L’annuncio ufficiale, dopo le smentite di maggio, è arrivato a Parigi il 13 dicembre 2017 durante il vertice del G5 Sahel: un contingente militare italiano, formato da 470 militari e 130 veicoli, sarà inviato in Niger con l’obbiettivo di addestrare forze in maniera tale da incrementare la stabilità della zona e la lotta contro il terrorismo nella fascia di territorio dell’Africa sub-sahariana tra il deserto del Sahara a Nord e la Savana del Sudan a Sud. La zona è di estrema importanza per i flussi migratori indirizzati verso l’Italia e l’Europa, proprio per questo i soldati italiani, oltre ad addestrare le forze locali, svolgeranno “attività di sorveglianza e di controllo del territorio” africano al fine di “regolare” quella rotta dei migranti che dalla Nigeria arrivando in Libia solo lo scorso anno ha visto circa 417 mila persone dirigersi verso il Mediterraneo.
La pressione diplomatica dell’Europa nei confronti dei Paesi del Sahel per spingerli a contrastare con più efficienza il traffico di migranti è in corso oramai da mesi, se non anni. Il Niger rimane, infatti, al centro dell’attenzione delle diplomazie mondiali proprio per essere uno degli snodi cruciali per il traffico di uomini, di armi e di droga: la città di Agadez è diventata negli anni uno degli snodi continentali delle migrazioni verso l’Europa, il punto di incontro del Mediterraneo con l’Africa sub-sahariana. Nella zona già da tempo francesi, americani e tedeschi sono all’opera per controllare il territorio con operazioni militari più o meno strutturate. In Niger, infatti, sono già presenti importanti contingenti americani (circa un migliaio supportati da droni e nella base di Agadez), e francesi (circa 4 mila uomini nella base di Madama), più le truppe locali e i vari contingenti africani di peace keeping che vanno e vengono su frontiere tracciate nella sabbia. Anche l’Onu è presente nel Sahel con la Missione di stabilizzazione in Mali, MINUSMA (con sede a Bamako), composta da 10.000 soldati e 2.000 poliziotti. L’impegno internazionale nel Sahel è massiccio, ma, a quanto pare, non è abbastanza.
Guardando alla storica presenza francese nell’area e al recente protagonismo tedesco, la scelta del governo italiano è probabilmente inevitabile per non rimanere estromessi dalla partita del Sahel.
Nel dicembre 2016 il governo italiano ha ufficialmente aperto la prima ambasciata in Niger. Nell’agosto dello stesso anno ha firmato un accordo con Germania, Francia, Spagna, Niger, Chad e Libia in cui aiuti economici sono stati offerti in cambio di un maggior impegno nella lotta al traffico di migranti. Infine, a settembre, il ministero della Difesa ha sottoscritto un accordo di collaborazione militare con il Niger. L’entrata in scena dell’Italia in questo importante scacchiere diplomatico ha l’obiettivo di aumentare il peso diplomatico del nostro Paese di fronte ad attori internazionali che ultimamente si preparano ad impegni sempre maggiori sul territorio: nuove e moderne basi militari infatti stanno sorgendo in Niger per meglio difendere i vari interessi internazionali. È chiaro che per l’interesse nazionale e per il ruolo italiano in Libia, sarebbe stato meglio inviare il nostro contingente nel Fezzan, coerentemente con le iniziative già prese dal ministro Minniti con gli “stakeholders” in quell’area. Sarebbe stato un segnale forte a favore di Al Serraji e un monito ad Haftar della volontà e capacità Italiana di giocare un ruolo attivo e credibile in Libia. Ma qui sta il punto. Non abbiamo la forza politica, prima di tutto, di sostenere un eventuale disaccordo con Haftar, benché la sua forza sia più teorica che concreta. In tal senso è stata emblematica la nostra acquiescenza alle minacce di Haftar di attaccare le navi italiane qualora fossero entrate nelle acque territoriali libiche in accoglimento alle richieste del governo legittimo libico, sostenuto dall’ONU, oltre che dall’Italia stessa.
Una presenza autonoma Italiana in Fezzan avrebbe inoltre ostacolato i progetti della Francia in quell’area della Libia, soprattutto dopo la scoperta di importanti giacimenti d’oro (v.articolo, ndr). Meglio dal punto di vista francese cooptare l’Italia nell’ambito di una missione a leadership francese in Niger.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale il ruolo di “guida” sotto il profilo militare era riconosciuto dall’Italia solo agli USA, all’ONU o all’UE. La Francia era considerata una concorrente (spesso la più insidiosa) e i nostri Governi evitavano di assumere ruoli subalterni ad essa. Con lo spostamento del focus strategico degli USA in Asia e la Brexit della Gran Bretagna, i nostri “protettori” storici, in chiave di contenimento delle ambizioni francesi, sono distratti altrove, lasciandoci esposti.
