Il referendum per l’indipendenza del Kurdistan dello scorso 25 settembre rischia di stravolgere il Medioriente non solo per le implicazioni di natura politica e territoriale, ma anche e soprattutto, per il precedente che introduce.
Il quesito proponeva la secessione della Regione Autonoma del Kurdistan (KRG) dalla Repubblica d’Iraq: un evento dalla portata dirompente non solo per l’integrità dello Stato, ma anche perché interviene con forza sull’attuale assetto regionale, figlio degli accordi Sykes-Picot del 1916 con i quali Francia e Regno Unito definirono le rispettive sfere di influenza nel Medioriente.
E poiché (anche) in geopolitica i vuoti tendono sempre ad essere riempiti, tutti al momento si affrettano con dichiarazioni e minacce a sostegno della integrità statuale dell’Iraq.
Lo fa Baghdad, che ha reagito immediatamente chiudendo lo spazio aereo sul KRG e declassando l’aeroporto di Erbil a scalo nazionale.
Il parlamento iracheno ha inoltre votato la rimozione del governatore della città petrolifera di Kirkuk, reo di aver supportato il referendum, e l’invio di truppe nel suo centro urbano liberato dai Peshmerga nel 2014 e da questi tutt’ora presidiato, sul cui palazzo del governo, a inizio di questo anno, era stato issato il tricolore curdo.
Neppure Iran e Turchia, le principali potenze regionali, sono rimaste inerti temendo che l’iniziativa potesse causare un effetto domino in seno alle rispettive minoranze curde (20% degli abitanti turchi è curdo, 10% in Iran).
La Sublime Porta ha minacciato la chiusura della pipeline Kirkuk-Ceylan che porta il petrolio curdo sul mercato europeo, ha sospeso tutti i collegamenti aerei con Erbil e rimosso tre canali curdi da un proprio satellite.
L’Iran invece ha preso le distanze dall’iniziativa di Erbil chiudendo i confini (riaperti il 3 ottobre u.s.), nonostante il referendum sia stato sostenuto anche dall’Unione Patriottica dei Lavoratori (PUK), il secondo partito curdo di base a Sulemanye, tradizionalmente filoiraniano.
Teheran non può accettare ai suoi confini uno stato curdo indipendente per una serie di motivi, tra i quali la presenza al suo interno di una significativa minoranza curdo-iraniana (proprio in Iran, nel 1946, il primo tentativo di autonomismo curdo con la Repubblica di Mahabad) e il pericolo, con l’indebolimento del potere sciita a Baghdad, di perdere influenza sulla regione.
La Russia, dal canto suo, ha assunto un atteggiamento ambivalente segnato dalle recenti dichiarazioni del Ministro Sergey Lavrov alla Tv curda Rudaw, di netta contrarietà alla iniziativa di Masoud Barzani motivata dalle “considerevoli implicazioni geopolitiche, geografiche, demografiche ed economiche” ad essa correlate, cui però son seguite, lo scorso mese di agosto, quelle del vice capo Consolare a Erbil, che ha annunciato pieno “supporto alle decisioni prese dal popolo del Kurdistan, se frutto di un passaggio referendario”.
Per finire anche gli USA, sebbene sponsor e protettori storici del KRG, hanno a più riprese dichiarato la loro contrarietà ad un Kurdistan indipendente.
A questo punto è naturale chiedersi se il Presidente Barzani sia solo uno scommettitore d’azzardo che ha sbagliato l’ultima giocata puntando sul tavolo l’intero patrimonio (il KRG) oltre al nome e la storia suoi e della sua famiglia (suo nonno Mustafa Barzani, generale, fu l’epico difensore di Mahabad).
È possibile che nessuno dei consiglieri abbia saputo suggerirgli una diversa linea di condotta, fosse solo il procrastinare ad altra epoca lo svolgimento referendario?
Tutto sembrerebbe portare a tale conclusione, dato che ad oggi le conseguenze della scelta curda sembrano vanificarne i potenziali vantaggi.
Il congelamento delle frontiere da parte iraniana e turca unitamente alla chiusura dello spazio aereo rischiano di dare il colpo di grazia ad una economia in continua recessione iniziata con la caduta del costo del petrolio nel 2014 e proseguita per tutta la durata della guerra contro ISIS.
