Vent'anni dopo

(di Renato Scarfi)
06/09/21

No, non si tratta del bellissimo e famoso romanzo centrale della trilogia di Alexandre Dumas sui tre moschettieri, ma di comprendere cosa è cambiato da quel triste 11 settembre 2001, quando anche gli Stati Uniti hanno improvvisamente e drammaticamente compreso che potevano essere colpiti dal terrorismo jihadista.

Su quanto avvenuto durante la pianificazione e la condotta dell’attentato e sui motivi che ne hanno permesso la riuscita molto si è detto e scritto, e il dibattito informale è ancora in corso. Ciò che questo articolo si propone è di mettere in evidenza cosa è cambiato da allora nella lotta al terrorismo jihadista e illustrare le ricadute geopolitiche della nuova crisi afghana, derivante dalla fine della presenza occidentale.

Gli eventi dell’11 settembre hanno, infatti, rappresentato un’enorme tragedia ma anche un punto di svolta per le strategie dei gruppi terroristi, per le relazioni geopolitiche globali e per il sistema internazionale che le guida. Ma non solo. Quella tragedia ha toccato profondamente anche ognuno di noi, facendoci comprendere, una volta di più, la nostra estrema fragilità.

La freddezza con la quale i jiahdisti compiono i loro atti efferati, infatti, dimostra la loro totale indifferenza per la vita umana. Una ferocia che anche in questi giorni di grande confusione in Afghanistan, ha colpito militari statunitensi che cercavano di rientrare in Patria e civili afghani che chiedevano solamente di sfuggire dalla violenza impregnata di fanatismo religioso.

In tale ambito, la nuova crisi afghana, innescata dal ritiro abbastanza disordinato delle forze militari USA, ha fatto crescere i timori che quel martoriato territorio possa tornare a rappresentare una base sicura per i terroristi e, quindi, torni a essere una minaccia per il resto del mondo.

Cosa è stato fatto

Gli attacchi terroristici del 2001 hanno attraversato come un ciclone le principali organizzazioni internazionali e regionali, come le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la NATO, che hanno iscritto la lotta al terrorismo come priorità nelle rispettive agende. Parallelamente all’intervento politico-militare sul territorio afghano, si è quindi avuta un’effervescenza di iniziative anche sul piano giuridico, fornendo o aggiornando il quadro di riferimento, per consentire agli inquirenti di contrastare il fenomeno anche sul piano investigativo.

Il 28 settembre 2001 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato all’unanimità la Risoluzione nr. 1373 (2001), che ha delle rilevanti implicazioni non solo per l’ampio raggio d’azione delle misure richieste, ma anche perché per la prima volta si è interessata di ambiti tradizionalmente riservati agli Stati. È stato, inoltre, costituito il Counter-Terrorism Committee (CTC), formato dai 15 membri che compongono il Consiglio di Sicurezza. IL CTC si avvale di un organismo tecnico di esperti denominato Counter Terrorism Executive Directorate. Sulla base di questo primo fondamentale atto, sono stati approvate altre misure, come la strategia globale antiterrorismo, i richiami sulla necessità di impedire la libertà di movimento dei terroristi, attraverso un più accurato controllo dei documenti personali sia alle frontiere sia internamente agli Stati, e sulla necessità di accrescere le iniziative per rompere i legami tra terroristi e criminalità organizzata transnazionale quale forma di finanziamento del terrorismo.

L’attacco del 2001, infatti, non è stato solo militare, ma che ha anche avuto singolari e importanti aspetti finanziari ad esso collegati. Oltre ai contraccolpi finanziari immediati e a medio-lungo termine, infatti, nel corso delle analisi successive all’attacco si è scoperto che vi è stata un’inquietante speculazione al ribasso qualche giorno prima dell’11 settembre 2001, soprattutto nei riguardi di società di navigazione aeree e assicurative. Ciò ha fatto ipotizzare l’esistenza di ramificazioni di cui chi sapeva dell’imminenza dell’attacco si è verosimilmente avvalso per effettuare queste operazioni, avvalendosi di rispettabili banche occidentali. Si è, quindi, trattato non solo di terroristi fanatizzati ma anche di freddi calcolatori e abili finanzieri con la disponibilità di preoccupanti collegamenti con importanti ambienti occidentali.

