In un recente articolo, avevo parlato dell’arrivo in Italia della così detta “seconda ondata” del COVID-19 tra i mesi di agosto e settembre (v.link), invece che a ottobre-novembre, come da più parti paventato. Non serve la sfera di cristallo per capire, anche al netto di quello che sta succedendo in Spagna e in Francia, che la rilevazione di parecchie migliaia di nuovi casi al giorno anche in Italia è imminente. E non per colpa di Romeni, Serbi o Bulgari, considerati da alcuni come gli “untori” dell’Europa: non sarà colpa loro se la pandemia rialzerà presto la testa, così come a marzo non fu colpa degli Italiani. Ci siamo scordati alla svelta, anche se è successo appena quattro mesi fa, di quando eravamo noi quelli “contagiosi” e il mondo ci schifava…
Intanto, basta guardare che cosa sta succedendo in alcuni Paesi che da mesi sbarrano le frontiere ai voli dall’Est Europa. Prendiamo Israele (grafici apertura): lo Stato ebraico aveva avuto un picco del COVID-19 fra l’ultima decade di marzo e la prima metà di aprile, poi la pandemia sembrava essere finita sotto controllo, anche per l’ampio uso di tecnologie di tracciamento attuato dal Governo locale. Già all’inizio di giugno, però, nonostante il caldo feroce di quelle latitudini e, appunto, l’impegno delle autorità di Gerusalemme, i casi sono aumentati in modo importante, crescendo senza sosta fino a superare i duemila “infettati” scoperti ogni giorno, vale a dire più del doppio del picco dello scorso marzo. Bisogna sottolineare anche che, viceversa, la letalità della malattia si è attestata su cifre uguali o addirittura inferiori rispetto ad allora, comunque nell’ordine delle 5-10 vittime al giorno. Considerando che la mortalità quotidiana normale nello Stato ebraico non supera di solito le 150-180 persone (comprese le malattie cardiovascolari, i carcinomi, gli incidenti ecc.), il COVID-19 è, pur in una fase di picco, ben lontano dall’essere uno sterminatore.
Anche l’Australia non riceve da mesi visitatori dall’Europa orientale, eppure dopo un picco di al massimo 500 casi rilevati al giorno fra la fine di marzo e l’inizio di aprile, ovvero in pieno autunno australe, e dopo un lungo periodo (fine aprile – metà giugno) di curva piatta e bassissima (i tamponi positivi si contavano spesso sulle dita di una mano), da fine giugno ha visto crescere il numero di casi in modo importante e continuo, parallelamente alle influenze stagionali, dato che là è inverno. Nel frattempo, sono cresciuti anche i morti, ma sempre nell’ordine delle 4-6 vittime al giorno, uguale se non meno dell’influenza. Insomma, per adesso tutto è sotto controllo.
La crescita dei casi, pur in presenza di frontiere più o meno impermeabili, è evidente anche in Giappone, non certo un Paese freddo in questo periodo dell’anno. Nel Paese del Sol Levante il picco era stato raggiunto verso la metà di aprile, con circa 500-700 casi al giorno, per poi scendere così rapidamente da far pubblicare in giro articoli e clip sul “Giappone che sconfigge la pandemia”. Peccato che ormai Tokio viaggi spedita verso i mille casi al giorno. Non rilevante la letalità, pur in un Paese strapieno di anziani e con l’aria invasa dai miasmi delle attività industriali: se fra aprile e maggio si era attestata attorno alle 20 vittime al giorno, oggi è stabilmente sotto i cinque morti, nonostante da quasi un mese i casi siano in forte crescita e da più parti si consideri il sistema sanitario giapponese inadeguato a affrontare una pandemia. Senti da che pulpito viene la predica…
Torniamo nella Vecchia Europa. Non affrontiamo ora il caso spagnolo né quello francese, perché entrambi i Paesi sembrano tutt’altro che seri nella gestione dei dati del COVID-19: è possibile che per giorni non rilascino statistiche e che da un giorno all’altro arrivino anche con un bagaglio di decine di migliaia di tamponi positivi da mettere o togliere dalla lista. Vedremo…
Ci è sempre sembrata seria e per questo vogliamo, invece, citare la Svizzera, dove la pandemia ha seguito un andamento simile alla Lombardia fra marzo e aprile, con oltre mille casi al giorno per molte settimane. La letalità, però, è sempre rimasta lontana dai massacri di Brescia, Bergamo e Milano: le balle sul virus più aggressivo in Lombardia si scontrano col fatto che lo stesso ceppo dal Canton Ticino in su ha ucciso al massimo 75 persone al giorno, pur con una popolazione quantitativamente simile (10 milioni di abitanti in Lombardia, 8 in Svizzera). La seconda ondata da loro è ripartita nel mese di luglio, per ora senza un aumento del numero di morti al giorno, stabilmente nell’ordine di 1-3 persone da quasi due mesi.
