Libia sì, Libia no

(di Denise Serangelo)
17/02/15

​A poco più di 350km dalle coste italiane, un cadavere frutto dell'ennesimo intervento occidentale fallito rischia di diventare un problema anche nostro. Lo Stato della Libia è tutto quello che la Politica estera e la Diplomazia militare scongiurano da sempre.

E' un tripudio di etnie e combattimenti, una guerra civile che di civile ha perso tutto, dove non ci sono bandiere ma tanti interessi e dove tutti cercando di arraffare qualcosa.

La Libia è il caos della geopolitica, terreno fertile per qualsiasi affare il mercato dell'illegalità possa offrire a questo mondo: traffico di armi, rivendita al mercato nero dell'energia e come se potesse andare peggio una tratta di esseri umani meticolosamente organizzata.

Spaccato in due, questo pseudo paese ha un Governo riconosciuto a livello internazionale, frutto delle elezioni del 25 giugno del 2014, alla cui guida troviamo Abdullah Al Thinni e la cui sede si trova nella città di Tobruk.

Dall'altra parte le milizie rivoluzionarie di Misurata che sono stanziate a Tripoli e pensano di dover difendere il paese dal neo Governo eletto che secondo loro minaccia la rivoluzione avviata nel 2011.

Un campo minato di accuse reciproche da cui difficilmente si riuscirà ad uscire.

Vista la matassa irrisolvibile, il nostro Paese - che pare proprio non sappia resistere all'enfasi di partecipare alle danze - ha recentemente dichiarato di volersi porre a capo di una coalizione internazionale per fermare l'avanzata del Califfato Islamico in Libia.

L'idea, lanciata come se stessimo giocando ad una versione gigante di Risiko, ha fatto tremare i Dicasteri di Esteri e Difesa che nel dubbio hanno appoggiato il Governo senza spiegare però materialmente come questa coalizione - si parla di cifre intorno ai 5000uomini solo per l'Italia - dovrebbe operare.

L'Europa non si è pronunciata, passando la palla al Consiglio di Sicurezza dell'ONU che dovrà decidere, con i suoi tempi, se formare un coalizione da inviare in Libia.

Nell'attesa l'opinione pubblica nazione si è nuovamente spaccata, creando una divergenza di opinione come non si vedeva da tempo.

La maggior parte sembra condividere l'interventismo renziano e la paura per un'imminente tracollo dell'Italia sotto scacco terroristico, l'altra parte oscurata e spesso tacciata di superficialità guarda alla situazione con occhi meno allarmistici ma ugualmente preoccupati, auspicando una soluzione che preveda l'uso della componente militare solo in una piccola parte.

L'Italia che torna in Libia è un incubo che molti analisti non vorrebbero affrontare.

Nella realtà, dobbiamo fare i conti con una situazione politica fragile e instabile.

I ministeri interessati di Esteri e Difesa non godono - purtroppo - di un buono stato di salute nel nostro paese, sono da sempre poco incisivi, spesso assenti o peggio ancora vittime delle chiacchiere da bar che riportano sui comunicati ufficiali.

La situazione caotica e frammentata della Libia impone, per intervenire in modo esaustivo, una guida strategica di menti illuminate, che pensano fuori dagli schemi e che abbiano un quadro chiaro della situazione geopolitica del Mediterraneo.

Non è la solita polemica sterile e fine a se stessa ma un dato di fatto che abbiamo davanti agli occhi da decenni, se si vuole prendere la leadership di un'operazione di questa portata, con gli occhi del mondo intero puntati sulle nostre truppe, non possiamo sicuramente avventuraci come l'armata Brancaleone.

Gli aspetti innovativi della minaccia e le molteplici analisi hanno un livello di complessità elevato, è facile per chi di terrorismo e geopolitica non ha fatto la carriera cadere vittima della decisioni prese "di pancia" e anche solo di poter capire fino in fondo di cosa realmente stiamo parlando.

La guerra, in questo caso, o la sappiamo affrontare o ne diventiamo vittime.

Escluderei a priori l'opzione già ampiamente utilizzata di delegare le nostre mancanze politiche alle sfere militari come accaduto 15 anni fa per l'Afghanistan.

Questa volta invece di partire con decenni di inattività sulle spalle e materiali scadenti rischiamo di trovarci catapultati in mezzo ad Eserciti che godono di reputazioni inattaccabili nei loro paesi, con una leadership fortissima e che non hanno sofferto fasi di stallo operativo e ne tanto meno tagli spaventosi al loro comparto Difesa.

Sarebbe inoltre sciocco non considerare un grosso ostacolo le regole d'ingaggio che preferiscono strizzare l'occhio all'opinione pubblica piuttosto che soddisfare le necessità tattiche degli uomini sul campo.

I guerriglieri hanno un mercato illegale e tecniche apprese dagli stessi manuali scritti da noi occidentali, hanno fatto incetta di qualsiasi arma di piccolo o grosso calibro e pezzi di artiglieria che l'esercito sovietico e americano hanno lasciato nei territori occupati. Uso di IED e pianificazione di attentati complessi sono il pane quotidiano per chi della guerra ha fatto la sua ragione di vita, fare strage nelle file dei nostri Eserciti così abituati alla tecnologia ma poco al combattimento vero, quello dove alla fine si contano i morti sulla coscienza.