L’Unione Europea ha, invece, dimostrato la consueta incapacità di risposta immediata e unitaria. Solo il 7 ottobre 2004 a Berlino, con l’intervento dell’Alto Rappresentante europeo per la politica di difesa e sicurezza comune, lo spagnolo Javier Solana, l’Unione Europea prendeva atto, finalmente, di dover attivamente fronteggiare la minaccia terroristica e, da quel momento, l’attività normativa in materia è stata piuttosto copiosa, con provvedimenti sostanzialmente improntati all’armonizzazione dei sistemi nazionali di lotta al terrorismo, alla criminalità e al coordinamento delle azioni di prevenzione, controllo e repressione. Ciò ha portato, tra le altre, all’inserimento dei dati antropometrici nei passaporti UE, all’istituzione dell’agenzia FRONTEX, all’individuazione delle infrastrutture critiche europee, all’istituzione del mandato d’arresto europeo. Dal luglio 2015, infine, è stata attivata la Internet Referral Unit (EU-IRU), una risorsa dell’European Counter Terrorism Center (ECTC), a sua volta incardinato in EUROPOL, che ha lo scopo di contrastare la diffusione online di materiale a contenuto terroristico e radicalizzante.

Dopo l’11 settembre l’Italia ha risposto con prontezza alla minaccia terroristica. Mettendo anche a frutto le esperienze acquisite nella lotta al crimine organizzato e al terrorismo degli anni ‘70 il nostro Paese ha rapidamente adeguato il proprio apparato legislativo raggiungendo risultati la cui importanza è stata unanimemente riconosciuta.

Le principali innovazioni hanno riguardato l’estensione ai delitti con finalità di terrorismo internazionale il regime delle intercettazioni preventive e giudiziarie, nonché l’approvazione di norme che rendevano già possibili in specifici settori (contrasto al traffico di stupefacenti, riciclaggio, immigrazione clandestina, ecc..) il ritardo degli ordini di cattura, arresto, sequestro, le perquisizioni di edifici e le operazioni sotto copertura.

Tuttavia, data l’esposizione del nostro Paese a eventuali penetrazioni terroristiche (presenza di confini esterni all’UE ed elevata immigrazione, anche clandestina) il legislatore è sempre alla ricerca di strumenti e procedure aggiuntive, intese a rendere più difficile sia la pianificazione che la condotta di azioni violente contro la popolazione o contro le principali infrastrutture dello Stato,

All’indomani degli attacchi terroristici del 2001 la NATO ha invocato, per la prima volta nella storia dell’Alleanza, l’applicazione dell’art. 5 del Trattato del Nord Atlantico, ponendolo in relazione all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. Tuttavia, in questa prima fase gli Stati Uniti hanno preferito operare per conto proprio, senza i vincoli di controllo politico e direzione strategica delle strutture della NATO. Solo in un secondo tempo è stata auspicata la partecipazione di altri Paesi e, nel 2003, la guida dell'operazione stessa da parte della NATO. Nel corso del Summit di Praga (21 novembre 2002) ha poi approvato il nuovo military concept for defence against terrorism, con il quale l’Alleanza ha fornito l’indispensabile supporto concettuale agli interventi militari collettivi e all’intervento in Afghanistan.

L’Afghanistan dopo vent’anni

L’Afghanistan si è sempre trovato al centro di uno spazio conteso tra grandi e medie potenze, che hanno causato conflitti sul suo territorio. Inghilterra e Russia nell’ottocento, impegnate in politiche coloniali. Stati Uniti e Unione Sovietica nel ventesimo secolo. Iran e Arabia Saudita in cerca di influenza egemonica nell’area, mentre Pakistan e India per escludersi a vicenda. Così che il conflitto interno afghano, supportato dalle rivalità esterne si è riflesso anche nel perpetuo scontro in Kashmir tra India e Pakistan, mentre anche Uzbekistan e Tajikistan, rappresentati da minoranze afghane, sono rimasti indirettamente coinvolti. A tutte queste entità statuali si sono aggiunti negli ultimi anni Al-Qaeda e Stato Islamico e, in contrapposizione, la NATO e i suoi membri, sbarcati in Afghanistan dopo l’11 settembre 2001.

Sotto il profilo sociale, il Paese vede numerose divisioni etniche (Pashtun, Tagiki, Uzbeki, Turkmeni, Nuristani, Beluchi, Brahui, Hazara, Wakhi, Farsiwan) e religiose (85% di sunniti, 10% di sciiti, rimanente minoranza di cristiani, buddisti, parsi, sikh e indù), che creano una società frammentata, dove le tradizioni preislamiche prevalgono sulle aspettative di progresso, sostanzialmente temuto dagli anziani perché distruggerebbe i riferimenti al clan e alle sue regole. La frammentazione etnica in passato si rifletteva anche nella configurazione statale, con un Re più rappresentativo che regnante, con vari signori locali dotati di milizie proprie e di una parvenza di amministrazione pubblica centralizzata.