La nostra accresciuta debolezza, l’abitudine a rifugiarci nel “multilateralismo”, per sottrarci alla responsabilità di decisioni motivate dalla difesa dell’interesse nazionale in quanto tale, ci induce oggi a riconoscere alla Francia il ruolo di Stato di riferimento per la nostra sicurezza e non solo. Non è un caso che questa crescente sudditanza alla Francia stia avendo effetti anche sulla progressiva perdita di capacità autonome nell’Industria legate alla Difesa oltre che in altri settori quali quello delle Banche, delle comunicazioni e della grande distribuzione.
Quella del Sahel è una guerra dimenticata. I francesi sono alla testa di un’operazione anti terrorismo dall’estate 2014 che prevede la presenza di 3.000 soldati tra Mauritania, Niger, Burkina Faso, Mali e Ciad, quest’ultimo è l’alleato più importante di Parigi in Africa. I tedeschi hanno una presenza sempre maggiore in Mali, e per la logistica si appoggiano all’aeroporto di Niamey, capitale del Niger. I due alleati europei si muovono in stretto coordinamento con una presenza ormai sempre meno discreta. Gli Stati Uniti sono presenti con forze speciali e droni.
La prima delle minacce che missione italiana sarà chiamata a fronteggiare sarà quella posta dal jihadismo islamista, che nelle aree di frontiera tra Niger, Libia e Algeria (a Ovest) e Niger, Libia e Ciad (a Est) ha assorbito i reduci delle lunghe battaglie algerine e ha sfruttato la frammentazione della Libia per rafforzarsi e diventare sempre più insidioso. Il contingente italiano dovrebbe sostituire la guarnigione francese che presidia l’avamposto Madama, un vecchio fortino della Legione Straniera a poca distanza dalla frontiera libica. Ufficialmente il compito primario del contingente italiano sarà probabilmente l’addestramento delle forze locali. Una parte dei nostri uomini dovrebbe essere di stanza a Niamey, la capitale del Paese, dove contribuirebbe alla formazione dei militari dell’aviazione nigeriana. Lo spiegamento di forze italiane nasce in conseguenza dell’accordo firmato nel maggio scorso con Libia, Ciad e Niger per la collaborazione nel controllo dei flussi e la costruzione di centri di accoglienza per i migranti che transitano per quei Paesi.
Quella che si appresta a partire sarà una missione difficile, la più delicata degli ultimi anni secondo molti, e con grandi difficoltà logistiche, visto che gran parte dei mezzi del contingente italiano sbarcherà sulle coste del Benin e da lì percorrerà 2.400 chilometri in gran parte in Nigeria. Non bisognerà sottovalutare inoltre il costo economico di una missione di questo tipo: inviare e mantenere un contingente anche di soli 470 soldati, in un territorio così impervio e difficile come quello del Sahara avrà costi logistici consistenti (tenendo presente inoltre che gran parte dei rifornimenti dovranno avvenire per via area).
Dalla composizione del contingente si potranno evincere i compiti effettivi che dovrà/potrà svolgere. Con soli 470 uomini la consistenza delle pedine di manovra appare già in prima battuta piuttosto modesta, considerato che l’Esercito di massima viaggia “pesante” dal punto di vista logistico. È probabile che la componente operativa da cui trarre le eventuali pattuglie non superi la compagnia. Il ruolo militare sarà quindi - inizialmente almeno - piuttosto limitato. È comunque prevedibile che, come per le altre missioni all’estero, seguiranno progressivi incrementi, una volta ottenuto il benestare politico all’avvio dell’operazione. Il secondo passo normalmente consiste infatti nell’inserire degli elicotteri per la mobilità tattica e per le Medvac (medical evacuation), poi alcuni elicotteri d’attacco Mangusta e integrazioni di personale vario (prevedibile l’obiettivo di schierare con piccoli incrementi successivi un migliaio di uomini). Con l’arrivo del gen. Vecciarelli (attuale capo di stato maggiore dell’Aeronautica) alla Difesa al posto di Graziano, previsto entro il prossimo novembre, si assisterà anche all’aumento della presenza di personale e mezzi dell’AMI.
Fondamentale per il successo dell’impresa sarà, da parte del Governo, approvare “regole di ingaggio” idonee a proteggere i nostri soldati, mettendoli in condizione di operare nella maniera più sicura ed efficace possibile, evitando di essere ridotti al ruolo di truppe “onerarie”, con evidente pregiudizio per la qualità e i ritorni politici della nostra partecipazione.
Il rischio di avere regole d’ingaggio inadeguate è sempre molto presente quando si parla d’inviare nostri contingenti all’estero ed è storicamente uno dei motivi che hanno spesso danneggiato la nostra credibilità operativa, vanificando in molte occasioni i ritorni politici del nostro impegno militare. In molti casi la partecipazione italiana a coalizioni militari internazionali è stata intesa come un’operazione d’immagine, su due livelli, quello dell’opinione pubblica interna (per far vedere che il Governo aveva il coraggio d’agire) e quello internazionale, offrendo all’alleato di riferimento (di solito gli USA) la possibilità di poter connotare interventi militari USA (Iraqi Freedom, Enduring Freedom, etc.) come espressione della comunità internazionale nel suo complesso. Di qui la mancanza di sensibilità politica per ROE (Rules Of Engagement) che andassero oltre la semplice autodifesa (la Costituzione non proibisce l’uso della forza in missioni diverse dalla guerra).
