L’emergenza Covid, lo sviluppo delle reti 5G e le ultime battute dell’intricata vicenda collegata alla compartecipazione cinese allo sviluppo della rete ferroviaria del porto di Trieste hanno riportato al centro del dibattito le relazioni tra Roma e Pechino. Non c’è dubbio che l’attuale governo italiano sia particolarmente sensibile ai richiami politico-economici provenienti dalla Cina e che più di qualcuno a Roma – specialmente tra i pentastellati – sia tentato dalla “nuova via della seta”.
Senza entrare nei dettagli, la conclusione che si può trarre è che un Paese della NATO prima ancora che della UE ha salde radici nel blocco occidentale e, sebbene abbia una certa autonomia politico-diplomatica – la cosiddetta “sfera creativa” della teoria dei cerchi concentrici della politica estera italiana – non potrà comunque scegliersi, tra i partner privilegiati, quella che è diventata la principale potenza rivale del proprio schieramento d’appartenenza.
La tensione registrata negli ultimi mesi tra Stati Uniti d’America e Repubblica Popolare Cinese non permette ai rispettivi alleati spazi di manovra sufficienti per una politica autonoma; si tratta di scegliere se appoggiare il “capitalismo democratico” di Washington o il “capitalismo autoritario” (ormai il socialismo sembra non andare più di moda) di Pechino.
Nonostante i concreti e subitanei vantaggi economico-commerciali che l’Italia può intravedere da una fattiva collaborazione con i cinesi – con il rischio, tra gli altri, di far fare a Trieste la fine del porto del Pireo – i problemi sono comunque maggiori e le reazioni stizzite di statunitensi e partner europei al momento della firma del memorandum d’intesa italo-cinese del marzo 2019 danno l’idea di come siano percepite determinate scelte.
I rapporti bilaterali italo-cinesi sono quindi soggetti ad una differenza sostanziale tra i vantaggi percepiti sul breve periodo e gli svantaggi sul medio-lungo periodo; senza contare che esistono aree del mondo come il Mediterraneo ed il Corno d’Africa che giocano un ruolo fondamentale per la tutela degli interessi nazionali italiani nelle quali inevitabilmente Roma si trova in contrasto con Pechino.
La teoria italiana del “Mediterraneo allargato” e la “Indo-Pacific Strategy” statunitense rispondono alle stesse esigenze da due prospettive diverse: mentre per Roma è fondamentale garantire la libertà di navigazione nell’Oceano Indiano e nel Mar Rosso quali vie d’accesso al Mediterraneo, per gli Stati Uniti è opportuno ricalibrare gli equilibri di potenza in quelle acque secondo il nuovo corso della politica estera trumpiana che ha espanso e revisionato la “Indo-Pacific rebalancing Strategy” di Obama. Entrambe queste teorie strategiche hanno un minimo comune denominatore nella stabilità geopolitica del “Cindoterraneo” e la conditio sine qua non è il contenimento delle ambizioni cinesi.
La nuova centralità del Mediterraneo ha spinto molti attori protagonisti della scena internazionale ad attivare dispositivi – anche militari – di controllo e salvaguardia delle rotte commerciali più trafficate da e per il Mare Nostrum. La regione geografica del Corno d’Africa è l’esempio lampante dei sommovimenti in atto: da circa vent’anni questa zona dell’Africa è assurta al ruolo di crocevia e snodo strategico a livello mondiale. Una centralità favorita dalla geografia e dalla posizione e giustificata dalla sua storia, in quanto questa regione africana è sempre stata al centro degli interessi politici ed economici sia delle grandi potenze europee di fine Ottocento (Impero Britannico, Francia e Regno d’Italia), sia delle nuove realtà globali emerse all’indomani della Seconda guerra mondiale (Stati Uniti e Unione Sovietica) e degli equilibri globali unipolari prima e multipolari poi post-1991 (Stati Uniti, Cina e Russia). Sia il soft power – di cui è maestra proprio la Cina neo-coloniale – sia l’hard power (per questo basti pensare alla iper-militarizzazione di Gibuti) sono accettati per le dinamiche di mantenimento dello status quo che di sovvertimento del medesimo.
Ogni ipotesi revisionista degli equilibri di potenza nell’ambito d’un nuovo scramble for Africa (una vera e propria OPA lanciata dalla Cina sulle economie e le infrastrutture dei Paesi emergenti del Continente nero) è contraria agli interessi di Roma e, cosa importante, dell’Alleanza Atlantica.
Storicamente la NATO è per l’Italia un “moltiplicatore di potenza” ed avere uno strumento militare inserito nei meccanismi dell’Alleanza può garantire a Roma un peso politico superiore a quello reale. La stessa presenza navale nell’Oceano Indiano e nel Mar Rosso avvicina l’Italia agli Stati Uniti e la allontana, checché ne dicano i filo-cinesi, da Pechino.
Giocare in ottica atlantista – o comunque occidentale – la partita della “presenza” nel Cindoterraneo sarà essenziale per un’Italia che, pur faticando a trovare il proprio spazio nel Mediterraneo, non deve comunque dimenticare la lezione storica secondo cui per proteggere il proprio “giardino di casa” nel Mare Nostrum occorre avere piedi – ed ancore – ben piantate nei mari caldi fino all’imbocco di Suez. L’attivismo della Cina nel Mediterraneo e nel Corno d’Africa rende più che mai attuale la lezione di Francesco Crispi.
Foto: U.S. Navy / presidenza del consiglio dei ministri / chinanews