Dopo vent’anni di presenza straniera, l’Afghanistan è ancora poverissimo e senza infrastrutture, né ha sviluppato un’amministrazione affidabile in grado di gestire il territorio. Il germe di autorità politica nazionale, confinata quasi alla sola Kabul, si è dissolta più velocemente della neve al sole, come le sue Forze Armate, probabilmente perché gli Afghani sono più portati alla libertà della guerriglia che alle regole dell’esercito e perché i reparti sono stati costituiti senza tener conto delle diverse etnìe presenti sul territorio. Ciò non ha certo favorito la coesione, il senso di appartenenza e lo spirito di corpo e di sacrificio. Ma su questo insuccesso ha probabilmente influito molto anche la condotta USA, che ha gestito in maniera solitaria le trattative con i talebani e la conseguente ritirata non concordata con alcuno, che ha lasciato negli afghani una forte sensazione di abbandono.

L’agricoltura non è poi stata sostenuta da una politica di investimenti massicci che permettessero ai contadini di abbandonare la coltivazione dell’oppio, più facile e più redditizia, per passare a produzioni alimentari utili alla popolazione. In merito, anche il presidente Karzai si era opposto all’opera di completa distruzione delle piantagioni di papavero, in mancanza della promozione di attività produttive alternative. Di fatto, la produzione è aumentata durante la permanenza occidentale in quel Paese.

Permane, infine, la sostanziale mancanza di mercati, strade, ferrovie, trasporti tra villaggi dell’entroterra. Ciò, oltre ad aver rallentato o impedito un adeguato intervento in profondità delle forze occidentali, non ha permesso neanche la diffusione del commercio e lo scambio di beni di consumo su scala nazionale. I limitati investimenti a sostegno di una politica di sviluppo sostenibile non sono certo stati favoriti dalla conformazione del territorio, che presenta piccole valli tra montagne altissime, con villaggi che d’inverno rimangono a lungo isolati dalla neve e le cui istituzioni locali sono spesso corrotte. Neanche la Banca mondiale si è dimostrata all’altezza delle sfide, non intervenendo con adeguati investimenti in settori prioritari e limitandosi a effettuare esercizi statistici sostanzialmente inconcludenti.

La strategia di assistenza adottata dopo l’apparente vittoria sui talebani, inoltre, con la creazione di poli di ricostruzione istituzionale affidati al gruppo di “potenze vincitrici” (USA per sicurezza e riorganizzazione dell’esercito, Regno Unito per la lotta alla droga, Italia per la riforma della giustizia, Germania per la riforma della polizia e Giappone per il disarmo delle milizie parallele) hanno mancato il bersaglio perché, secondo molti osservatori, erano sostanzialmente assenti le condizioni di fondo per portare avanti i rispettivi impegni. Il divario tra le aspettative e le reali condizioni in cui ci si è trovati a operare era, infatti, troppo ampio perché vi fossero concrete possibilità di successo. Ciò anche tenuto conto della scarsa apertura a trasformazioni profonde da parte di una popolazione che non vedeva alcun beneficio economico dall’eventuale cambiamento. Solo le donne afghane, infatti, che vedevano nell’emancipazione la possibilità di un loro riconoscimento come esseri umani, sono state le maggiori sostenitrici della presenza straniera.

I talebani al potere

Con i talebani nuovamente al potere il mondo si interroga sul futuro afghano, inorridito dalle esecuzioni sommarie, dalle violenze e dalle restrizioni alle libertà civili imposte in nome della religione.

Le violenze e le vendette si sviluppano ovunque. A Kabul, dove il capo della Polizia è stato barbaramente assassinato a favore di telecamera, come nel resto del Paese, dove un comico e un musicista sono stati barbaramente uccisi perché colpevoli di aver sbeffeggiato il regime talebano o di amare la musica.

E poi c’è il problema della condizione femminile. Per il momento la mobilitazione mondiale non va oltre l’indignazione e il tentativo di far espatriare quanti più cittadine afghane possibile, salvo poi rifiutare di accoglierle, mentre osserviamo con tristezza la scomparsa delle donne dalla scena politica afghana, ridotte nuovamente sotto un potere maschile dispotico e irragionevole, alle quali viene oggi nuovamente negata la possibilità di assumere ruoli e responsabilità che, invece, avevano avuto durante i vent’anni di impegno occidentale nel Paese.

