Uno è imprenditore nel settore calzaturiero, l’altro ha una vasta conoscenza nel settore calzaturiero, ma anche nel petrolio, nello sport business, nell’imprenditoria italiana e internazionale, il terzo fa da consulente proprio a imprenditori italiani ed esteri.
Tutti e tre sono conosciuti ai lettori di Difesa Online per i loro articoli e/o interviste.
Riteniamo prezioso questo contributo di Paolo Silvagni, Gino Salica e Andrea Gaspardo per capire che cosa sta succedendo in Turchia, come leggere l’azione del “challenger” ottomano e quanto l’Italia dovrebbe/dovrà fare per reggere il confronto, non solo economico, con l’impero di Erdogan.
È l’economia, bellezza!
Il presidente Erdogan, non da oggi, sta violando gli standard del sistema bancario e finanziario internazionale, a partire proprio dall'indipendenza della banca centrale. Che cosa sta succedendo in Turchia? Quanto valgono davvero oggi il sistema industriale, l'economia, il sistema bancario e la moneta della Turchia, rispetto ai valori espressi dai mercati?
SALICA: Il presidente Erdogan non è nuovo ad atteggiamenti e reazioni “eccentriche” rispetto ai problemi legati all’economia. Molti ricorderanno quando nel 2018 gli Usa di Trump scatenarono una guerra valutaria contro la Turchia, dopo il diniego del governo turco alla richiesta di liberazione di un pastore evangelico arrestato nel 2016 con l’accusa di spionaggio e terrorismo. In realtà da tempo gli USA osservavano con fastidio la disinvoltura quasi provocatoria con cui uno storico membro della Nato consolidava rapporti non solo commerciali con Cina e Russia. Erdogan reagì alla severa crisi valutaria puntando da un lato il dito contro una non definita "lobby dei tassi d'interesse", esortò i suoi concittadini a cambiare la moneta straniera in quella locale ("Se avete euro, dollari e oro sotto il cuscino, andate in banca e cambiateli in lire turche. Questa è una lotta nazionale"), dall’altro mettendo suo genero a capo del ministero delle Finanze (Berat Albayrak si è poi dimesso nel 2020 a causa delle difficoltà economiche legate alla pandemia). La Turchia affrontò in quel periodo la sua prima grave crisi economica, dopo molti anni di sviluppo significativo. E il presidente reagì utilizzando gli strumenti tipici dei regimi autoritari: c’è sempre un nemico interno/esterno che punta a destabilizzare il paese, il popolo “patriotticamente” deve sostenere la lotta contro il nemico, occorre accentrare ancora di più il potere nelle proprie mani (nomina del genero alle Finanze e di Governatori allineati). Consolidare la spesa pubblica clientelare e controllare artificiosamente i tassi di interesse furono le dirette conseguenze di quelle scelte.
Occorre ricordare che la Turchia è entrata nel club dei primi 20 paesi al mondo con un’economia che ha punti di forza significativi sia nel manufatturiero (siderurgia, meccanica, tessile) che nel terziario (turismo, finanza) mentre l’agricoltura continua a rappresentare una risorsa essenziale e dinamica in molte aree del paese (cereali, cotone, tabacco, lana mohair, pesca, ecc…). Con una popolazione di 85 mln di abitanti in crescita costante, la Turchia è ormai una potenza regionale che, però, ha ancora bisogno di risolvere molti problemi legati alla modernizzazione della sua struttura economica.
L’inflazione galoppante (36%) e la svalutazione della lira (45% in un anno) hanno causato il crollo del potere di acquisto della popolazione, specialmente quella più debole (ma anche la classe media sta soffrendo molto l’attuale congiuntura). Se è vero che la svalutazione della lira aiuta le esportazioni, è altrettanto vero che la bilancia commerciale è negativa (da segnalare la forte dipendenza verso le fonti energetiche esterne, ovviamente pagate in valuta) e questo alimenta ulteriormente la svalutazione. Non c’è un economista internazionale che approvi le mosse e le scelte di Erdogan e, anche consentendogli il beneficio di motivazioni religiose (l’Islam considera impuro il prestito a tassi elevati) o di voler “dopare” l’economia in forte ripresa nei primi mesi del 2021 (ad esempio favorendo il turismo internazionale, fattore chiave dell’economia turca), tutti concordano nel considerare molto alto il rischio che la Turchia entri in una pericolosa fase di instabilità.