Quella del KRG rimane, infatti, una economia da “render state” totalmente incentrata sulla produzione e smercio del petrolio, e la minaccia di Ankara di chiudere la pipeline Kirkuk-Ceylan affosserebbe l’unica fonte economica: le riserve della Regione – fonte Il Sole 24 Ore – ammontano a 45 miliardi di barili, che salgono quasi a 60 se si comprende Kirkuk.
Elementi questi che, uniti all’isolamento di Erbil (al momento formalmente sostenuta solo da Israele) ed alle manovre militari congiunte tra Iraq-Iran e Iraq-Turchia ai rispettivi confini con il Kurdistan, sembrano rafforzare l’ipotesi di un vero e proprio azzardo strategico da parte della leadership curda.
La partita di Barzani può però avere una sua logica ben precisa.
Uno stato curdo indipendente creerebbe, infatti, una interruzione della dorsale sciita che da Teheran giunge a Hezbollah in Libano passando per l’Iraq e la Siria, alla cui costituzione gli USA hanno grandemente contribuito nel 2003 consegnando Baghdad agli sciiti.
In tale ottica, le dichiarazioni formali statunitensi contro il referendum sarebbero espressione di un gioco delle parti nel quale ciò che si dice non sempre è ciò che si vuole: un Kurdistan indipendente, visto da una prospettiva diversa, finirebbe per indebolire l’influenza iraniana nell’area, proprio come si propone l’attuale amministrazione USA.
C’è poi la posizione turca con la minaccia di interrompere le relazioni economiche. Anche in questo caso, le minacce di embargo e di chiusura della pipeline potrebbe non sortire alcun provvedimento reale.
Il cliente curdo è funzionale all’economia turca - Ankara è il primo partner economico con circa 4000 compagnie presenti - e la sospensione dei rapporti causerebbe enormi perdite sul piano delle transazioni commerciali finanziarie.
Gli interessi commerciali di Ankara nel KRG ammontano a circa 9 miliardi di dollari, cui di recente si è aggiunto un accordo petrolifero della durata di 50 anni per lo sfruttamento e il trasporto di petrolio grezzo curdo, i cui benefici verrebbero annullati tout court dalla chiusura della citata pipeline con danni enormi per un Paese come la Turchia di progressiva industrializzazione.
Senza considerare che una iniziativa unilaterale di rottura delle relazioni commerciali finirebbe per agevolare gli interessi economici del competitor persiano, tradizionalmente molto attivo nell’area.
La carta petrolifera potrebbe fare la differenza anche nell’approccio russo al problema curdo.
Mosca è grandemente interessata al petrolio curdo, sia perché è di facile estrazione peraltro poco costosa, ma anche perché GAZPROM e ROSNEFT, le due OIL Company presenti da tempo, hanno investito ingenti risorse nella Regione e subirebbero forti perdite in caso di chiusura della pipeline (ROSNEFT, a sette giorni dal referendum, ha firmato un accordo con il KRG per la costruzione di gasdotti sino in Turchia) .
I rapporti di Mosca con il KRG sono antichi - (Mustafa Barzani - foto a dx - visse per oltre 10 anni in Unione Sovietica dopo la fallita esperienza indipendentista di Mahabad) - e pensare ad una improvvisa chiusura non è ragionevole, vista la tendenza russa a sfruttare le situazioni per trarne il maggior vantaggio.
Se a questo si aggiunge che la presenza di un interlocutore affidabile, ed Erbil lo è da anni per Mosca e Ankara, introduce un fattore di stabilità nell’intera area, certamente preferibile ad una situazione di progressivo caos nella quale anche Israele rischierebbe di avere un ruolo, la scommessa di Masoud Barzani parrebbe rispondere ad una strategia ben precisa, potenzialmente in grado di produrre per il KRG risultati migliorativi del quadro attuale.
Magari solo una rivisitazione in chiave estensiva dei confini attuali del KRG comprendenti anche Kirkuk (originariamente curda, arabizzata da Saddam), in un quadro statuale federale, rimandando ad altro momento, con modalità da concordare con la controparte irachena, la celebrazione di un referendum questa volta non consultivo.
Risultato di grande rilievo, che ascriverebbe Masoud Barzani a pieno titolo tra i padri della Nazione, proprio come suo padre Mustafa; per il vecchio presidente ormai prossimo a cedere il comando, un traguardo considerevole che lo consegnerebbe alla storia.
(foto: U.S. DoD / Rudaw / Türk Silahlı Kuvvetleri / web)