Un altro fattore di grande preoccupazione, collegato al ritorno dei talebani al potere, è il possibile aumento del traffico di droga proveniente dall’Afghanistan. Con la sensibile riduzione degli investimenti stranieri, l’autoproclamato Emirato Islamico dell’Afghanistan avrà, infatti, bisogno di raccogliere denaro. Una delle forme di finanziamento più redditizie è certamente rappresentato dal mercato della droga, che interessa non solo i Paesi produttori, ma anche un gran numero di Paesi lungo la filiera di trasferimento e consumo. In tale ambito, l’Afghanistan è il principale produttore di oppio, da cui si ricava l’eroina. Già oggi da quel Paese proviene l’85% dell’oppio consumato nel mondo, ma ora esiste la possibilità che la produzione cresca ulteriormente, per rifornire le casse dello Stato. In tale quadro Uzbekistan, Kirghizistan, Kazakistan e Tagjkistan sono attraversati dal traffico diretto verso la Federazione russa, mentre i Paesi del centro-Asia sono diventati crocevia verso gli altri Paesi, compresa l’Europa attraverso la rotta balcanica. In sostanza, i terroristi e i criminali che dominano i percorsi della droga in Asia centrale, nel Caucaso e nei Balcani permettono di saldare il circuito produzione-trasformazione-trasporto-commercializzazione dall’Afghanistan all’Europa.

Secondo quanto riportato nell’Osservatorio Strategico del Centro Militare di Studi Strategici (CeMISS), il nesso tra narcotraffico e terrorismo internazionale è provato anche dal fatto che lo stesso regime dei talebani 1.0 era al centro dei canali di produzione e commercio dell’eroina e si pensa che già prima dell’11 settembre esistesse un canale di collaborazione tra i talebani, il gruppo terrorista denominato Jihad islamica e il cartello dei narcotrafficanti colombiani. Ora quel canale rischia di essere riaperto del tutto, con tutte le prevedibili conseguenze per l’Europa.

Vi è poi la forte la preoccupazione che ora, dopo l’assunzione del controllo da parte dei talebani, l’Afghanistan torni a essere il buco nero del terrorismo internazionale e che riprenda la pratica dell’”accoglienza” data dal passato regime degli studenti coranici a estremisti uzbeki, irakeni, uiguri e ceceni che entravano a far parte dei gruppi jihadisti locali, per poi andare a compiere le proprie azioni terroristiche in giro per il mondo. Timori alimentati anche dalla confusione creata dalla popolazione in fuga da quello che si preannuncia, nonostante i proclami ufficiali “distensivi”, un regime caratterizzato da fanatismo religioso, repressione e violenza. Una violenza che i talebani, tornati al potere in Afghanistan, fanno diventare “di Stato” quando trasmettono le crude immagini delle esecuzioni sommarie, a monito per tutti coloro che pensassero di opporvisi. Una violenza che non scongiurerà, tuttavia, la sfida ai talebani da parte di altri gruppi terroristici, come quelli affiliati allo Stato Islamico, in lotta per affermarsi in quel martoriato territorio.

A ciò si aggiunge l’allarme lanciato dagli organi di intelligence, circa la concreta possibilità che l’esodo caotico possa permettere a fanatici estremizzati di mimetizzarsi nella folla e, quindi, di entrare nei Paesi occidentali sfruttando i corridoi umanitari, per poi commettere atti di violenza. Già in Francia, Regno Unito, Olanda e Germania sono stati identificati alcuni soggetti “a rischio” e gli attentati del 26 agosto all’aeroporto di Kabul confermano la possibilità di infiltrazione di terroristi (di varia affiliazione) tra i civili afghani.

Considerazioni geopolitiche

Dal 9/11 si è scatenata una lotta che aveva l’obiettivo di punire Osama Bin Laden e tutti gli altri ispiratori degli attentati di al-Qaeda. Donald Rumsfeld, al tempo potente Segretario della Difesa di George W. Bush, dovette ripetere più volte che gli Stati Uniti “…non avevano alcuna intenzione di lasciarsi coinvolgere in un processo destinato a cambiare il regime politico e istituzionale…” dell’Afghanistan e che si sarebbero “…limitati a dare una mano nella creazione di un nuovo esercito afghano, punto e basta…”i. Tuttavia, all’inizio del secondo mandato presidenziale si è cominciato a parlare di “esportazione della democrazia”, dovendo giustificare la perdurante presenza statunitense (e degli alleati) nei due Paesi dove era stata combattuta (ma non vinta) la guerra al terrorismo: Iraq e Afghanistan. Lo scopo è, quindi, divenuto quello di liberare il Paese dall'oscurantismo talebano e favorirvi un sistema basato sullo stato di diritto, sull'affermazione dei diritti umani e su una democrazia rappresentativa.