SILVAGNI: Non mi pare appropriato parlare di “violazioni di standard del sistema bancario e finanziario internazionale”, dato che la Turchia è un Paese membro dell’OCSE che non figura in alcuna “lista nera” in materia di tassazione o antiriciclaggio, e la cui valuta (la lira turca) è liberamente convertibile. Piuttosto, la Turchia è caratterizzata da una situazione economica e finanziaria storicamente molto volatile, la cui evoluzione nel corso del tempo si è intrecciata con una serie di eventi a livello politico.
La gravissima crisi del 2000-2001 ha coinciso con il tramonto della permanenza al governo del Paese dei partiti laicisti e l’avvento al potere di un partito islamista capitanato da un “uomo forte” che, nel quindicennio 2002-2015, ha costruito e mantenuto un consenso altissimo grazie all’avvio di una fase di espansione economica, costruzione di infrastrutture, stabilizzazione finanziaria e creazione di un tessuto industriale rivolto all’export. Il problema è che in questo periodo vi è anche stata sul piano politico una involuzione in senso autoritario (che ha portato, fra le altre cose, ad una sempre minore indipendenza della Banca Centrale), mentre sul piano finanziario si è verificato il progressivo accumulo di squilibri macroeconomici che sono esplosi con l’avvento della pandemia. Il risultato è che l’uomo forte in questione, ovvero il presidente Erdogan, è da almeno due anni impegnato in un delicatissimo tentativo di mantenere il consenso ed il potere, e al contempo risolvere i gravi squilibri finanziari accumulati negli anni. Per fare ciò, egli sta imponendo al Paese ricette economiche che non è esagerato definire spericolate.
Venendo all’ultima domanda, ad oggi i progressi fatti negli ultimi vent’anni dal sistema industriale turco sono ancora intatti, il sistema bancario è in uno stato accettabile, anche se sottoposto a stress, mentre l’andamento della lira turca (caratterizzato negli ultimi mesi da un fortissimo deprezzamento) riflette accuratamente le politiche monetarie che sono state implementate.
GASPARDO: Rispetto a quanto sta avvenendo oggi in Turchia, la risposta è molto semplice. Da anni ormai il presidente-padrone del paese Recep Tayyip Erdogan è impegnato in una lotta senza quartiere contro tutti, sia all'interno che all'esterno, per ottenere il duplice obiettivo di raggiungere il controllo assoluto del paese e di trasformarlo in una grande potenza a livello mondiale, e questo spiega le purghe che si sono abbattute con sempre maggiore intensità contro i vertici della Banca Centrale Turca.
Riguardo al valore complessivo del “Sistema Turchia”, qui dipende dalle interpretazioni che vogliamo adottare. In un'ottica ristretta, basterebbe guardare ai “credit ratings” espressi dalle agenzie internazionali di rating (Standard & Poor's, Moody's, Fitch, Scope) che si aggirano tutti attorno a “B”, per di più tendente al negativo (quindi in parole povere: spazzatura). Tuttavia, sono il primo ad ammettere che esprimere un giudizio così semplicistico non è serio.
La Turchia è e resterà un paese vulnerabile dal punto di vista finanziario fintantoché il sistema sarà caratterizzato da storture che non esistono in altri paesi economicamente avanzati (come gli assegni post-datati), ma allo stesso tempo negli ultimi 20 anni ha anche costruito un robusto sistema industriale che le permette oggi di essere l'undicesima potenza economica al mondo a parità di potere d'acquisto, superando Italia e Messico e subito dietro a Regno Unito, Francia e Brasile. Non basta una crisi finanziaria, quantunque seria, ad eliminare una potenza manifatturiera strutturata.
Una politica…imperiale?
In una fase recessiva dell'economia, le avventure di tipo imperiale rappresentano un valore aggiunto o una perdita?