In generale la tendenza dei Governi italiani è stata di mandare in teatro i nostri contingenti con regole d’ingaggio insufficienti per acquisire l’iniziativa militare e contribuire in modo incisivo allo sforzo collettivo in teatro.
In una missione come Deserto Rosso uno degli obiettivi di diretto interesse nazionale è il controllo e il contrasto dei trafficanti di esseri umani. Sarebbe un’operazione perfetta per dei team delle nostre forze speciali, ma cosa succederebbe se i nostri intercettassero dei trafficanti o dei gruppi di Jihadisti? Non potrebbero attaccarli d’iniziativa (non essendo in autodifesa), né arrestarli, non avendo giurisdizione in Niger, né consegnarli a nazioni che hanno la pena di morte…quindi? Ci rimane il ruolo di istruttori e di mentori per le forze locali. Un compito certamente da non sottovalutare e che svolgeremo benissimo, ma di livello inferiore rispetto al contrasto attivo delle minacce presenti in quella parte dell’Africa.
Per le ROE è possibile che si ricorra a una soluzione “all’italiana”, inserendo nel decreto fuori area una clausola d’impunibilità per i militari italiani che, applicando le regole d’ingaggio, dovessero violare la legge. In passato questo escamotage, inserito in alcuni decreti fuori area, è risultato deludente rispetto alle aspettative, in quanto, non tutelando le autorità preposte a emanare le regole d’ingaggio, ma solo gli esecutori, ha di fatto inibito l’approvazione di ROE permissive da parte della catena di comando sovraordinata. Non tutti sanno che ogni volta che i nostri militari sparano un colpo in teatro operativo i Carabinieri lo comunicano a un Magistrato a Roma che apre un fascicolo, con buona pace per i comandanti e il personale in operazione.
Altra area grigia è quella dell’applicazione della legge del Niger ai nostri soldati, in caso di reati che coinvolgano civili. Normalmente tale aspetto è definito da accordi presi dagli Stati Uniti o dall’ONU (per tutta la coalizione) con lo stato in cui si opera, anche perché di fatto si tratta generalmente di operazioni in Paesi sostanzialmente occupati militarmente a seguito di operazioni di guerra (Afganistan, Iraq, etc.). Ma in questo caso? È un aspetto che andrebbe definito con cura, probabilmente con un accordo bilaterale con il Niger.
Se la polizia del Niger tentasse di arrestare un francese, sappiamo come andrebbe a finire. Purtroppo lo sappiamo anche nel caso venisse arrestato un italiano…. Si tratta quindi di un aspetto da non sottovalutare.
La missione interesserà un territorio che da sempre la Francia ha considerato sotto la propria sfera di influenza. Il problema che dovrà gestire non è naturalmente la presenza italiana, ma quella tedesca. Da tempo la Germania ha silenziosamente ampliato il proprio contributo di uomini nel territorio fino ad arrivare a fine gennaio passato a diventare il più grande dispiegamento della Bundeswehr attualmente all’estero al fine di “assistere il governo centrale e le autorità locali del Niger, nonché le forze di sicurezza nell’elaborazione di politiche, tecniche e procedure per meglio controllare e contrastare la migrazione irregolare”. Le difficoltà attuali della Merkel e il crescente peso di Macron sugli equilibri europei fanno tuttavia prevedere che il ruolo della Francia in questa parte dell’Africa non venga messo ancora in discussione. La Francia continuerà ad attestarsi come tessitrice dei fragili equilibri politici libici, con un occhio ai grandi giacimenti d’oro nel Fezzan, d’uranio in Niger e nella prospettiva d’includere la Libia nell’Africa a influenza francese. L’interesse di Macron nella regione del Sahel è forte e si avvale anche della forza del soft-power francese nella regione, al fine di rendere la Francia uno dei primi interlocutori internazionali nell’area, nonché principale esponente della lotta al terrorismo e maggiore potenza straniera nella regione. Non è quindi da escludere che, parallelamente al contrasto del terrorismo e alla questione dei migranti, si svolga anche una partita diversa. Di qui l’importanza per l’Italia di avere la piena consapevolezza della vera posta in gioco e del ruolo da interpretare nella vicenda. Prendere decisioni solo nell’ottica dell’opinione pubblica interna in tempo di elezioni rischierebbe di avere conseguenze negative, non solo per il prestigio nazionale, ma anche e in primo luogo per la sicurezza dei nostri militari.
(foto: Ministère de la Défense / U.S. DoD / U.S. Air Force / BBC)