Il mondo è cambiato. Lo sento nell'acqua. Lo sento nella terra. Lo avverto nell'aria. L'elfa Galadriel lo percepiva nella Terra di Mezzo, noi lo avvertiamo nel fumo delle esplosioni di Jenin, Gerusalemme, Soledar.
È la storia che scorre, è la storia che passa; è la storia che, di certo, non è finita. Il magnetismo dei poli geopolitici muta repentinamente e cerca altri equilibri.
Di fatto, in Palestina l'ANP è fuori dai giochi, ora eterodiretti ed interpretati da Hamas e Jihad. Che l'Iran eserciti una forte influenza con la sua mezzaluna è certo; che l'equilibrio sia mutevolmente instabile, anche.
Si affaccia una nuova guerra fredda multipolare, i punti di faglia raddoppiano ed avvampano contemporaneamente, mentre la costellazione anarchica torna in Europa a far parlare di sé. Gli attentati palestinesi rimarcano la continuità di una politica che ha accolto il nuovo capo delle Forze Armate di Gerusalemme, Herzi Halevi, costretto a rivalutare una rinnovata impostazione tattica dell'operazione Guardiano delle Mura senza tuttavia poter distogliere lo sguardo da Teheran, impegnata a capitalizzare lo stallo nelle trattative per il JCPOA, utile a permettere l'arricchimento dell'uranio a scopi bellici.
Il fuoco a Gerusalemme divampa ancora e tragicamente proprio nei giorni della memoria della Shoah.
Un altro punto di faglia finisce di spaccare la crosta sotterranea delle relazioni internazionali, ormai sempre più labili e magmatiche, in Ucraina e lancia una eco che si riverbera in Medio Oriente. La dialettica politica, spesso confusa, parla per tesi ed antitesi, non riesce a trovare, dove che sia, il bandolo della matassa di una possibile e sensata sintesi.
Quanto può essere considerato regionale il conflitto ucraino, a fronte della globalizzazione degli interventi che si stanno ancora succedendo? Il mondo può dirsi impegnato in un conflitto globale, seppur localizzato e ristretto (per ora) in un contesto regionale? Quanto può essere considerato lontano ed alieno dall'esempio offerto dalla guerra di Corea?
La Cina, spettatore silente, osserva e trae le sue conclusioni circa il prezzo inevitabilmente esorbitante da pagare per la desiderata invasione di Taiwan, alla luce di un momento storico in cui pandemia e recessione picchiano alle porte. Ma come fare con la Russia, autocostrettasi ad affrontare una situazione politico-militare così complessa?
La domanda è la stessa che risuona nelle stanze in cui si cerca di pianificare l'esito di elezioni sempre più imminenti, come in Turchia. Basta l'ipotesi di un regime change per arrivare a dirimere situazioni sempre più simili ad un ginepraio? Non lo crediamo, ed anzi intendiamo muovere l'attenzione verso ipotesi che, dai punti di vista politico-militare-sociale, conducono all'aggravamento del contesto.
Se la Russia cederà, lo dovrà fare senza spinte esterne, senza tentativi di innescare ulteriori micce, con propria coscienza: Mosca dovrà agire autonomamente adottando una politica che accetti la nascita di nuovi muri e nuove guerre più fredde di quella chiusasi nel 1989.
L'Occidente sarebbe in grado di affrontare le conseguenze dell'effetto domino di un ipotetico e nuovo collasso russo, seguito da una veemente revanche nazionalista? Impossibile per un'Europa più avvezza alla finanza che non all'esercizio di una politica comune. Eppure il buon senso dice che bisogna prepararsi al peggio, ma come? Per una vaga linea comunitaria, oppure secondo paradigmi nazionali, alla stessa stregua di quelli adottati dalla Germania, sempre più attenta alla cura degli interessi del proprio cortile?
È proprio la situazione attuale che richiede solido e sensato pragmatismo, non ipotesi o speranze. Il bisogno di equilibrio, possibilmente freddo, non è più procrastinabile.
Nella foto: lavori di costruzione del Muro di Berlino il 20 novembre 1961