Geopoliticamente analizzare un teatro come quello siriano è scientificamente interessante come per un biologo lavorare all’interno di un laboratorio d’eccellenza. Attori ed eventi si susseguono delineando scenari in continua evoluzione. Il conflitto continua nelle periferie del Paese presentando aspetti che, pur nella mutevolezza degli eventi, offrono spunti di paradossale stabilità. Nessuno tende più a rovesciare Assad, tutti puntano a rinforzare lo spazio geopolitico ritagliato. La guerra continua approfondendo il radicalismo confessionale con una divisione chirurgica in zone politicamente rivali ma con leadership capaci di sfruttare la situazione per concludere affari; i belligeranti sono in larga parte siriani radicati nel territorio, abili nel “management” della spartizione delle risorse energetiche con mafie locali ed internazionali e nella distribuzione dei servizi essenziali alle comunità. L’iniziativa politica di Astana ha stigmatizzato l’ascesa russa, accompagnata dalle due potenze regionali interessate all’evoluzione geopolitica: Iran e Turchia.
L’obiettivo non è più la conquista del potere centrale ma la stabilizzazione di quello acquisito localmente. Le opposizioni controllano zone periferiche esposte agli interventi esterni: Idlib - dove si concentrano gli jihadisti altrove costretti alla resa - e la Turchia, Daraa e la Giordania, il Golan occupato da Israele e conteso dall’Iran con Hezbollah, Qalamun in Libano dove emissari iraniani acquistano terreni e fanno proseliti in zone abbandonate dallo Stato. La costa è ormai un protettorato russo, mentre l’Iran ha messo in sicurezza il corridoio che lo collega con il bacino orientale del Mediterraneo passando per Baghdad, Damasco e Beirut.
Teatri, attori, recitazioni a braccio
La Siria, oggetto di una sorta di nemesi libanese, è costretta a subire gli attori geopolitici presenti; il PKK curdo, pur scontrandosi con l’ostilità turca, controlla di fatto il Kurdistan siriano, tanto che il Rojava con le sue SDF (Forze democratiche siriane) è risultato essere l’unico sistema politico capace di proporsi, finora grazie agli USA, quale alternativa al modello vigente nei territori controllati dai “governativi”. Daesh è concentrato in sacche in postura difensiva e volte a riprendere la forma asimmetrica della guerriglia, mentre gli “Ottomani”, che influenzano la zona a Nord di Aleppo sostengono in forma ridotta le opposizioni armate non radicali, utili a dimostrare l’esistenza di controparti moderate.
Gli unici oppositori capaci di efficienza bellica sono i gruppi jihadisti, che continuano a ricevere il sostegno di Stati del Golfo: i Sauditi supportano l’Esercito dell’Islam operativo ad est di Damasco; i Giordani – con il placet israeliano – appoggiano i gruppi ribelli nella zona meridionale del Paese. Se la Turchia ha inquadrato arabi e turcomanni nel nord per realizzare un cuscinetto anti-Pkk, Amman ha costituito una zona di sicurezza acquisendo la lealtà dei miliziani siriani a sud. La Russia è la forza emergente, e punta a consolidare interessi militari e strategici che portano, indirettamente, sia a garantire ad Assad un potere che, se delegittimato, minerebbe qualsiasi progetto egemonico, sia a contenere le proiezioni turche.
Ivan strikes back, ed Uncle Sam? Ecco il delta. Già da tempo Trump aveva introdotto la sua variabile annunciando sia sospensioni di finanziamenti che disimpegno militare, avversati entrambi dal suo stesso staff che ha valutato un ritiro come causa di una conflittualità incontrollata tra YPG1 curdo, che detiene ampi spazi territoriali compresi quelli petroliferi ed improvvisamente privo di tempo per negoziare revisioni costituzionali, il regime di Assad che non intende concedere sostanziali autonomie locali, e la Turchia. La Siria nord orientale potrebbe conoscere una nuova guerra con Ankara e Damasco alleate delle formazioni iraniane, ed una conseguente situazione di caos funzionale ad un’ennesima insorgenza jihadista.
