Sindrome cinese

(di Gino Lanzara)
17/07/18

Nell’ultimo anno, date anche le profonde modificazioni istituzionali, l’attenzione generale si è puntata sulle risorgenti capacità cinesi, sia da un punto di vista economico - istituzionale sia da quello geopolitico, riguardante il tentativo di una sempre più decisa affermazione egemonica. Quel che è mancato, tuttavia, è stata la presenza di un valido oppositore alla “causa di beatificazione” del corso politico impresso da Xi Jinping; a fronte della panoramica fornita, vi sono infatti aspetti che non possono essere trascurati, e che hanno un peso specifico non irrilevante.

La crescita economica cinese poggia le sue fondamenta su di un indebitamento che, lo stesso governatore centrale Zhou Xiaochuan, ha definito come molto vicino ad un Minsky moment, dal nome dell’economista americano, a suo tempo inascoltata Cassandra della crisi dei subprime. Il debito pubblico cinese, pari a circa 4.600 miliardi di dollari, va moltiplicato per 2,5 per effetto dei debiti contratti dalle società a livello periferico e municipale; in sintesi, secondo le stime di Moody’s e Standard & Poor’s, e nonostante le manovre svalutative dello yuan (o renmimbi) del 2015, i livelli troppo elevati del debito continuano a porre seri rischi di stabilità per il sistema finanziario, messo anche in pericolo dalle esigenze di una classe media capace di far crescere repentinamente il credito al consumo: più di una potenziale bolla.

L’economia cinese dunque cresce, ma paradossalmente rischia il collasso, a meno che si non riesca ad indirizzarla verso “un modello più resiliente ed inclusivo”, come sottolineato dall’OCSE, che non ha mancato di stigmatizzare due aspetti: il primo connesso al fatto che non esiste un meccanismo in grado di far dichiarare il fallimento alle grandi aziende statali; il secondo collegato alla scadenza delle obbligazioni emesse dalle amministrazioni locali, e che sono potenziali sistemi ad orologeria in grado di provocare default.

Alla luce dei target strategici prefissati, Xi ha dunque dovuto fissare nuove priorità, sintetizzabili nello slogan “prima la qualità, prima la stabilità”, per cui si è stabilito un PIL al 6,5% anziché al 6,9%, andando in netta controtendenza rispetto all’obiettivo del “più in alto possibile”, foriero di un’economia squilibrata perché basata prevalentemente su investimenti ed esportazioni. Pur non potendo parlare di austerità, la Cina deve rallentare il trend delle passività facendo calare il suo disavanzo, il tutto continuando ad investire e, soprattutto, disinnescando i fattori di rischio per la stabilità economica capaci di minare l’autorità di Xi.

Anche i rischi ambientali, da un punto di vista eminentemente economico, rivestono la loro importanza; la chiusura delle vecchie ed inefficienti strutture industriali pesanti porterà una forte disoccupazione in aree tradizionalmente povere e dalle attività comunque difficilmente riconvertibili che, già ora, sono indici di forti diseguaglianze sociali. La risorsa di cui la Cina continua ad avere la più forte necessità è ancora il petrolio il cui trasporto riveste, date le caratteristiche geografiche, una rilevanza strategica. Il suo prezzo, non sempre determinato dal meccanismo di domanda ed offerta, risulta essere ancora il miglior sistema possibile per regolare sia conflitti potenziali sia rapporti di forza, secondo un asse che adegua gli interessi delle maggiori potenze e dell’Arabia Saudita mettendo in difficoltà l’Iran. Come in tutte le attività lucrative, i Paesi produttori hanno tuttavia bisogno di liquidità che la Cina, colpita dalla guerra dei dazi americani, ha ora difficoltà ad assicurare come in precedenza proprio perché impegnata, sul lungo termine, a realizzare un mercato interno in grado di compensare quello, in sofferenza, delle esportazioni. Il tentativo di mitigazione degli effetti dei dazi porta quindi ancora di più il Dragone a dover realizzare, secondo una sorta di paradigma Keynesiano, programmi infrastrutturali come la BRI (Belt and Road Initiative, ndr), capaci di sconvolgere equilibri sociali ed ambientali che si pongono quale target, tra gli altri, l’obsolescenza del Canale di Suez.

