“Potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra” (Winston Churchill)
Accade spesso che, nei tempi di crisi più nera, la gente faccia affidamento sulla saggezza degli antenati per trovare conforto ed insegnamento; e gli insegnamenti più efficaci, tramandati dalla cultura popolare, sono i proverbi.
Un proverbio che ha sempre attirato la mia attenzione è: “a mali estremi, estremi rimedi”, che si spiega con la necessità di far ricorso a rimedi di natura eccezionale laddove una situazione venga in principio compromessa da un evento eccezionale. Nel corso del recente passato ho riflettuto molto attentamente sul significato profondo di tale proverbio mentre ripensavo all'interpretazione che dovevo dare ad un articolo che mi era stato inviato non molto tempo fa. L'articolo il questione si intitola: “L'UE e l'Italia hanno bisogno di una nuova relazione con l'Alleato Turco nel Mediterraneo” apparso il 15 giugno 2020 su “Osservatorio per la Stabilità e la Sicurezza del Mediterraneo Allargato” (v.link).
È necessario qui dire, prima di procedere, che io personalmente sono assolutamente refrattario a qualsiasi tipo di attacco personale e ho sempre guardato con malcelato disgusto alle “prestazioni eroiche” dei “leoni da tastiera” che regolarmente lanciano i loro vuoti “ruggiti” sulle pagine di Facebook insultando tutto e tutti. Personalmente non ho proprio nulla contro l'Osservatorio per la Stabilità e la Sicurezza del Mediterraneo Allargato”; tuttavia, l'articolo in questione tocca da vicino un argomento che è di capitale importanza per il futuro della Repubblica Italiana perciò merita di essere trattato con attenzione priva di qualsiasi leggerezza. Non solo, le opinioni espresse nel medesimo articolo meritano una doppia attenzione proprio perché partorite in un contesto dottrinale che fa riferimento direttamente alle strutture dell'Alleanza Atlantica della quale l'Italia è stata uno dei membri fondatori e alla quale ha fondamentalmente affidato in maniera acritica la propria sicurezza; in questo differenziandosi profondamente da paesi come la Francia, la Spagna, il Portogallo, la Grecia e la stessa Turchia che invece sono sempre stati molto attenti a conservare nelle proprie mani le leve decisionali volte alla tutela di quelli che sono percepiti come “interessi nazionali non-negoziabili”. Alla luce di ciò, la mia analisi in risposta alle affermazioni dell'articolo va filtrata in primis attraverso le lenti degli interessi nazionali del nostro paese, la Repubblica Italiana, mentre considerazioni di carattere europeista ed atlantista verranno necessariamente subordinate ad essi. Ciò significa, in parole povere ed accessibili a tutti, che europeismo ed atlantismo devono essere strumenti per la Repubblica Italiana per perseguire i propri interessi nazionali, e non dei “totem intoccabili” sull'altare dei quali sacrificare i nostri interessi per la necessità di compiacere centri di potere esterni al nostro paese per i quali la sicurezza e la sopravvivenza di 60 milioni di cittadini della Repubblica Italiana non sono la priorità.
Sostanzialmente l'intero articolo lascia intravvedere la possibilità che l'UE ingaggi la Turchia in quello che viene definito un “grand bargain”. Nella lingua inglese, “grand bargain” può essere associato all'idea di un “accordo di ampio respiro” oppure un “accordo quadro”. Perché tale evenienza possa accadere, è necessario che le parti in contrapposizione abbiano degli interessi compenetrabili e che allo stesso tempo siano disposte a fare delle reciproche concessioni in modo da monitorarsi vicendevolmente.
In sostanza questo è stato il processo che ha creato l'Unione Europea. La “casa comune europea”, attraverso le sue varie reincarnazioni nel corso dei decenni altro non è che un patto franco-tedesco per il mantenimento della pace in Europea attraverso l'integrazione economica (nella sua forma embrionale, mediante la messa in comune di carbone ed acciaio, i materiali strategici che erano serviti alle nazioni europee per farsi la guerra). Oltre tutto, tanto la Francia quanto la Germania erano entrambe potenze uscite traumatizzate dalla Seconda Guerra Mondiale e nessuna delle due aveva in quel momento storico alcuna ambizione di natura imperialista, fatto salvo il desiderio francese di mantenere una sfera di interessi privilegiati nei territori dell'Africa Occidentale (la cosiddetta Françafrique). Qui viene il primo grave problema della strategia menzionata nell'articolo, dato che mette a confronto un insieme di paesi, quelli europei (tra i quali viene ovviamente compresa l'Italia) che possono essere considerati “geopoliticamente pasciuti” e che sostanzialmente pensano solamente a come mantenere l'attuale tenore di vita delle proprie popolazioni dimenticandosi (o addirittura scegliendo deliberatamente di ignorare) la “politica di potenza”, mentre dall'altra parte vi è un paese che non solo non ha mai abiurato ai dettami della geopolitica, ma negli ultimi anni ha addirittura scelto di percorrere la strada del revanscismo e di tramutarsi in “potenza rivoluzionaria”.
