Molti commentatori hanno ritenuto che il mal gestito ritiro statunitense dall’Afghanistan preludesse ad uno dall’Iraq (altro Paese invaso dagli americani, simbolo di come gli Stati Uniti hanno reagito dopo gli avvenimenti dell’11 settembre 2001). Ritenerlo significa immaginare che per Washington il peso strategico dei due Paesi si equivalga, ma non è così.
L’Afghanistan non è neppure un Paese, è un luogo dove gli imperi si fanno male, sicuramente non quello in cui si compiono. Qui arrivano e si scoprono i limiti delle loro capacità di potenza. Qui si evidenzia come nessun impero, neppure quello globale nordamericano, possa implementare un conflitto, per di più strategicamente non vitale, sine die, ma non altro.
Ritirandosi dunque in quel modo dall’Afghanistan gli Stati Uniti hanno pregiudicato la propria credibilità come protettori e garanti dei propri clienti mediorientali, nello specifico arabi? In una certa misura sì, ma si tratta di soft power, gli Stati Uniti non si sono ritirati da uno spazio decisivo. In questo senso l’Iraq pesa per gli alleati arabi molto più dell’Afghanistan.
Per decidere dunque che peso dare alle proprie paure circa un eventuale venir meno effettivo della protezione a stelle e strisce dalle proiezioni di potenza dei propri rivali strategici locali, Iran in primis, le dirigenze arabe del Medio Oriente (Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti etc… incluso l’Egitto in Nord Africa) guarderanno alla postura americana in Iraq, al di là della retorica sul disimpegno a favore della Nato (che del resto non è che la forma ufficiosa dell’imperialità statunitense). Il perché lo si capisce anche solo considerando il peso geografico del Paese.
Tramite il porto di Bassora l’Iraq si apre sul Golfo Persico, frazionandolo in una parte araba e una persiana (iraniana). Di più, Bassora non funge solo da affaccio, ma anche da sirena araba, perché in sé raccoglie i legami con la confinante regione iraniana del Khuzestan (per capirne la portata geopolitica, lo si può chiamare con il vecchio nome di Arabistan), abitato dalla minoranza etnica araba dell’Iran. Dunque arto fragile ed emarginato, perciò esposto, della multietnica nazione persiana.
L’Iraq confina inoltre con Siria e Turchia; gli Usa mantenendo truppe in questo tri-confine controllano che la Turchia non esageri nell’immaginarsi nuovo egemone regionale, ma lasciandola fare finché contiene/controlla i russi in Siria (e magari li contrasta anche nel Caucaso) e gli iraniani che, sempre tramite Iraq, Siria e Libano, cercano di consolidare un corridoio geopolitico sciita in Medio Oriente.
Andando a guardare ancora più lontano, l’Iraq è punto di osservazione e controllo degli equilibri tra i Paesi che si affacciano tra i canali di Suez e Bab el-Mandeb, ovvero della rotta per cui passano enormi rifornimenti energetici mondiali. Garantirsi il controllo di questa rotta rassicura quei Paesi, Arabia Saudita, Emirati, Bahrein, Oman, ma anche il Qatar e, rassicurandoli, li protegge (e domina). A loro volta questa garanzia porta i medesimi Paesi ad essere interessati al mantenimento dello status quo in loco, più o meno di volta in volta modificato, ma mai sovvertito, ovvero li porta ad assecondare l’obiettivo statunitense di non veder sorgere un egemone regionale alternativo al loro dominio. In un certo senso addirittura l’Iraq è posto al centro tra Mediterraneo e Oceano Indiano.
Lo stesso futuro accordo sul nucleare iraniano, per quanto ridiscuta determinati pesi regionali, non inciderà sulla sostanza della costruzione attuale. In tal senso la politica di protezione militare che gli Usa hanno finora dato all’Arabia Saudita - uscita scioccata dall’attacco Houti (cioè iraniano) ai propri impianti petroliferi - se apparentemente viene meno in nome del disimpegno regionale a favore del quadrante indo-pacifico (in particolare in Australia sembra verranno spostate alcune batterie dei Patriot poste nella penisola araba e che finora hanno difeso Riad), sarà in realtà ribadita perché sostituita, a quanto pare, dal sistema israeliano Iron Dome o da quello del Barak Er, ovvero da sistemi di un altro Paese del blocco statunitense. La portata di questa fornitura non solo impedisce che lo spazio apparentemente lasciato vuoto dagli Stati Unti nella difesa dell’Arabia Saudita possa essere riempito dai russi o dai cinesi, ma continua e addirittura rafforza quel progetto americano di normalizzazione dei rapporti fra i Paesi arabi e Israele, che gli Accordi di Abramo avevano avviato tra Israele e Marocco, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Sudan.