Gli USA hanno rappresentato una garanzia di stabilità, di ripresa dei servizi negli ex territori di Daesh, di dissuasione delle iniziative militari turche, di controllo sia delle proiezioni di potenza da parte dell’Iran, sia della revanche di Damasco, che punterebbe a sfruttare il fattore tempo da dilazionare in relazione all’uscita di scena americana. Ma si può parlare di una vera dipartita o piuttosto di un tentativo di controllare in remoto una situazione insostenibile con sole 2.000 unità combattenti che non possono oggettivamente garantire alcuna transizione politica? L’istinto isolazionista jacksoniano, proprio della società americana profonda ed incarnato da Trump, che avrebbe voluto realizzarlo già per le elezioni del mid-term, ha però trovato l’opposizione dell’apparato politico – militare, teso a proteggere un’egemonia ed una credibilità internazionali sempre più problematiche, alla luce della situazione in cui potrebbero versare i Curdi, prima preziosi alleati ed ora potenziali (e traditi) ostaggi di politiche ben al di sopra del loro quadrante geopolitico.
Attori (in)stabili e fattori variabili
Il ripiegamento statunitense potrebbe indurre la Turchia ad un intervento armato a nord est; se è vero che Erdogan non apprezza l’attuale panorama, è altrettanto vero che gli scenari alternativi potrebbero provocare pericolose isteresi, ovvero un accordo YPG – Damasco; un avanzamento militare siriano capace di estendere l’influenza sciita lungo il confine meridionale siriano; la prevalenza delle priorità geopolitiche russe tese a scoraggiare ripetizioni delle operazioni turche compiute ad Afrin.
In sintesi, legare la presenza USA ad un piano esclusivamente anti Iran è imprudente, ed un ritiro incondizionato potrebbe scatenare un’incontrollabile corsa al potere. Tenuto conto che nelle relazioni internazionali gli spazi vuoti sono un’illogicità da colmare, ogni scenario presenta un calcolo di costo/efficacia incerto e rischioso.
Gli USA sono ancora partner affidabili? Probabilmente è stata questa la domanda che J. Mattis ha rivolto al suo presidente, visto che il concetto stesso di proiezione di potenza ha posto in evidenza due aspetti critici, ovvero l’incapacità di fungere da arbitro regionale e, soprattutto, di non voler/poter fare nulla per invertire la tendenza, date le oscillazioni politiche interne all’establishment americano; del resto POTUS2 non ha fatto altro che accelerare il processo di disimpegno Obamiano del 2013, con la rinuncia ad intervenire a seguito degli attacchi chimici siriani per prevenire – ieri – il rischio di un conflitto con Russia ed Iran, ed oggi uno scontro con la Turchia, mai così aggressiva e peraltro attenta a non interferire con l’azione del soggetto politico cinese, impegnato nel contenimento della minaccia degli islamici Uiguri.
Trump ha bisogno della Turchia, specie dopo gli effetti devastanti del caso Khashoggi, una debacle diplomatica che ha costretto la Casa Bianca a diversificare la propria politica medio orientale nei confronti del maldestro alleato Saudita, comunque pronto negli stessi giorni dello scandalo a versare oltre 100 milioni di USD per la stabilità del nord est siriano.
Che piaccia o meno, Erdogan, attento all’est dell’Eufrate da sempre obiettivo dell’espansione kemalista, è un alleato irrinunciabile e da sottrarre all’abbraccio russo, tanto da potergli concedere, specie dopo la restituzione del pastore Brunson, i sistemi missilistici Patriot, finora negati da tutte le amministrazioni; dopo il bastone, dunque così tante carote tali da indurlo alla rinuncia al sistema missilistico russo S-400 (uno schiaffo alla NATO) ed al ribilanciamento del baricentro geopolitico turco verso ovest, con la contestuale perdita dell’equilibrio raggiunto ad Idlib, dato che i Russi potrebbero valutare diverse opzioni: considerare non più pagante spendere influenza politica per frenare Assad; optare per un sostegno alle forze curde che potrebbero consentire lo schieramento di forze siriane da porre a contatto con quelle turche; creare oggettive difficoltà alle aspirazioni neo-ottomane di diventare un hub energetico regionale.