Per i non avvezzi alla terminologia geopolitica, secondo la dottrina politica della cosiddetta “Scuola Realista” di Hans Joachim Morgenthau, una “potenza rivoluzionaria” è uno stato che porta avanti azioni sullo scacchiere geopolitico tali da condurre ad una “rivoluzione” (e quindi destabilizzazione) degli equilibri internazionali. Uno degli elementi più palesi che permettono di individuare un siffatto paese è la pratica della modificazione unilaterale e permanente dei confini esterni dello stato a scapito degli altri, il tutto condito da una retorica improntata ad un militarismo esasperato (esattamente la politica del Terzo Reich negli anni successivi all'ascesa al potere di Adolf Hitler). Alla luce di questa definizione, possiamo affermare che la Turchia sia effettivamente una “potenza rivoluzionaria”? La risposta a tale domanda è: sì!
Come già spiegato in una mia precedente analisi avente come oggetto il conflitto cipriota (v.link), negli ultimi anni, la scena politica turca è stata a più riprese agitata da un fantasma che in molti ritenevano morto e sepolto: il “Misak-ı Millî”. Con tale nome si intende il cosiddetto “Patto Nazionale” adottato dal padre della Repubblica di Turchia, Mustafa Kemal Atatürk, tra la fine della Prima Guerra Mondiale e lo scoppio della Guerra d'Indipendenza Turca, e con il quale l'ultimo parlamento ottomano (e primo parlamento della nuova Turchia repubblicana) dichiarava quali fossero i territori che spettavano di diritto al popolo turco e che la Turchia non era minimamente disposta a barattare; oltre ai territori dell'attuale Repubblica di Turchia, le altre terre che apparterrebbero di diritto al popolo turco secondo il “Misak-ı Millî” sono: una notevole porzione della Bulgaria, la Grecia orientale fino alla penisola della Calcidica, una buona metà delle isole del Mar Egeo, tutta l'isola di Cipro, un'ampia porzione della Siria (da 1/3 ad 1/2 del paese secondo le interpretazioni), un'altrettanto ampia porzione dell'Iraq (comprendente tutto il Kurdistan iracheno), un piccolo spicchio dell'Iran nord-occidentale, i territori dell'Agiaria e della Meschetia in Georgia, tutto il territorio della Repubblica Autonoma di Naxçıvan (formalmente parte dell'Azerbaigian) e pure tutto quello della Repubblica d'Armenia.
L'ossessivo riferimento da parte di Erdoğan e di gran parte dei politici turchi al “Misak-ı Millî” deve essere preso tremendamente sul serio da tutti.
Quella che, apparentemente, sembra una fantasia derubricabile a trovata ad uso e consumo interno rappresenta in realtà una dichiarazione coerente di espansione territoriale paragonabile al “Lebensraum” di hitleriana memoria ed Erdoğan non vi rinuncerà mai.