Eccoci, infine, al caso romeno. Bucarest, secondo chi scrive, a primavera non ha condotto una seria campagna di test e tamponi: tuttavia, da molte settimane sta cercando di contenere il dilagare della pandemia, soprattutto a livello ospedaliero. Ne consegue una tabella strana, in cui è evidente che fra febbraio e marzo il governo romeno ha colpevolmente sottovalutato la crisi e dove fra la prima e la seconda ondata quasi non c’è soluzione di continuità, perché di fatto la prima non appare nella tabella. Non è da escludere che, come numero di casi, la Romania supererà Paesi con popolazione e densità ben maggiori. Tuttavia, al pari di molti Paesi ex socialisti, a partire dalla Russia e dall’Ucraina, il sistema sanitario sembra reggere, sia pure faticosamente, anche perché hanno imparato dagli errori di Francesi, Spagnoli, Britannici e, soprattutto, Italiani.
Certamente, è buona cosa obbligare chi viene da Paesi a rischio a sottoporsi a una quarantena di quindici giorni al suo arrivo in Italia: tuttavia, i Paesi “pericolosi” non sono solo quei due, famigerati, dell’Est, che ci fa comodo considerare gli “untori” d’Europa, ma anche altri, più vicini a noi e che ci invadono di nuovo coi loro turisti: Germania, Spagna, Francia ecc. A ben vedere, fra quindici giorni qualcuno potrebbe mettere anche l’Italia in questa lista nera.
In conclusione, che cosa dobbiamo fare? Poco o nulla: il caso australiano ci insegna che il COVID-19, tenendo comportamenti rispettosi degli altri e prudenti per noi stessi, uccide poco più dell’influenza. Questa di solito porta via fra le due e le quattro vite al giorno in Australia nei cinque mesi in cui è attiva, contagiando l’1-5% della popolazione, grazie al distanziamento, ai farmaci antinfluenzali e alla vaccinazione.
Il COVID-19 sembra avere una letalità attorno all’uno per cento nei Paesi con un sistema sanitario avanzato (quindi, in Australia, Francia, Italia, Germania… ma non in Brasile, Stati Uniti, Messico ecc.). A ben vedere, però, essendo asintomatico nella stragrande maggioranza dei casi, non ci permette né di quantificare scientificamente il numero effettivo dei contagiati né di qualificare come “malati” quanti sono entrati in contatto col virus, dato che nella stragrande maggioranza dei casi sono a tutti gli effetti dei portatori sani, probabilmente nemmeno contagiosi. Quindi, è meglio rinunciare a parlare di tasso di mortalità o di letalità, limitandoci alla mera conta dei morti con un tampone positivo. Nei prossimi mesi dovremo probabilmente concentrarci sulla conta dei ricoverati in terapia intensiva: se, come è prevedibile, non saranno tanti da mettere in crisi il sistema, potremo dire che la seconda ondata è stata gestita come in Israele, Australia e Giappone. Se no, molto semplicemente sarà stata gestita male dalle nostre Autorità.
Immagini: worldmeter / presidenza del consiglio dei ministri