Il 27 agosto 2018, una delle milizie che si contendono il potere e i finanziamenti interni ed esteri in Libia, la 7^ brigata altrimenti nota sotto il nome di “Kaniyat” di base a Tarhouna, 65 Km a sud est di Tripoli, ha portato a segno diversi attacchi a obiettivi e infrastrutture protette dalle Milizie sinora in controllo di Tripoli. Dopo 40 morti e 100 feriti, l’intervento di Misurata in soccorso di Al Sarraj e la mediazione dell’ONU è stata raggiunta una fragile tregua. Quanto reggerà la tregua si vedrà, ma certo l’equilibrio dei poteri a Tripoli è stato alterato, da vedere se a favore o sfavore di Al Sarraj. Da un lato infatti l’aiuto da Misurata richiederà compensazioni nella ridistribuzione delle risorse economiche ricavabili dal controllo di Tripoli, dall’altro ha alleggerito la stretta al collo esercitata dalle milizie che hanno tenuto di fatto in ostaggio il Governo Al Sarraj.
Nonostante gli eventi di questi giorni siano gravi, è presto per affermare che si vada verso una guerra civile vera e propria. Certamente, in vista delle elezioni di Dicembre volute dalla Francia, ricordiamo contro il parere italiano, dobbiamo aspettarci un incremento di iniziative militari delle varie milizie per posizionarsi al meglio in vista delle elezioni, ma non credo che dietro l’iniziativa della 7^ brigata ci sia direttamente la mano francese, piuttosto logiche di potere autoctone, anche se certamente torna utile alla causa francese evidenziare plasticamente l’inconsistenza dell’appoggio italiano ad Al Sarraj, nel momento del bisogno.
In Libia gran parte del potere ruota intorno a chi gestisce il petrolio, ovvero la National Oil Corporation e la banca centrale, che per inciso paga gli stipendi sia alle milizie alleate con Al Sarraj che a quelle di Misurata, di Haftar e delle altre innumerevoli compagnie di ventura sbocciate dopo la rivoluzione del 17 Febbraio 2011. Segue come fonte di reddito il traffico di esseri umani che riguarda soprattutto le milizie della costa intorno a Sabratha e di quelle che dominano gli accessi dal confine sud e di sud est. L’attacco della 7^ brigata ha fra l’altro messo in fuga i guardiani di alcuni dei campi di concentramento dei migranti intrappolati in Libia. 400 disperati hanno colto l’occasione per evadere e vagano senza meta in attesa di essere ricatturati o rapiti.
Oltre all’Italia, che ha visto di recente rinnovare da parte USA l’ormai rituale riconoscimento di nazione leader sul dossier Libico, operano una molteplicità di attori, prima fra tutti la Francia che è fra i partner europei la più attiva in Africa, con obiettivi strategici di lungo respiro. Non è un mistero che Macron non riconosca la primazia italiana in Libia, interferendo costantemente sull’azione di tessitura che la nostra diplomazia e l’AISE portano avanti senza clamore. A sostegno di Al Sarraj si muove anche il Qatar. La Francia sostiene esplicitamente Haftar muovendosi sulla scena internazionale con iniziative volte a legittimarlo equiparandolo ad Al Sarraj (unico leader riconosciuto dall’ONU). A tal fine la Francia si presenta sempre più come arbitro “super partes” al posto dell’Italia. Altri sponsor importanti di Haftar sono l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita.
La Russia vorrebbe ostacolare il rientro della Libia nella sfera d’influenza occidentale, perciò resiste a ogni tentativo di ottenere dall’ONU risoluzioni incisive, rendendo nel frattempo impervi eventuali raid contro i trafficanti di esseri umani, previsti ad esempio dalla fase 3 dell’operazione EU Sofia.