La Russia è cosciente che il gas scoperto in Egitto e nel Mediterraneo orientale ha condotto ad un’evoluzione della competizione per il mercato europeo con due obiettivi che la riguardano: il primo concerne l’asse iraniano grazie al quale pressare la Turchia per costringerla a trattare con la sua oligarchia energetica; il secondo obiettivo è il Regno Saudita, regolatore dei prezzi petroliferi, e dunque attore da indurre alla riduzione della produzione per far incrementare il costo del greggio, indispensabile per il sostegno del PIL russo.
Chi vince, chi perde, chi prende il posto di chi
In campo rimangono dunque Russia e Turchia, data la debolezza del regime Iraniano fiaccato dalle sanzioni irrogate dagli USA, al momento unico vero successo yankee a fronte degli errori commessi in M.O. dalla fine della Guerra Fredda, a cominciare dalla destituzione di Saddam Hussein che ha consegnato l’Iraq all’influenza degli Ayatollah favorendo l’asse Beirut, Herat, Damasco, Baghdad con al centro Teheran; potremmo ipotizzare un ricorso iraniano alla stessa strategia con la variante costituita dalla Turchia, la leva capace di alterare gli equilibri americani, oppure potremmo più realisticamente propendere per un approccio più cauto, dovuto al timore di trovare il vuoto lasciato dagli americani colmato dalla resiliente insorgenza jihadista. Quel che ci si potrebbe chiedere è perché gli USA, se abbandonano il campo poiché vittoriosi nel confronto con l’IS in Siria, non lascino anche l’Iraq, dove invece ad Al Tanf (nel governatorato di Anbar, noto per la sensibilità all’insorgenza jihadista) hanno da tempo realizzato una base che guardando a Giordania e Siria, diventa una sorta di compensazione con la presenza costiera russa.
Il primo ministro israeliano Netanyahu è certo che gli USA si avvarranno di altri mezzi di influenza d’area; nella zona permarranno francesi e britannici, ed in futuro potrebbero rivestire un ruolo Sauditi ed Emiratini, già in attività di recon3 a nord di Raqqa, anche se sotto l’alea di pericolosi impatti con le forze iraniane dei pasdaran. Azzardiamo un’ipotesi: così come la Turchia gioca su più tavoli, così gli americani, al fine di rimanere comunque nel Levante, potrebbero aver spostato il loro focus sia con la valorizzazione della base di Al Tanf, sia con un programma di investimenti testimoniato dall’arrivo a Baghdad di numerosi imprenditori statunitensi. Anche Israele deve consolidare la sua strategia, per evitare che Iran ed Hezbollah conquistino un punto d’appoggio permanente in Siria; possiamo ipotizzare, malgrado gli avvertimenti conseguenti agli incidenti occorsi durante gli ultimi strike su obiettivi siriani, contatti diretti tra Russi ed Israeliani.
Do you like Risiko?
John Nash e Von Tirpitz si sarebbero divertiti; le variabili ed i rischi, la risikotheorie tedesca in base alla quale stabilire la percentuale di rischio accettabile, in questo gioco sono molteplici, non ultimo quello collegato al business della ricostruzione. Ogni attore coinvolto sta di fatto giocando una competizione multilivello su cui basare la propria politica di potenza futura, non di certo un’accettabile stabilità.
1Unità di Protezione Popolare Curde
2President Of The United States
3ricognizione
(foto: MoD Fed. russa / U.S. Army / U.S. Marine Corps / U.S. DoD / Cremlino / U.S. Embassy Tel Aviv)