SALICA: Da anni Erdogan si muove in coerenza con il ruolo di potenza regionale che lui stesso e molti sostenitori domestici ritengono che la Turchia abbia acquisito. I vantaggi di questa strategia geo-politica accumulati in questi ultimi anni sono d'altronde significativi, anche da un punto di vista economico. La presenza militare a Tripoli e in altri stati africani ha evidenti risvolti anche in termini di ottenimento di risorse minerarie a condizioni vantaggiose. È chiaro che questa strategia ha dei costi difficili da sostenere nel lungo periodo, soprattutto se la fase recessiva dovesse protrarsi. Ma qui si gioca anche la variabile personale di Erdogan, che ha già nel mirino le elezioni del 2023. E considerando che nella situazione attuale Erdogan (come tutti glia autocrati) tende a sovrapporre il proprio destino a quello della nazione, la sua presenza su molti scacchieri internazionali è anche il risultato di un suo personale calcolo politico.
SILVAGNI: A mio parere le avventure di politica estera del governo di Erdogan sono state rese possibili dalla forte espansione dell’economia turca nel periodo 2002-2015 unitamente alla stabilità politica del Paese nello stesso periodo ed al benestare degli alleati della Turchia nella NATO rispetto alle azioni intraprese. Nella attuale fase di crisi, queste avventure vengono tollerate e/o attivamente appoggiate dalla popolazione se portano vittorie politiche, diplomatiche o militari. Si trasformano invece in un pericoloso boomerang per chi si trova al governo se portano sconfitte.
GASPARDO: Dal mio modesto punto di vista, fase recessiva o meno, le avventure di tipo imperiale rappresentano SEMPRE un pericoloso azzardo, non importa se a portarle avanti siano il Gambia o gli Stati Uniti d'America. Certamente gli stati non devono MAI LESINARE sulle spese relative al bilancio alla Difesa e devono sempre mantenere delle Forze Armate adeguate alla tutela dei propri interessi nazionali ed alla preservazione dello status che un determinato paese possiede nello scacchiare internazionale, ma ciò deve SEMPRE E COMUNQUE avvenire in un contesto di DETERRENZA, che è la chiave per la pace globale. Un uomo saggio disse una volta che “nel ring della politica internazionale, solo le COLOMBE D'ACCIAIO si salvano” evitando di fare la fine degli “agnelli”, che vengono sbranati, ma anche dei “leoni” che con il loro atteggiamento troppo aggressivo spingono le suddette “colombe d'acciaio” ad aggregarsi e fare fronte comune contro di essi fino a sopprimerli. Da 10 anni a questa parte la Turchia ha deciso di vestire i panni del “leone” e non riesce più a proiettare attorno a sé la benché minima parvenza di “soft-power”. Risultato: ben pochi oggi la considerano un attore internazionale affidabile e rassicurante.
L’Italia e le sfide lanciate dal “sultano”
L'Italia come dovrebbe porsi, in relazione agli atteggiamenti “imperiali” della Turchia nelle regioni dei Balcani e nel Mediterraneo orientale?
SALICA: L’Italia ha un interesse vitale a contenere l’assertività della Turchia di Erdogan, in virtù della sua storia e della sua posizione strategica nel Mediterraneo. Anche se tardivamente, il nostro paese sta dando segnali incoraggianti che vanno nella direzione di una forte attenzione alle mosse della Turchia sia nel nord Africa che nei Balcani. Allo stesso tempo occorre ricordare che la Turchia è un partner commerciale importante per l’Italia nonché un membro della Nato; questo vuol dire che i tavoli per confrontarsi sono molteplici, e possono portare a rafforzare le sinergie tra i due paesi, piuttosto che esaltarne la competizione muscolare.
Come membro fondatore della UE, l’Italia deve riuscire a svolgere un ruolo più incisivo nei rapporti con la Turchia, cercando di convincere Germania e Francia che può essere individuata un’agenda politica diversa da quelle (opposte peraltro) che le due potenze amiche hanno portato avanti nei tempi recenti verso il paese anatolico. Non dimentichiamoci infine che la Turchia è stata ad un passo dall’adesione alla UE. Che interesse possono avere l’Europa e l’Italia a perderla come partner privilegiato?