Anche Al Sarraj è stato sinora contrario all’ingresso della missione EU in acque territoriali e sul terreno. Così com’è contrario a missioni Nato. Le soluzioni preferite sono gli accordi bilaterali, ritenuti meglio gestibili e secondo la tradizione mediorientale fra loro opponibili in caso di bisogno. È così che ha preso corpo la presenza militare italiana in Libia con Nave Tremiti, destinata al supporto logistico della Guardia Costiera Libica, mentre l’operazione EU Sofia è rimasta letteralmente in “alto mare”, nonostante siano passati almeno due anni dal suo avvio, fortemente voluto dall’Italia, anche come segnale tangibile del supporto europeo. A Misurata è presente anche un ospedale da campo italiano che ha svolto un eccellente e meritorio lavoro.
Nel 2017 sono stati inviati istruttori e mezzi terrestri nel sud del paese per addestrare le guardie di confine. In tutto, la presenza militare italiana è tuttavia molto ridotta (appena 350/400 uomini incluso il personale della Nave e dell’ospedale da campo). Molto utile per molti motivi sarebbe l’espansione del supporto alla componente marittima libica con istruttori del 2° Reggimento San Marco, unica unità militare specializzata nelle operazioni di MIO (Maritime Interdiction Operation) con capacità assalto ogni tempo dislocato possibilmente all’interno della base navale della Marina a Tripoli.
Non è invece ancora decollata la missione italiana in Niger, benché sia stata approvata dal Parlamento nella scorsa legislatura. La Francia, che comanda in Niger, aveva però posto due condizioni alla presenza italiana (dove hanno operato/operano anche Tedeschi e Americani, con una loro base): che gli italiani fossero sotto il comando francese e che fossero disposti a combattere. In mancanza della disponibilità italiana a soddisfare tali requisiti, la nostra missione rimane sospesa, con i militari italiani già inviati a suo tempo ospitati nella base americana, in attesa di sviluppi.
Secondo le fonti aperte sono presenti in territorio libico, in molti casi con interlocutori libici diversi, militari francesi, inglesi e americani. Per l’America, la Libia rimane, anche con l’amministrazione Trump un teatro secondario, in cui comunque muoversi liberamente per il contrasto di Daesh e del terrorismo in generale. Probabilmente Trump sosterrebbe più volentieri l’azione Italiana rispetto a quella francese, meno controllabile e troppo autonoma, ma è verosimile che non si opporrebbe alle mire francesi sulla Libia, qualora l’azione italiana si rivelasse inconcludente, purché il risultato sia un contenimento dell’espansione russa verso ovest.
E l’Italia? Dalla disastrosa sconfitta della seconda guerra mondiale l’Italia non ha una politica estera nazionale autonoma. Le scelte italiane sono state sempre dettate dalle potenze vincitrici e in particolare dall’America e all’Inghilterra. Alcune deviazioni riguardavano i rapporti con il Medio Oriente e il PLO di Arafat, verso i quali l’Italia si barcamenava cercando di mantenere rapporti non ostili, essenzialmente per schivare attentati terroristici. Successivamente, con l’indebolirsi della tutela americana e dell’influenza Inglese abbiamo cercato rifugio nel “multilateralismo” che di fatto prevede la nostra aggregazione a scelte fatte di volta in volta dai paesi più forti, anche quando non necessariamente rispondano pienamente ai nostri interessi nazionali (così è stato per la guerra in Libia del 2011).
Con il riavvicinamento agli Stati Uniti voluto da Sarkozy e con il superamento della guerra fredda l’utilità italiana come alleato privilegiato USA in Mediterraneo si è ridotta di molto. Con ciò si è indebolito l’argine americano alle ambizioni francesi in Mediterraneo e in Italia, lasciandoci alla mercé della nostra potente vicina. I rapporti fra l’Italia e la Francia stanno progressivamente riassumendo la storica conflittualità in atto dalla fase pre-unitaria dell’Italia sino alla vigilia della prima guerra mondiale. È la geopolitica bellezza, e non ci puoi fare niente, verrebbe da dire, citando Humphrey Bogart in Deadline. Basti pensare che i piani di guerra della Regia Marina e la composizione della Flotta italiana erano stati sviluppati in chiave anti-francese e non anti-Austo-Ungarica. Del resto, anche la nostra affiliazione alla Triplice Alleanza era dettata dalla ricerca di protezione contro le interferenze francesi.