Un obiettivo mai raggiunto giacché, di fronte alla crescente impopolarità negli Stati Uniti di un intervento militare sempre più senza prospettive di rilievo a breve termine e con la consapevolezza che le forze afghane non sarebbero state in grado di assumere rapidamente per conto proprio il controllo del territorio, nel marzo 2020 il presidente Trump ha deciso unilateralmente di avviare un negoziato con i talebani, escludendo dalle trattative il Governo afghano, per concordare il ritiro delle truppe USA, e conseguentemente dei loro alleati. La NATO faceva suoi gli accordi di Doha e, nelle conclusioni del Consiglio Atlantico a livello ministeriale del 14 aprile 2021 veniva sancito che, dopo vent’anni di “…investimenti in sangue e denaro … abbiamo impedito ai terroristi di attaccarci usando come base il territorio afghano … non vi è una soluzione militare alle sfide che l'Afghanistan deve affrontare … gli alleati hanno quindi deciso di iniziare il ritiro delle proprie forze a partire dal 1 maggio 2021 … il ritiro sarà ordinato e coordinato … ogni attacco talebano alle truppe alleate verrà respinto con forza…". Un comunicato non molto distante, nella sostanza, da un altro famoso comunicato di un 8 settembre del passato.

In un tale quadro, emerge in tutta la sua evidenza la consapevolezza che non si è attenuata la forza ideologica di una parte (minoritaria) del mondo musulmano, che vuol seguire fini diversi dal resto dell’umanità e invoca una società diversa, fortemente dipendente dalle interpretazioni rigoristiche di una lettura intransigente del Corano. Una parte che è in forte contrapposizione ideologica e politica non solo con l’Occidente ma anche con alcuni governi arabo-musulmani, che sono obiettivo di questo terrorismo.

Colpisce poi il cambiamento dello scenario geopolitico complessivo. L’Afghanistan del 2001 era saldamente controllato dai Pashtun, che costituivano il grosso delle forze dei talebani. Oggi sembra non sia più così. I Pashtun erano fortemente antisciiti e, quindi, avevano instaurato rapporti con alcune le dirigenze sunnite del mondo arabo-musulmano, specialmente in Iraq. L’Iran, di conseguenza, si era duramente schierato contro i talebani. Pure la Russia, per effetto della crisi cecena, dove tra le fila dei ribelli militavano numerosi afghani di fede musulmana, si era schierata contro il regime di Kabul. Seguiva poi la Cina, che aveva problemi con i suoi cittadini musulmani.

Tutti Paesi che oggi, al ritorno a Kabul dei talebani 2.0 (?), si dichiarano pronti a instaurare rapporti economici e interessati con quel regime e, quindi, a fornire il loro aiuto in sostituzione di quello che prevedibilmente verrà meno da parte dell’Occidente. Paesi ai quali si è aggiunta la Turchia che, pur facendo formalmente parte della NATO, ha da qualche anno deciso di seguire una propria strada di espansione marittima e territoriale e di avvicinamento al mondo arabo-musulmano, con la (non tanto) segreta speranza di tornare alla guida di quel mondo sunnita che, agli inizi del XX secolo, vedeva Istambul capitale di un vasto impero, poi caduto per effetto delle scellerate alleanze fatte nella Prima Guerra Mondiale.

I recenti eventi afghani hanno poi evidenziato, una volta di più, l’allontanamento degli Stati Uniti dalle aree di più diretto interesse europeo tant’è che, per esempio, il presidente statunitense Biden sembra si sia addormentato mentre parlava di questioni mediorientali con il leader israeliano.

Le priorità di Washington, infatti, sono oggi prevalentemente nell'area Asia-Pacifico, mentre gli europei guardano ancora con apprensione il Medio Oriente, il Mediterraneo, il Golfo Persico, l'Africa e ora l’Afghanistan, senza trascurare i motivi di dissenso con la Russia rappresentati dalle questioni Ucraina, Baltico e Artico. Ciò non vuol dire che agli europei non interessa ciò che succede nell’Indo-Pacifico, anzi (v. articolo). Significa semplicemente che è giunta l’ora che l’Europa si svegli e che cominci a pensare ai propri interessi, invece che inseguire quelli di altri (seppur importanti) alleati. (v. articolo) Una linea che potrebbe aver ricevuto una involontaria spinta proprio dagli USA, con i recenti colloqui a Kabul tra il capo della CIA e il presidente talebano in pectore. Colloqui avvenuti, anche questa volta, senza avvisare gli alleati, che si sono imbizzarriti alla notizia.