A distanza di 15anni dall'inizio della missione in Afghanistan a questo nostro esercito manca tutto, tranne la voglia di dimostrare quanto possa valere se solo gli permettessimo di svolgere il suo lavoro con gli opportuni mezzi.

Invece ci ostiniamo a pensare che quello che abbiamo basti per competere con contingenti addestrati come macchine e con forniture fantascientifiche che per noi rimangono un lontano miraggio.

Nelle nostre file, mancano i mezzi, persino quelli più elementari per la città, nemmeno a dirlo che non siamo pronti ne per la Libia ne per qualsiasi altro scenario immaginabile. Procurarci mezzi in comodato d'uso oppure acquistando nuovi progetti darebbe il colpo di grazia alle finanze dello Stato.

Avviare una missione - di qualsiasi tipo - prevede di far fronte a costi mastodontici, aprire una missione in cui l'Italia dovrebbe essere la punta di diamante e addirittura al comando non è nemmeno lontanamente immaginabile.

Per queste e mille altre ragioni l'Italia non può partire per la Libia senza dover fare i conti con l'inefficienza e l'inettitudine nell'affrontare la situazione.

Non siamo pronti, vorremo ma non possiamo. Dovremmo ma non vogliamo.

Il passato coloniale in Libia - a differenza di quanto accade in Somalia - di certo non aiuta.

I libici pare abbiano una buona memoria e di certo accettano di buon grado i proventi che arrivano dal Bel Paese sotto forma di pagamenti per i rifornimenti energetici, ma hanno già messo in chiaro una loro posizione sfavorevole circa l'intervento italiano.

Il colonialismo non è una delle pagine migliori della storia libica e gli italiani non hanno brillato per lungimiranza, la morte del religioso e guerrigliero libico cirenaico Omar al-Mukhtar che guidò la guerriglia anticoloniale negli anni venti può essere considerata da noi una svista ma per i libici è un gesto che aspetta ancora di essere vendicato a dovere.

Quanto detto fin'ora potrebbe sembrare agli occhi dei più intransigenti una dichiarazione di resa, una rinuncia al proprio amore di patria.

Al contrario, rendersi conto delle nostre debolezze e sopratutto affrontarle prendendone atto significa innanzitutto non manderemo alla mattanza giovani soldati che per questo paese fanno sacrifici enormi, non lasciarsi guidare dalla paura significa iniziare dal basso a delegittimare il clima di terrore - sopratutto mediatico - che si è creato intorno alla crisi del Mediterraneo.

Allora come si deve e si può reagire contro l'oscenità e la violenza che quotidianamente entra nelle nostre case?

In prima analisi è fortemente auspicabile - grazie ad un preventivo e minuzioso lavoro di intelligence sul campo - eliminare quelle fonti di sostentamento finanziario con cui i terroristi acquistano armi, forza lavoro e alimentano la loro macchina del terrore.

Attraverso i bombardamenti mirati di pozzi petroliferi sotto il controllo del Califfato e di altre fazioni pericolose, si andrebbe a minare la loro capacità economica dalle fondamenta.

Sicuramente questa seconda opzione ha un grosso impatto anche per noi occidentali, una raffineria o un gasdotto costano milioni e distruggerli è una soluzione dolora ma necessaria e che comporta rischi minimi per chi effettua l'azione. Anche dal punto di vista delle perdite definite "collaterali" - le così definite vittime civili - questa opzione le vede ridotte al minimo.

In seconda analisi è fondamentale ridurre e fermare - in modo perpetuo possibilmente - il traffico di esseri umani. Queste vittime, sono usate come dei veri e propri finanziatori della stessa guerra da cui stanno scappando.

In questo caso ad intervenire sarebbero le navi della Marina Militare - anche qui possibilmente non solo quelle Italiane - che ostacolerebbero la partenza dai porti libici dei barconi della speranza diretti presumibilmente verso le coste del nostro paese.

Con un secondo intervento mirato di gruppi misti appartenenti ai reparti speciali dei Paesi coinvolti si potrebbero arrestare e fermare le partenze ancora prima che vengano organizzate, prendendo letteralmente la sorveglianza dei porti più importanti.

Queste due ipotesi di intervento alternativo devono essere supportate a livello Nazionale, da una politica chiara e decisa e da una comunicazione veritiera sulle condizioni in Libia e nel Mediterraneo. Solo attraverso la consapevolezza di quello che sta accadendo, senza creare allarmismi ed inutili preoccupazioni, utilizzando la logica prima delle armi possiamo minimizzare se non sconfiggere una minaccia come quella del terrorismo ed in particolare porre attenzione al caos libico.

Imbarcarsi in una guerra che non potremmo mai vincere avrebbe l'effetto di renderci vulnerabili già più di quanto non siamo in questo momento ma sopratutto eviterebbe di rivedere le già tristemente note scene di dolore per l'arrivo delle bare avvolte nel tricolore, le bare che contengono il figlio di qualcuno, il marito, il fidanzato o il padre di qualcuno.

Quando si tratta di Guerra, guerra con la G maiuscola, non possiamo permetterci di essere superficiali.

Non possiamo scartare decisioni solo perché sono difficili o perché comportano sacrifici importanti, se vogliamo schierarci nella lotta la terrorismo a testa alta è imperativo utilizzare decisione e fermezza, in alternativa possiamo limitarci ad aspettare che il lassismo e la paura ci portino a capitolare.