In aggiunta, nell’ultimo decennio la politica estera italiana, negli spazi di autonomia rimasti dopo aver soddisfatto le richieste USA (es.: Afganistan, Iraq, etc.) e compressa dal più alto debito pubblico dell’EU dopo la Grecia, è stata condizionata essenzialmente dai suoi eventuali immediati riflessi sulla politica interna, più che da un disegno organico di ampio respiro.
Il caso della Libia è emblematico. Le iniziative italiane, messe in atto a corrente alterna e con efficacia diversa, dai governi che si sono succeduti negli anni, si sono imperniate essenzialmente sull’obiettivo immediato di fermare gli imbarchi di migranti diretti in Italia. È invece mancata un’azione mirata a rafforzare la rilevanza italiana per il popolo libico, consolidando le basi per un rapporto privilegiato di lunga durata. In tal senso, oltre a una più incisiva presenza militare/operativa, da ottenere certamente nei modi più discreti possibili, sarebbero certamente funzionali maggiori interventi di “soft power”. Ripristinare l’efficienza della produzione elettrica di Tripoli, aiutare la ricostruzione della città, scuole e università etc. aumenterebbero di molto l’ascendente Italiano nella percezione della popolazione.
Nel sud della Libia, nella regione strategica governata dalle tribù Tuareg, potremmo costruire pozzi, ospedali (iniziando con un ospedale da campo come quello di Misurata), scuole, caserme per le guardie di confine, coinvolgendo le Tribù direttamente nei ritorni economici dei nostri investimenti, anche per offrire un’alternativa economica ai pedaggi per il transito dei trafficanti di esseri umani che attraversano il deserto impunemente. È evidente che sarebbero necessari accordi diretti con le Tribù e le Milizie che controllano la sicurezza in Libia nelle aree di nostro maggiore interesse (che terrebbero a bada le prevedibili sfuriate di Haftar in chiave anti italiana) oltre naturalmente al consenso di Al Sarraj.
In Libia funziona così da sempre. Ignorare le tribù pensando di risolvere tutto con il governo centrale vuol dire non capire la Libia e fallire in partenza.
In realtà una politica estera di lungo respiro esiste, ma non è guidata dalla Farnesina. È dal palazzo che domina il laghetto dell’EUR, il quartier generale dell’ENI che si decide la linea.
È così dai tempi di Mattei.
Se l’ENI ha non ha mai smesso di operare durante e dopo la rivoluzione del 17 febbraio 2011 è proprio perché il “cane a 6 zampe” guarda lontano e opera su scala globale. La debolezza militare e politica dell’Italia ne ha fatto un maestro di “real politik” e di “soft power”. Nel caso di specie: nel dicembre 2016 l’ENI ad esempio ha accettato il trasferimento alla società russa Rosneft del 30% della sua concessione di Shorouk relativa al grandissimo giacimento di gas naturale denominato Noor, ottenuto dal governo Egiziano. Subito dopo, il fondo sovrano quatarino Qatar investement Authority ha acquisito il 19% del capitale di Roseneft, operazione sostenuta anche da banca Intesa San Paolo1. La Roseneft, il 21 Febbraio del 2017, ha firmato un accordo di cooperazione con il NOC (National Oil Company autorità libica che gestisce tutte le attività legate agli idrocarburi in Libia). In Libia comanda chi ha il petrolio. Il Qatar sostiene Al Sarraj ma si mette d’accordo con i Russi di Rosneft sotto i buoni auspici di ENI. L’Egitto sostiene Haftar, ma Eni ha stabilito solidi rapporti di collaborazione in campo energetico con l’Egitto ottenendo concessioni di sfruttamento di giacimenti di idrocarburi immensi. Gli storici ottimi rapporti dell’ENI con il NOC di cui è da sempre partner privilegiato, costituiscono una dote importante a favore della sua credibilità nell’area, contribuendo alla stabilità di una delle componenti vitali della Libia, la fruibilità delle ricchezze legate agli idrocarburi.