Inoltre, va sottolineato che le immagini della caotica fuga statunitense da Kabul, hanno fornito prezioso materiale per la propaganda cinese e potrebbero causare una qualche riduzione della credibilità di Washington anche nel delicato scacchiere dell’Indo-Pacifico e nella questione di Taiwan. Come afferma Sarang Shidore, un analista del Quincy Institute di Washington D.C. “…l’incompetenza dimostrata dagli USA nel ritiro delle truppe non può essere ignorata dagli altri Paesi…”ii, mentre Dean Cheng, un analista della Heritage Foundation di Washington D.C. scrive che Pechino ha la ghiotta possibilità di sottolineare che “…gli USA non riescono nemmeno a fare decorosamente un’operazione come il ritiro da un’area tenuta da forze meno capaci come i talebani…”. In tutto questo Taiwan, che finora ha beneficiato della protezione militare e politica statunitense contro i tentativi di annessione cinese, potrebbe cominciare a interrogarsi sulla reale affidabilità di Washington, visto come ha improvvisamente “mollato” l’Afghanistan.

Allargando lo sguardo alle altre relazioni internazionali va detto che il ritorno dei talebani al potere in Afghanistan fa certamente piacere al Pakistan, Paese musulmano, e probabilmente in qualche modo anche all’India, Paese a maggioranza indù, che vede crescere il suo potere contrattuale nei confronti dell’Occidente, sia per effetto della pluridecennale contrapposizione tra Delhi e Islamabad sia per la sua recente adesione al Quad, l’alleanza dell’Indo-Pacifico che si contrappone alla Cina. Gli attriti tra India e Pakistan risalgono al 1948, quando Islamabad non accettò il cessate-il-fuoco con il quale veniva sancito il distacco del Pakistan Orientale (oggi Bangladesh), cui si sono aggiunte le rivendicazioni per il Kashmir. Il Pakistan, in particolare, aspira da sempre ad avere a Kabul un Governo amico tant’è che molti osservatori indicano Islamabad come il vero mandante e “protettore” dei talebani (Bin Laden era nascosto ad Abbottabad, in Pakistan).

Il Paese prevedibilmente continuerà con la consueta ambiguità, un po’ per mantenersi uno spazio profondo alle spalle (nel caso i rapporti con l’India peggiorassero seriamente) e un po’ per solidarietà con la componente Pashtun di confine e per evitare che questa pensi di organizzarsi separatamente. Il Paese, infatti, non sopporterebbe la perdita di un’altra fetta di territorio.

Da parte sua la Cina, tra tutti i vicini o gli interessati è sicuramente quella che ha le migliori chance di successo economico con il nuovo regime afghano perché promette assistenza, professa la non ingerenza ed è disposta a investire grandi mezzi finanziari in infrastrutture e, soprattutto, è bendisposta ad approvvigionarsi di minerali rari, abbondanti in Afghanistan. Tuttavia, Pechino maschera bene la propria apprensione nei riguardi della crisi afghana, in quanto la presa del potere da parte dei talebani potrebbe avere significative ricadute sulla sicurezza di una parte del territorio cinese (leggi Xinjiang). Anche Pechino, quindi, dovrà vigilare affinché Kabul non diventi un safe heaven per i terroristi, che potrebbero così lanciare attacchi verso la Cina in ritorsione al trattamento subìto dagli Uiguri. Le eventuali contromisure, tuttavia, potrebbero essere solo politiche ed economiche, giacché Pechino sarebbe prevedibilmente restìa ad impegnarsi militarmente in Afghanistan. La storia insegna a chi la studia. L’attenzione dei militari cinesi, inoltre, è attualmente rivolta prevalentemente verso est, verso le acque del teatro Indo-Pacifico.

Neanche la Russia dorme sonni tranquilli. Nonostante la proclamata volontà di collaborare con i nuovi padroni dell’Afghanistan, Mosca ben ricorda la sua disastrosa campagna militare, ha ben chiara la paternità afghana delle tonnellate di droga che vengono smerciate in Russia e ricorda ancora il sostegno dato dai talebani ai militanti jihadisti in Cecenia. In merito a quest’ultimo punto, qualora dovessero esserci segnali di ripresa dell’attività terroristica in partenza dall’Afghanistan, la Russia potrebbe unirsi agli Occidentali nella repressione del fenomeno. Nel frattempo, la propaganda di Mosca sfrutta l’insuccesso statunitense e il conseguente calo di popolarità per aumentare la pressione nelle aree di suo più diretto interesse strategico, come l’Ucraina, il Mediterraneo e l’Europa.