In geopolitica, se si ha un amico in comune, cioè gli Stati Uniti, e un nemico in comune, cioè l’Iran, non si diventa necessariamente amici, ma non nemici de facto assolutamente sì. Poi l’Arabia Saudita continuerà ufficialmente a contrapporsi al nemico storico del mondo islamico, Israele appunto, ma il piano religioso non definisce la geopolitica, al massimo la copre.
Tutto ciò conferma i pilastri dell’egemonia americana nella regione: continuare appunto l’opera di normalizzazione suddetta, ribadirlo proprio mantenendosi in Iraq e in alcune aree della Siria, e facendo in modo che il regno saudita sia il primo a sentirsi ancora protetto dall’ombrello americano.
Con ciò è delineata l’architettura dell’egemonia nordamericana nella regione. Ovvero un prediletto, che sia braccio esecutore tecnologico-militare della protezione militare di Wasghington, cioè Israele, ruolo primario che serve a sua volta a rassicurare questo Paese e ad ammorbidirne la rabbia per il probabile futuro rinnovo dell’accordo sul nucleare fra gli Usa e il suo (di Israele) nemico esistenziale, l’Iran; l’esistenza di un protetto per eccellenza tra gli arabi, l’Arabia Saudita appunto. Il prezzo è il rinnovato seppellimento della questione palestinese.
Gli Usa dunque non solo sono interessati a rimanere in Iraq, ma sono interessati all’attuale equilibrio di influenze regionali e mondiali che alitano sul Paese. Le recenti elezioni irachene hanno modificato alcune quote elettorali e quindi di seggi nel Parlamento, ma hanno comunque confermato che il sistema delle divisioni etno-religiose regge e con esso si regge l’attuale ordine regionale. Il premier uscente al-Kadhimi è stato l’uomo che ha tenuto in piedi proprio questo tipo di fragile equilibrio nel Paese, comprovando che le riforme reclamate dalle piazze irachene negli ultimi anni non sono state in grado di scalfire i pesi e i contrappesi geopolitici in gioco.
Un Iraq immobile e soffocato serve a puntellare l’egemonia americana, dando comunque qualche sfogo alle proiezioni strategiche altrui e a proteggere quelle delle proprie “province”. Qualunque sarà il nuovo primo ministro iracheno, sarà partorito da un sistema con il medesimo dna che aveva espresso il precedente, con ciò garantendo il perpetuarsi di dinamiche forse tossiche per il Paese, ma non per i progetti di coloro che lo influenzano.
Si può dunque dire che il ritiro americano dall’Afghanistan, ad uno sguardo analitico, non compromette la credibilità geopolitica della difesa americano mediorientale, ma anzi ne conferma il profilo, considerando che gli Usa sono coscienti di ritirarsi da uno scenario afghano conflittuale non risolutivo e non risolvibile.
Differente è invece la credibilità logistico-gestionale. Gli americani nel ritirarsi si sono mossi in modo improvvisato e hanno lasciato dopo vent’anni un’impalcatura che è crollata con un colpo di vento. La missione retorica dell’impero americano, l’essere portabandiera della democrazia, dei diritti umani, addirittura del bene contro il male, ne esce indebolita, ma per ora questa frattura non colpisce ancora il cuore della sua potenza.
Per i Paesi arabo – mediorientali il ritiro usa non pesa perché non pesa l’Afghanistan in sé e non pesa in quanto non ha fatto venir meno la protezione americana dalla regione, come la postura americana in Iraq dimostra, pur a fronte di elementi di turbamento regionali ben più cogenti, come ad esempio un eventuale rinnovo del JCPOA (accordo sul nucleare) con l’Iran.
Foto: U.S. Marine Corps / U.S DoD / U.S. Air Force