SILVAGNI: In primo luogo, l’Italia deve favorire presso le opportune sedi europee l’adozione di un cronoprogramma finalizzato all’ingresso nell’Unione Europea di tutti i Paesi dei Balcani Occidentali che ancora non ne fanno parte, ovvero Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Kosovo, Albania e Macedonia del Nord. L’ingresso nell’Unione di ciascuno di questi Paesi dovrà essere il coronamento di un processo di pacificazione interna, normalizzazione dei rapporti diplomatici reciproci, piena democratizzazione ed eradicazione della corruzione. L’Italia deve dunque porsi come primo sponsor di questo processo, e contemporaneamente esercitare verso tutti questi Paesi una “moral suasion” finalizzata ad impedire che la Turchia ottenga il mantenimento di avamposti militari in questa regione.
Per quanto riguarda invece il Mediterraneo, l’Italia dovrà schierarsi con tutti quegli attori nello scacchiere internazionale che hanno interesse al mantenimento della stabilità politica in tutti i Paesi del Nord-Africa. È chiaro che la stabilità politica in questa area del mondo passa necessariamente per il sostegno ad adeguate misure di contenimento ed eradicazione dell’islamismo politico in tutti i Paesi rivieraschi.
GASPARDO: L'unica ragione per la quale il cosiddetto “Occidente” non si è ancora mosso militarmente contro la Turchia (anche se in passato lo ha fatto contro altri stati colpevoli di atti assai meno gravi, per esempio la Serbia!) è perché gli Stati Uniti d'America pensano ancora di poter utilizzare i turchi come “fanterie per interposta persona” per dare l'assalto alle tradizionali sfere di influenza russa in Ucraina, nel Caucaso e nell'Asia Centrale infliggendo al contempo un duro colpo alla cosiddetta “Nuova Via Della Seta” cinese.
Questo atteggiamento è francamente irresponsabile perché non tiene conto della più pericolosa ed infida tra le 6 dottrine dell'espansionismo turco, è cioè quella del “Mavi Vatan” (la “Madrepatria Blu”). Tale dottrina, formulata dagli ex-ammiragli Ramazan Cem Gürdeniz e Cihat Yaycı (entrambi kemalisti atei e laici, non certo islamisti!) prevede sostanzialmente che la Turchia crei una “blue water navy” (una flotta da combattimento d'alto mare) che le garantisca di dominare tanto il Mar Nero quanto il Mar Mediterraneo e con la capacità di intervenire anche nell'Oceano Atlantico, nel Mar Rosso, nel Golfo Persico e nell'Oceano Indiano. Tale strategia è completamente inaccettabile per l'Italia dato che, dalla Prima Guerra Punica fino ad oggi, la “Stella Polare” della geopolitica di tutte le entità che si sono succedute nella nostra penisola è che il Mediterraneo può essere solamente o italiano o pacificato ma non esiste che una forza ostile all'Italia si possa attestare impunemente nel nostro giardino di casa minacciando la nostra sicurezza nazionale. Gli esempi storici si sprecano e non inizierò ad elencarli. La minaccia turca va affrontata e spenta, se necessario “manu militari”.
Vantaggi e svantaggi del “regime”
La Turchia del premier e poi presidente Recep Tayyip Erdogan appare sempre più un campione delle cosiddette “democrazie autoritarie”. Di che cosa si tratta? Quali sono i vantaggi competitivi di questo nuovo genere di regime politico rispetto alle democrazie liberali e alle dittature di fatto a partito unico?
SALICA: I modelli autocratici sono diventati “attraenti”, a conferma della crisi ciclica delle democrazie (almeno per come le intendiamo noi). Erdogan ha usato e usa le armi tipiche dei regimi autoritari, manovrando con grande cinismo e capacità sia i sentimenti interni (la grande Turchia) che le opportunità geo-politiche offerte dal ruolo storico che la potenza anatolica ha sempre avuto come ponte tra l’Europa e l’Asia. Nel suo caso specifico, c’è comunque da segnalare la forte crescita che la Turchia ha avuto negli ultimi dieci anni e questo risultato ha rafforzato la sua immagine soprattutto nelle aree rurali, dove la propaganda del regime, sostenuta dal controllo sempre maggiore dei media, ha una presa molto forte. La popolazione meno “informata”, sensibile soprattutto all’andamento economico e ai richiami nazionalistici, tende ad accettare favorevolmente un ridimensionamento dei principi democratici (di cui spesso non riesce neanche a percepirne i contorni essenziali) se ottiene vantaggi concreti sulla propria vita quotidiana. Il ragionamento cambia nelle grandi città, dove la leadership autocratica di Erdogan è fortemente contestata. Ma solo un cittadino su 3 vive nelle grandi città.