La Turchia rappresenta il nuovo ingresso nella pattuglia dei corteggiatori di Kabul. Tuttavia, anche in questo caso, nonostante la velleitaria voglia di recitare un ruolo da protagonista regionale, Ankara non può stare completamente tranquilla. Prima di tutto per il possibile flusso di rifugiati che potrebbero premere ai suoi confini, causando notevoli problemi di gestione della sicurezza interna. Uno scenario che la Turchia preferirebbe evitare ma che, nonostante le dichiarazioni distensive fatte dai talebani a favore di telecamera, sta diventando sempre più probabile, vista l’ideologia fondamentalista alla base del movimento, i continui richiami alla Shari’a e le cruente immagini/notizie di esecuzioni sommarie che riescono ancora a filtrare attraverso i notiziari.

L’Asia Centrale, di fatto, sta diventando una polveriera. Alla lotta per l’approvvigionamento di acqua dolce (v. articolo) si aggiungono oggi le enormi e preoccupanti incertezze derivanti dalla nuova instabilità in Afghanistan, importante crocevia asiatico, e i forti timori per una possibile ripresa (ed esportazione) dell’attività terroristica e del traffico di droga. Sono quasi tutti Paesi ricchi di risorse naturali, anche pregiate. Probabilmente molto più dei Paesi mediorientali. Ecco perché le vicende di quell’area interessano anche noi europei, e molto.

Afghanistan, Iraq e Iran rappresentano un quadrante unico, dove l’abbandono di una postazione ha l’effetto di indebolire la politica di controllo nei confronti delle altre due, permettendo l’inserimento di altri attori pericolosi o diversi: lo Stato Islamico e Al-Qaeda per esempio.

Una considerazione a parte deve essere fatta per l’aspetto dell’intelligence.

La fuga americana ha innescato una disgustosa serie di scaricabarile all’interno dell’Amministrazione americana. Sul piano nazionale, all’accusa di non aver saputo prevenire la catastrofe dell’11 settembre, l’opinione pubblica aggiunge seri dubbi circa la qualità del lavoro svolto. In tale ambito una raccolta informativa più accurata e coordinata a livello internazionale, efficacemente supportata dalle nuove tecnologie, potrà certamente contribuire a contrastare il pericolo di attentati. A patto che la politica ascolti i professionisti dell’intelligence che, pur non essendo infallibili, spesso hanno la mente più aperta di quei politici che hanno il loro orizzonte limitato alle prossime elezioni (v. articolo).

Ciò nonostante è prevedibile che l’Afghanistan, almeno nel breve-medio termine, continuerà a essere un campo di battaglia, tra la disperazione della popolazione civile e la soddisfazione di quella fascia di società (trafficanti, signorotti, terroristi e guerriglieri) che nel caos sociale trova un ambiente più favorevole ai propri interessi.

Conclusioni

Nel momento in cui questo articolo viene pubblicato la situazione è ancora abbastanza fluida. Continuano a susseguirsi prese di posizione e colpi di scena che lasciano comprendere come le complesse dinamiche che lavorano in Afghanistan siano lontane dallo stabilizzarsi.

Sgomento, esecrazione, orrore. Dinanzi alle azioni terroristiche o alla presa del potere di chi professa la violenza e la sottomissione femminile, tuttavia, non si può non rimanere profondamente turbati. Il cuore dell’essere umano è un abisso da cui a volte emergono disegni di inaudita ferocia, capaci in un attimo di sconvolgere la vita di tutto un popolo. E ogni volta che ciò succede siamo brutalmente costretti a fare i conti con la realtà.

Una cosa è certa: occorre opporsi a questo modo di fare perché esso si basa sul rifiuto dei valori e dei princìpi che noi riteniamo essere quelli cui dovrebbe improntarsi la vita di un popolo e che dovrebbero essere condivisi da tutti gli uomini e le donne. Se così non fosse, d’altronde, come potremmo continuare ad affermare l’esistenza dei diritti dell’uomo come patrimonio non solo dell’Occidente, ma di tutti i continenti e di tutti gli Stati che si rispecchiano nei princìpi delle Nazioni Unite?

Alla solidarietà espressa a parole si impone, quindi, il dovere di far seguire una decisa azione politica a tutto tondo.

E nel fare ciò, deve esservi la certezza che la democrazia è un processo di accumulazione storica che può essere rallentato o bloccato da circostanze contingenti, ma il cui patrimonio non viene mai completamente perduto.

