi secondo un crescente geografico che dalla Persia arriva in Siria e Libano, e che garantirebbe la non tracciabilità dei trasporti verso Hezbollah.
Il relativo affievolimento della guerra siriana, unitamente all’intervento della Russia che con Israele ha cointeressenze tattiche ma non strategiche e che deve contenere le aspirazioni degli Ayatollah, ha già comportato una riduzione delle capacità offensive israeliane, ed un contestuale accrescimento qualitativo delle potenzialità di Hezbollah. Una variazione degli equilibri sul versante nord libanese dovuta ai nuovi equipaggiamenti, potrebbe infrangere il bilanciamento deterrente che, finora, ha dissuaso Israele ed Hezbollah dal giungere alla conflagrazione di un conflitto su più vasta scala. Tuttavia Israele è vulnerabile alle armi di precisione5: di fatto è un piccolo paese occidentale con infrastrutture critiche altamente concentrate ed a scarsa ridondanza. Impianti di produzione elettrica e di desalinizzazione dell’acqua, infrastrutture gasiere, potrebbero essere paralizzati da lanci balistici mirati. L’arsenale atomico israeliano è tuttavia in grado di sferrare un secondo colpo grazie alle testate nucleari di cui sono dotati i missili imbarcati sui sommergibili Dolphin, in costante movimento tra Mediterraneo e Mar Rosso.
Non prevedendo un’aggressione araba, Israele potrebbe puntare ad un Iran indebolito e denuclearizzato, peraltro compatibile con la politica USA laddove questa rimanesse di stampo repubblicano. Di fatto Iran ed Israele si alimentano degli stessi timori in una sorta di Risikotheorie6, dove solo la Stella di Davide possiede l’arma finale. In Palestina Israele dovrà affrontare la sfida determinata dall’instabilità a Gaza e dalla sua potenziale escalation dovuta al deterioramento socioeconomico. I tentativi di stabilizzare la Striscia regolando i rapporti con Hamas, in sinergia con Egitto e Qatar, hanno riscosso un successo parziale, dovuto anche all’assenza politica del soggetto palestinese che non intravede, per fratture interne e per la debolezza di Mahmoud Abbas, lo scivolamento verso una realtà fatta di un solo Stato, supportata dall'anticipazione dell’(indeterminato) accordo del secolo sponsorizzato dagli USA fondamentalmente basato sulla garanzia di una futura prosperità economica, e foriera di conseguenze sotto un’ottica a lungo termine dato il carattere solo Israeliano riferito allo stato nazionale del popolo ebraico. Non potrà dunque essere trascurata una nuova possibile ondata terroristica in Cisgiordania con modalità di attacco letali ispirate da Hamas in aperta contrapposizione con l’ANP, quest’ultima penalizzata dal taglio americano dei fondi all’Unrwa, che già ora deve sostenere un bilancio in passivo con la soppressione delle attività indirizzate al sostegno di istruzione, governance e sanità; il tutto con pesanti ricadute su Egitto, Arabia Saudita e Giordania, Paese ospitante campi profughi e che, senza sostegno, potrebbe dover essere costretta a concedere – con riluttanza – la naturalizzazione ai palestinesi presenti sul suo territorio.
Lo Scudo di Tsahal
In un Paese critico verso la politica, Tsahal (forze di difesa israeliane, ndr) è l’istituzione che gode della maggior fiducia nazionale; inevitabile la rilevanza del suo Capo di Stato Maggiore, figura di spicco senza eguali, specie in un momento storico così denso di avvenimenti. L’enfasi che ha caratterizzato il passaggio di consegne tra il generale Eizenkot ed il generale Kochavi (foto) porta inevitabilmente a rammentare l’imminenza delle elezioni politiche anticipate, previste per la prossima primavera. L’attuale premier e Ministro della Difesa ad interim Netanyahu, desideroso di accreditarsi quale miglior difensore di Israele, non può non cercare di captare la benevolenza dell’Esercito e del suo Capo, specie se si considera che non è inusuale vedere molti ex generali divenire protagonisti politici di rilievo.
Da un punto di vista operativo il gen. Kochavi ha assunto il suo incarico in un momento contrassegnato da marcata instabilità, e dove Ysra’el si attende che possegga un’ampia visione strategica regionale e globale, e soprattutto si auspica che sia in grado di replicare le vittorie del passato. Il CSM dovrà quindi assicurare che la strategia di Tsahal, fondata su di un nuovo concetto di guerra e basata su uno shock multidimensionale che associa il fuoco di precisione di artiglieria e forze aeree con inedite manovre di terra rapide, letali, flessibili e capaci di penetrare in territorio nemico, sia perseguibile in conflitti come quelli ipotizzabili contro Hamas ed Hezbollah, e senza dover rallentare l’azione per i vincoli sociali e politici relativi all’uso della forza. Il 22° CSM assume il suo incarico in un momento in cui gli elementi che hanno portato ad un periodo di relativa calma si stanno esaurendo; per questo le sue responsabilità sono tra le più urgenti e importanti nella realtà attuale di Israele.
I problemi insolubili sono molti, ed il volerli risolvere a tutti i costi più che incauto potrebbe rivelarsi pericoloso. Quel che è certo è che l’Occidente non ha saputo cogliere in tempo aspetti ed evoluzioni di un Levante troppo complesso per menti rigide e schematiche. Quel che è certo è che, a prescindere da chi vincerà le elezioni di aprile, Israele non si ritirerà in una nuova Masada.
1Stato
2Immigrazione in Israele e raccolta delle diaspore
3President of the United States
4Israel Defense Forces
5Missili
6Teoria del rischio
Foto: IDF / U.S. Navy