Erdogan, come altri autocrati nel mondo, capitalizza al massimo il vantaggio di poter decidere con grande tempestività nei momenti e nelle situazioni più drammatiche (pandemie, crisi militari, crisi migratorie, ecc.) e questo aspetto viene enfatizzato demagogicamente rispetto ai meccanismi decisionali delle democrazie occidentali.
SILVAGNI: La “democrazia autoritaria” è una contraddizione in termini! Al mondo esistono oggi tre tipi di regimi politici. In primo luogo, vi sono i regimi totalitari, come ad esempio la Cina, dove il potere costituito non può essere legalmente contrastato, e non viene tollerato alcun dissenso o alcuna forma di opposizione politica. In secondo luogo, vi sono i regimi autoritari, come ad esempio la Russia, dove si svolgono elezioni, i partiti politici sono ammessi e viene tollerata una parvenza di opposizione politica nel Parlamento e nel Paese. Tuttavia, nei regimi autoritari chi esercita il potere adotta una serie di misure, più o meno legali, affinché le opposizioni non abbiano alcuna chance concreta di realizzare un’alternanza di governo, ma rimangano invece “innocue”. Infine, vi sono le democrazie, come ad esempio gli Stati Uniti o la maggioranza dei Paesi europei, dove, con vari gradi di imperfezione, i media sono liberi, i partiti politici sono ammessi e l’alternanza al governo è la normalità.
Il termine improprio “democrazia autoritaria” deriva dal fatto che, ahimè, negli ultimi 20 anni in tutti i continenti del globo un numero preoccupante di ex democrazie (e magari considerate ancora tali da chi governa) si sono convertite in regimi autoritari. La Turchia rientra pienamente in questa lista.
Parlando di vantaggi competitivi, mi trovo perfettamente d’accordo con la celeberrima frase di Winston Churchill, ovvero che “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”.
GASPARDO: Molto semplicemente: si tratta di una sciocchezza! I termini “democrazia autoritaria” utilizzato da Erdogan, “democrazia illiberale” favorito invece dal magiaro Orban o “democrazia non liberale” coniato invece dall'indiano Modi, sono tutti degli assurdi filosofici. Si può discutere se una democrazia possa esse più efficace in un modello di stato “unitario” (Francia) piuttosto che “federale” (Stati Uniti/Svizzera) o se uno stato democratico sia meglio organizzato in un ordinamento “repubblicano” (Italia) o “monarchico costituzionale” (Regno Unito), ma le fondamenta democratiche e liberali di una moderna democrazia non possono essere messe in discussione.
In Turchia possono permettersi il lusso di parlare di “democrazia autoritaria” perché lo stato fondato da Mustafa Kemal Ataturk era ed è uno stato di impronta fascista e profondamente antidemocratica e i cosiddetti “alleati” della Turchia hanno sempre finto di non accorgersene pensando di poterla “addomesticare”; invece, hanno solo spostato in là nel tempo l'inevitabile momento nel quale ci sarebbe stato il cortocircuito istituzionale e la crisi di rigetto dei valori dello stato. Del resto, fu lo stesso Ataturk a dire apertamente che “noi non abbiamo fatto la nostra Rivoluzione per costruire una democrazia liberale”. Erdogan non è né una deviazione né un incidente di percorso, egli è il degno successore di Ataturk e sta concludendo la parabola storica della Repubblica di Turchia nell'unico modo in cui, storicamente e filosoficamente, essa poteva concludersi.
I cosiddetti “vantaggi competitivi” di questo tipo di regimi durano lo spazio di uno o due cicli economici, ma prima o poi le loro strategie mostrano sempre e comunque il fiato corto.
Foto: presidency of the republic of Turkey