Due giorni dopo l’annuncio1 di Xi Jinping, con cui ha dichiarato superato il picco dell’emergenza sanitaria in Cina, e quello dell’organizzazione mondiale della sanità (WHO) che confermava la pandemia in atto, Trump ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale.
Un annuncio che non giunge inaspettato, anche se sino a non molti giorni fa il presidente continuava a minimizzare il “virus straniero”, con un occhio sempre rivolto però al numero crescente di contagi.
Mentre scriviamo, il “virus di Wuhan” - (così chiamato dal segretario di stato statunitense, Mike Pompeo, lo scorso 4 marzo) - è per gli USA una minaccia incombente, che getta un velo opaco sulla prossima tornata elettorale presidenziale.
La dichiarazione di Trump giunge al termine di un lungo periodo durante il quale il presidente, addossando pubblicamente la responsabilità del contagio alla Cina, ha sempre respinto le richieste di misure emergenziali provenienti da più parti, come quella del sindaco di New York, Bill de Blasio, che urlava: ”the President remains all but silent on the most important thing: rapid, expansive testing… New Yorkers don't care where the virus came from”.
Trump, d’altronde, ha da tempo ben chiara la situazione sanitaria del Paese, e la presenza del virus maledetto che potrebbe già aver aggredito decine di migliaia di suoi concittadini.
Per gli Stati Uniti si tratta di una emergenza nell’emergenza: il modello americano di assistenza sanitaria, come ha saggiamente ricordato David Rossi ieri su queste pagine (v.articolo), dispone di “solo circa 925.000 letti ospedalieri con personale medico, di cui meno di un decimo per casi critici in terapia intensiva”.
Alla lentezza americana fa da sponda quella dell’Unione Europea, che scoordinata per tradizione nelle materie comuni, non poteva non esserlo in quelle, come l’assistenza sanitaria, ricadenti nella piena sovranità dei singoli Stati.
In queste ore, in cui le curve del contagio di Francia e Germania ricalcano fedelmente quella italiana di 8-10 giorni fa, in nessun paese del vecchio continente vigono divieti significativi di assembramento e di isolamento.
La Spagna, che mentre scriviamo “vola” verso i 10.000 contagi, ha aspettato ieri sera per imporre limitazioni al movimento dei cittadini che ricalcano quelle italiane.
Nulla di che meravigliarsi, d’altronde, se pensiamo a come eravamo messi noi meno di una settimana fa.
Risulta allora interessante, in queste ore di lavoro agile o di ferie forzate a casa, leggere la relazione2 del team WHO inviato in Cina per l’ esigenza epi-pandemica.
Il documento passa al setaccio le iniziative attuate da Pechino per combattere il COVID 19, promuovendola a pieni voti per la tempestività delle azioni a sostegno del contenimento della malattia.
Una promozione non scontata, visti i ritardi con cui la Cina ha ammesso l’esistenza di una epidemia in corso, e considerate le misure restrittive contro Li Wenliang, il giovane medico che per primo diede inascoltato l'allarme sul coronavirus di Wuhan.
Ciononostante, il documento considera quelle cinesi “le operazioni di contenimento più ambizioso, aggressivo agile della storia” e “raccomanda tutti gli stati di attivare iniziative di riposta al più alto livello per limitare la diffusione del virus”.
Certo, la Cina è stata pur sempre agevolata dal suo sistema politico e amministrativo, ma questo non toglie - sostiene la rivista medica Lancet in un suo editoriale3 - che tutti gli Stati coinvolti “devono abbandonare i timori per le conseguenze negative economiche e pubbliche a breve termine che potrebbero derivare dalla limitazione delle libertà individuali” e fare di tutto per bloccare la diffusione del contagio.
Anche per il timore che questo si propaghi nei “paesi della maggior parte dell'Africa sub-sahariana, non preparati per un'epidemia di coronavirus, o in America Latina e Medio Oriente”.
La vittoria sul COVID 19, per la dirigenza cinese, diventa ora un punto di forza che agevola il recupero dell’orgoglio nazionale.
Con mille difficoltà, Pechino è riuscita a capitalizzare al meglio l’esperienza dell’epidemia SARS del 2002-2003, e ora intende passare all’incasso giocando la carta della sua leadership vittoriosa e ponendosi simbolicamente alla testa delle nazioni impegnate combattere il terribile morbo.
Gioca quindi la carta della solidarietà internazionale, e aspetta senza fretta il diffondersi del virus sul territorio americano, per infliggergli una prima stoccata, velata magari dall’offerta di personale medico esperto di beni sanitari di prima necessità, di cui il Dragone è leader manifatturiero globale.
Le mascherine sanitarie di protezione stanno diventando il più prezioso strumento di diplomazia, oltre che un bene primario di protezione dal contagio sempre più introvabile.
La Cina già ne deteneva il primato mondiale della produzione con 20 milioni di esemplari al giorno, sestuplicati a partire dal 29 febbraio scorso, con uno sforzo immenso che ha dato prova della capacità di centralizzazione del sistema produttivo nazionale.
Il Chengdu Aircraft Industry Group, solo per citare un esempio, che realizza il J-20 (jet stealth di 5° generazione), ha riconvertito alcune linee per produrre dispositivi di protezione sanitaria individuale (DPI); 258 ingegneri hanno ridisegnato in tre giorni una catena di montaggio con oltre 1200 componenti.
E così hanno fatto oltre 2500 aziende, incluse 700 tecnologiche: come la Foxconn, principale assemblatore di iPhone, Xiaomi e Oppo produttori di smartphone.
Il COVID 19, visto da Pechino, più che affossarne l’ascesa economica come i dati macroeconomici del primo trimestre sembrerebbero suggerire, può rivelarsi più che mai utile per consacrarne, nell’immediato futuro, il ruolo globale.
3https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(20)30522-5/fulltext
Foto: Xinhua / European Commission / Ambasciata Repubblica Popolare Cinese in Italia