Le libertà individuali che il popolo afghano ha conosciuto durante gli ultimi vent’anni oggi sono state nuovamente nascoste sotto le fumanti macerie lasciate dai nuovi talebani, ma la brace della democrazia è viva ed è rappresentata dalle migliaia di giovani, specialmente delle grandi città, che hanno studiato e che sono cresciuti nutrendo speranze ed avendo aspirazioni, seguendo modelli di vita che facevano della libera scelta una materia non negoziabile.

Giovani che non vedono come loro modello di società un sistema basato sul fanatismo e sull’imposizione di rigide regole religiose ma che credono nel rispetto della vita e delle scelte individuali. Ed è questa la più importante eredità lasciata dalla ventennale presenza in Afghanistan.

Difendere i princìpi vale sempre la pena. E chi li difende spesso vede più lontano di chi si fa offuscare dalle paure, dalle incertezze o dagli interessi (politici o economici) del momento contingente. I timori a tutela del proprio egoistico interesse non pagano mai.

Il carattere aperto tipico delle società occidentali contemporanee, che assicurano un alto livello di tutela dei diritti individuali costituzionalmente previsti, rende le nostre società particolarmente sensibili alle istanze di quei giovani. Non dobbiamo lasciarli soli.

I talebani hanno già in passato dato prova di non poter essere considerati interlocutori affidabili e le promesse non mantenute di amnistia o di sostegno ai diritti civili, unite alle cruente immagini di questo periodo dimostrano che sono tutto tranne che moderati. Tutto ciò fa pensare che non faranno mancare il loro appoggio al terrorismo jihadista, in una forma o in un’altra.

L’Europa, da sempre divisa su quasi tutti gli argomenti veramente importanti, con un fallimento politico internazionale più che evidente, anche nel caso della nuova crisi afghana continua ostinatamente a manifestare le proprie sfumature politiche e le profonde crepe ideologiche e sovente isolazioniste, a partire dall’Austria, che ha prontamente manifestato il proprio rifiuto all’accoglienza a quelle famiglie afghane che avevano creduto nell’approccio occidentale e la Slovenia che, attraverso il suo premier, ha dichiarato che l’Europa non avrebbe aperto corridoi umanitari a favore dei profughi afghani. Dichiarazioni forti e isolazioniste mentre sarebbe, invece, stato il momento di difendere con coraggio gli ideali sui quali si basa l’Unione Europea. Nel caso sloveno, il premier ha anche rimediato una brutta figura internazionale, in quanto il presidente del Parlamento europeo Sassoli lo ha richiamato affermando che la Slovenia non ha alcun titolo per parlare a nome dell’UE.

Le “sponde” di riferimento si stanno moltiplicando e l’Occidente si troverà a essere sempre più vulnerabile se non ribadirà con fermezza i valori comuni e accompagnerà la propria politica estera con unione di intenti, lasciando da parte i piccoli e populistici interessi personali. Nonostante l’ingloriosa conclusione dell’impegno afghano, da parte occidentale, si dovrà quindi comprendere che in quel territorio si gioca ancora una partita che va ben oltre il nostro modello di vita. L’ebbrezza da successo intervenuta dopo la caduta del muro di Berlino ha ormai ceduto il passo alle forti ed evidenti contraddizioni della situazione internazionale e l’evoluzione geopolitica, che guardavamo con la sufficienza del vincitore appagato, va ora affrontata con la stessa concretezza e visione del futuro che ha caratterizzato il periodo della Guerra Fredda. Un approccio che è diventato indispensabile per garantire i nostri valori e il nostro sistema di vita che, anche se non perfetto, ci permette di godere di quella libertà che pochi soggetti fanatici vorrebbero toglierci.

In un mondo che è continuamente distratto da questioni irrilevanti, è sempre più difficile riuscire a mantenere la lucidità per focalizzarsi sui problemi veramente importanti. Per tale motivo dobbiamo impegnarci in misura ancora maggiore per mantenere una visione aperta, chiara e determinata perché la storia non fa sconti, a nessuno, e giudicherà severamente ciò che faremo e anche ciò che non avremo fatto, quando ne avevamo tutte le possibilità.

Renato Scarfi è anche autore del saggio “Il terrorismo jihadista”, Europa Edizioni, 2019. Prefazione del gen. c.a. Roberto Bernardini, già comandante delle Forze Operative Terrestri dell’E.I.

i Sergio Romano, Esportare democrazia la realtà e la leggenda, Corriere della sera del 14 dicembre 2015

ii Braking Defense, Afghan aftermath: will Pacific States see weakened US?, 20 agosto 2021

Foto: web / United Nations / U.S. Marine Corps / BBC / Hamid Mir / U.S. Air Force / Difesa Online