In questo modo l’ENI si posiziona per sopravvivere e prosperare chiunque prevalga in Libia, a meno dei francesi che vorrebbero vedere Total al posto dell’ENI.
In tale senso gioca a favore dell’Eni il fallimento dell’iniziativa di Haftar, su spinta francese di dare vita a un NOC parallelo in Cirenaica per la vendita autonoma da Tripoli dei proventi dei grandi stabilimenti estrattivi del cosiddetto Oil Crescent, di cui si era recentemente impadronito “manu militari”. Tale tentativo è fallito per lo scarso successo del nuovo NOC di Haftar che non veniva considerato legittimato a vendere il petrolio libico dalla comunità internazionale. Haftar rimane tuttavia un contendente forte in caso di elezioni, mentre non sembra abbia la forza per soggiogare le milizie più potenti della Tripolitania se queste si unissero contro di lui. Rispetto ad Al Sarraj, ha certamente il vantaggio di avere una milizia sua, anzi dovremmo definirla una componente dell’Esercito Libico più che di una milizia. Haftar esercita quindi un potere diretto e non riflesso da un appoggio esterno condizionato da rapporti con milizie che di fatto lo tengono ostaggio dei loro interessi. Al Sarraj è al momento il cavallo più debole. Ma se le cose stanno così perché l’Italia ha puntato proprio su Al Sarraj?
La risposta è nelle considerazioni precedenti.
La prima ragione è il terminale di Mellitah (ENI) da cui parte il grande gasdotto Greenstream che porta a Gela il gas naturale che proviene da Bahr Essalam e Wafa e che costituisce il canale di rifornimento più importante per il nostro paese, subito dopo le condutture provenienti dalla Russia.
L’ENI possiede il 50% dello stabilimento di Mellitah e della società che lo gestisce. L’altro 50% è del NOC libico. Nelle acque prospiciente Tripoli vi sono inoltre importanti giacimenti affidati anch’essi all’ENI.
Intorno al terminal e alle acque prospicienti Tripoli insistono gli interessi e la maggiore vulnerabilità in ambito energetico dell’Italia in Libia.
Per la sicurezza di Mellitah, l’Eni si è affidata a milizie locali, fra cui la brigata 48, formatasi subito dopo il rovesciamento di Gheddafi, da elementi dell’Esercito Libico ante rivoluzione, integrata successivamente da consistenti immissioni di membri del clan Dabbashi che è intervenuto (secondo fonti aperte mai confermate dal Governo Italiano) anche nel bloccare le partenze dei barconi dei migranti in attesa della ripresa dell’operatività della Guardia Costiera libica.
Il legame fra l’Italia e le Milizie rivoluzionarie di Tripoli che hanno sostenuto Al Sarraj è quindi antecedente al suo insediamento da parte dell’ONU.
Sarebbe stato difficile tutelare i rapporti con le milizie Tripoline e della costa occidentale della Tripolitania che controllano Mellitah, senza appoggiare Al Sarraj al suo insediamento a Tripoli.
La seconda ragione risiede nel multilateralismo della nostra politica estera che ci porta a rinunciare a scelte autonome.
Il punto è: sino a quando la concessione all’ENI sulla nostra politica estera in Libia possa reggere senza danni per l’Italia, quando l’avversario non è solo la Total, ma la Francia?
Cosa succederebbe se milizie alleate ad Haftar conquistassero Mellitah? Cambieremmo cavallo?
Il fatto è che noi siamo percepiti dalle fazioni libiche come l’amico ideale del bel tempo, educato e affettuoso, non invadente, ma inutile, anzi dannoso quando il tempo volge al peggio, quando vorresti il tuo amico in mare con te e non sulla banchina ad aspettare il ritorno del tempo buono. Un fatto è certo dobbiamo muoverci saggiamente, ma velocemente, cambiando passo per giocare un ruolo attivo nell’interesse nazionale e della Libia, altrimenti è meglio ripassare seriamente il francese.
1 Michela Mercuri – Incognita Libia - cronache di un paese sospeso.
(foto: Governo italiano / Présidence de la République française / Difesa / web)