Ma quali sono, in fondo, i veri obiettivi di Pechino, per cui si è giunti alla definizione di un sistema capitalistico di Stato così atipico? L’idea propugnata di una sorta di prosperità condivisa secondo il modello win–win, convince sempre di meno, e la BRI comincia ad essere percepita come un artificio strategico in grado di convogliare ingerenze politiche e dipendenze finanziarie. Gli accordi commerciali stipulati dalla Cina ancora agli inizi del 2018 hanno condotto ad un’ulteriore espansione negli investimenti infrastrutturali portuali che mostrano sia i prodromi di un dual use civile e militare, sia il frequente coinvolgimento di Paesi con ratings a livello junk e/o con culture legali e commerciali non particolarmente evolute. Non si può dunque negare il rischio di star facendo aumentare la profondità strategica e le capacità proiettive di potenza cinesi secondo direttrici ben lontane dai confini della madre Patria. Indicativa la liaison sino–britannica, tesa a compensare le difficoltà della Brexit, ed a creare un’ulteriore testa di ponte europea in grado di far diventare la Cina quale antemurale economico del Regno Unito fino a far giungere gli interessi Cinesi sull’Atlantico, l’Oceano USA. Ma non dimentichiamo il secondo fattore del binomio economia – potenza, ovvero lo strumento militare.

Gli USA, coscienti sia dell’attuale carenza di un mercato domestico cinese sia della contingente impossibilità di Pechino di controllare gli oceani, ritengono la BRI un sistema atto a dissimulare una temporanea inadeguatezza. Già alla fine degli anni ’80 Andrew Marshall, a capo dell’Office of Net Assessment del Pentagono, individuava nella Cina l’avversario che sarebbe succeduto all’URSS, ed invitava le amministrazioni in carica ad aggredire le deficienze strutturali dell’Impero di Mezzo; mentre l’Europa celebrava un improbabile declino americano, il presidente Obama inaugurava il suo pivot to Asia che evidenziava gap tecnologici e Sea Power ancora consistenti e sicuramente non scalfibili dalle Vie della Seta.

Per imporre la propria superiorità, gli americani potranno dunque ancora avvalersi del potere deterrente della U.S. Navy, favorendo da un lato il risorgere militare dei Paesi asiatici sotto il loro ombrello protettivo, e dall’altro facendo attenzione a che non si affermino aspirazioni revansciste, come in Giappone o in Vietnam. Solo un effettivo riarmo navale cinese potrebbe mettere in discussione il controllo degli Stretti e del traffico mercantile; se è vero che la Cina sta allestendo nuove e più potenti UU.NN. in house, è però altrettanto vero che l’effettiva capacità Combat Ready potrà essere acquisita solo con il tempo, ed a patto di evitare pericolosi contatti ravvicinati. Il campo di battaglia attuale è dunque quello tecnologico. L’attuale disputa per la proprietà intellettuale esalta due aspetti particolarmente rilevanti: quello politico e quello economico-commerciale. Politicamente gli USA, internamente diversificati, devono competere con una Cina più centralizzata ed autoritaria che in passato, con un presidente di fatto a vita, e soprattutto in grado di attingere a fondi sovrani. Le acquisizioni tecnologiche cinesi, non potendo quindi essere considerate quali semplici investimenti diretti esteri, assurgono dunque a tematiche riguardanti la sicurezza nazionale.

Il pericolo non è così aleatorio, specie se si considera il fatto che, nel pensiero strategico cinese, è presente il principio della fusione tra il settore civile e quello militare: lo junmin ronghe, ancora e sempre una forma pervasiva di dual use, che nutre il dichiarato obiettivo di creare forme di interdipendenza sinergica tra i vari settori produttivi e che consente un’espansione economica globale che persegue attività di natura strategico – economica. La guerra commerciale dichiarata dall’Amministrazione Trump, in fondo, è un’accusa all’ingenuità occidentale, se è vero che, grazie alle acquisizioni compiute, la Cina potrà ambire a divenire, entro il 2025, un leader dell’hi-tech. Lo scenario è dunque molto più complesso e difficilmente interpretabile di quanto sembri. Se da un lato l’attuale fragilità finanziaria cinese impone un cambio di rotta, la politica degli investimenti di Stato non può e non deve fermarsi, prova ne sia l’interesse palesato per gli approdi di Vanuatu, Repubblica del Pacifico Meridionale che amplierebbe ancora di più il filo di perle del Dragone, privo però ancora di una flotta oceanica realmente efficace.

Sull’altra sponda la consolidata talassocrazia USA, con alle spalle un’Amministrazione che, anche se poco diplomaticamente, tuttavia riesce ad individuare ed a rendere evidenti i punti di faglia più rischiosi.

Che la Cina stia lanciando una sfida al mondo è evidente; che l’Occidente non americano sia pronto a raccoglierla, decisamente meno.

(foto: Ministry of National Defense of the People's Republic of China / gov.cn / U.S. Navy)