Dopo le rapide vittorie delle forze tripoline contro le truppe di Haftar in Tripolitania l’attenzione dell’opinione pubblica sul conflitto libico è tutta concentrata nella porzione di territorio compresa tra la base aerea di al-Jafra e la città di Sirte, capolinea della rotta terrestre del petrolio proveniente dai giacimenti del sud e porta verso i mercati energetici dell’Europa mediterranea.
Un evento importante ha accompagnato la vittoriosa campagna in Tripolitania del GNA e la rovinosa ritirata di Haftar con tanto di proposta di mediazione egiziana sdegnosamente rifiutata da Sarraj: la riapertura dei pozzi petroliferi di Sharara dopo il blocco alla produzione imposto da alcune milizie assoldate allo scopo dal maresciallo di Libia. Quello di Sharara è un vero e proprio campo pozzi capace d’estrarre a pieno regime 300.000 barili di petrolio giornalieri e più di quattro mesi fa era stato chiuso dagli haftariani nell’ambito d’una campagna sia militare che politico-mediatica volta a tagliare i rifornimenti energetici al GNA ed a far perdere a Sarraj credibilità quale interlocutore politico ed economico-commerciale di fronte ai partner europei. Al momento del sequestro dei pozzi le compagnie proprietarie delle licenze d’estrazione – la spagnola Repsol, la francese Total, l’austriaca OMV e la norvegese Equinor – non poterono fare altro che ritrovarsi di fronte al fatto compiuto; erano i giorni della discussa Conferenza di Berlino a cui Haftar aveva voluto lanciare un segnale chiaro: non avrebbe negoziato con Tripoli.
Ora i responsabili dei pozzi di Sharara hanno dichiarato che la ripartenza produttiva del campo sarà graduale, inizialmente con l’estrazione di 20.000 barili al giorno per poi tornare nel corso del tempo in piena efficienza. La riapertura dei pozzi di Sharara è stata utilizzata come arma contundente nella “guerra dei media” da parte del governo di Tripoli che ha così voluto identificare Haftar come una forza destabilizzante per i normali equilibri del Paese.
La vittoria militare in Tripolitania ha consentito al GNA di ristabilire i normali canali commerciali – o almeno questo è quanto dalla capitale vogliono far credere – dopo i sabotaggi haftariani dei mesi scorsi.
Mercoledì hanno ripreso a funzionare i pozzi di El Feel che avevano subito la stessa sorte di Sharara; notizia importante anche per l’Italia questa visto che quei pozzi sono gestiti da una partnership di ENI con la libica National Oil Company (NOC).
Tuttavia gli italiani hanno qualche altro e più serio problema in Libia legato agli impianti petroliferi ENI di Mellitah occupato cinque giorni fa per qualche ora da miliziani filo-tripolini della città di Zuara incaricati di proteggere il sito dall’esterno e che chiedevano di alzare il prezzo della protezione che il gruppo offre alla società. I miliziani hanno minacciato di chiudere i dispositivi che permettono al gas di essere compresso nel gasdotto verso l’Italia. Nonostante la questione sia stata risolta con un non meglio specificato “accordo commerciale”, il dato che emerge è che la sicurezza dei tecnici italiani e degli impianti di proprietà della compagnia italiana, un tempo considerati intangibili da quasi tutte le parti in campo, oggi non sono più al sicuro.
Certo è che lo scenario libico dopo la rovinosa sconfitta subita da Haftar in Tripolitania è radicalmente cambiato: basi aeree russe e turche sulla costa sarebbero state fantascienza fino a poche settimane fa, ormai si può dire che l’Italia – almeno per quel che riguarda gli aspetti esclusivamente militari della vicenda libica – sia stata esclusa dalla sua ex colonia. Restano da difendere gli interessi energetici ed il poco spazio d’autonomia che la diplomazia economica – sia quella ufficiale che quella parallela – ancora conserva.
Tuttavia a Tripoli sanno che Roma “fa il doppio gioco” – così infatti sono state interpretate la vendita delle due Fremm della Marina Militare all’Egitto e l’accordo italo-greco sulle rispettive ZEE - secondo quanto dichiarato da fonti vicine a Sarraj e non è detto che quando sarà ora di riscuotere i dividendi del successo l’Italia possa ancora far valere il suo peso a fronte dei boots on the ground turchi con Erdogan (ed il Qatar in posizione defilata ma sempre presente nei corridoi del potere tripolino) che punta ad ottenere licenze d’estrazione petrolifera ed importanti commesse per la ricostruzione della Libia.
Erdogan ha poi incassato un altro importante successo che ne rafforza il potenziale di ricatto nei confronti non solo di Roma ma dell’Europa intera: oltre al controllo della rotta balcanica dei migranti, il “sultano” di Ankara controlla anche quella mediterranea grazie alla presenza in Libia ed all’ascendente che i turchi hanno, per ovvi motivi, su Tripoli. Il peggioramento radicale dei rapporti italo-libici nel corso degli ultimi giorni è una prima indicazione del fatto che la Turchia con molta probabilità utilizzerà il controllo dei flussi migratori contro la politica di Roma in Libia.
Perché se è vero che l’Italia in Libia è ancora il primo investitore ed è il primo mercato per l’export (18% del totale) libico, mentre la Turchia rappresenta solo l’1,5%, l’area d’influenza italiana è soggetta ad erosione ed è stata aggredita con una guerra parallela mentre Ankara, che oggi fa la parte del leone, ha tutto da guadagnare giocando d’azzardo.
Foto: presidency of the republic of Turkey / Javier Blas