Vale la pena di notare poi che la retorica del “Misak-ı Millî” non appartiene solamente ad Erdoğan o ai suoi alleati nazional-fascisti del Partito del Movimento Nazionalista (MHP) ma è condivisa da tutto l'establishment politico della Turchia inclusi i leader del Partito Popolare Repubblicano (CHP), Kemal Kılıçdaroğlu e Muharrem İnce e la leader del Partito İYİ, Meral Akşener che proprio di Erdoğan sono gli oppositori e che vengono sbandierati qui in Occidente come “la speranza per la democrazia turca”. L'unica eccezione da questo punto di vista è costituita da Selahattin Demirtaş e dal suo Partito Democratico dei Popoli (HDP), espressione delle minoranze del paese, tuttavia dopo l'arresto e l'incarcerazione di Demirtaş nel 2016, lo HDP è stato virtualmente eliminato dalla scena politica turca. Non è nemmeno un segreto il fatto che sempre più spesso i politici turchi si intrattengano in autentiche elucubrazioni sulla possibilità di abolire il Trattato di Losanna (il quale per altro è stato ampiamente depotenziato in numerosi aspetti nel corso del secolo), in questo riflettendo per altro la vulgata popolare dato che secondo tutte le rilevazioni statistiche la netta maggioranza dei Turchi è convinta che una volta passato il suo centesimo anniversario, il suddetto trattato perderà valore (cosa semplicemente ridicola sul piano del diritto internazionale perché non esistono “trattati a scadenza”, a patto che ciò non sia espressamente previsto nel trattato stesso, e quello di Losanna NON ricade in questa casistica!). Convinzione per altro basata su un popolare aneddoto secondo il quale il generale Mustafa İsmet İnönü, capo negoziatore della delegazione turca a Losanna nel 1923 e braccio destro di Mustafa Kemal Atatürk, nonché suo successore alla presidenza della Turchia alla sua morte nel 1938, pare abbia così esordito al raggiungimento dell'accordo: “Abbiamo guadagnato 100 anni!”. Tale narrativa ricorda incredibilmente quella utilizzata dalle correnti salafite nel mondo arabo-islamico in merito all'interpretazione esegetica del cosiddetto “Trattato di Hudaybiyyah”, concluso nel 629 d.C. dal profeta Maometto con i Meccani al fine di porre momentaneamente fine alle ostilità in un momento in cui l'esercito dei fedeli di Maometto si trovava in estrema difficoltà e quindi necessitava di tempo per rafforzarsi. Due anni dopo, Maometto, ora forte, decise di disconoscere il trattato e riprese la guerra, impossessandosi della Mecca.
Ora, per onestà intellettuale e trasparenza storica, bisogna dire che non esiste alcuna prova che il comportamento di Atatürk e di İnönü in sede negoziale a Losanna riflettesse quello che i salafiti islamici attribuiscono a Maometto nel caso del “Trattato di Hudaybiyyah”, così come non esiste alcuna prova che İnönü abbia proferito quella frase sui 100 anni una volta tornato ad Ankara (ma potrei anche sbagliarmi!), tuttavia è singolare che a distanza di quasi un secolo, la classe politica turca e una gran parte della popolazione abbiano deciso di sposare questo tipo di interpretazione la quale, ipso facto, è spia di un malessere interiore; quello di un paese che ritiene di essere stato ingiustamente “punito” dalla Storia e dalle potenze straniere e di essere stato letteralmente “rinchiuso” in dei confini politici percepiti come una “prigione”, che non rappresentano la vera dimensione che è propria della “civiltà turca”; da qui il disperato desiderio di grandezza che eccita gli animi delle masse dei diseredati e strizza l'occhio alla vanagloria dei ceti dominanti i quali, pur scornandosi regolarmente con Erdoğan per dividersi gli ossi del potere, non di meno sono egualmente affascinati dalla prospettiva che la Turchia possa nuovamente rivendicare “il posto che le spetta nel mondo” al tavolo dei grandi e perciò non disdegnano la “politica della grandeur”.
Una conseguenza di questo stato mentale e l'ossessiva ricerca dell'occasione di modificare i suddetti confini. Operazione alla quale si dedicò attivamente già Atatürk quando nel corso degli anni '20 e '30 del XX secolo tentò a più riprese di rientrare in possesso del Vilayet di Mosul, oppure quando propagandò l'idea di una “Federazione Balcanica” (che avrebbe dovuto riunire Turchia, Grecia, Bulgaria, Albania, Romania e Yugoslavia) in chiave anti-mussoliniana, per finire con il tentativo (questa volta riuscito) di riprendersi il Sangiaccato di Alessandretta che venne staccato dalla Siria e riannesso alla Turchia come provincia di Hatay dopo un referendum fraudolento.
Nel corso della “Guerra Fredda”, quando sembrava che la Turchia fosse diventata una docile “colonia della CIA” pure i vertici del paese colsero l'occasione fornita dalla strisciante guerra civile scoppiata a Cipro per occupare una buona parte dell'isola e iniziare quel processo di stanziamento di coloni anatolici che da allora non si è mai fermato e che rappresenta una grave minaccia alla sopravvivenza di Cipro che, è bene ricordarlo, è un paese dell'Unione Europea. Per finire con le operazioni militari in terra siriana ed irachena degli ultimi anni che hanno creato una situazione di spartizione de facto in base alla quale, usando le scuse più disparate le quali non ho francamente più voglia nemmeno di commentare, la Turchia ha letteralmente artigliato ampie porzioni dei territori dei due paesi dove sta portando avanti una subdola politica di “turchificazione” (la stessa che i dirigenti di Ankara portano avanti da quasi un secolo contro le minoranze del loro stesso paese e che meriterebbe un'enciclopedia per venire descritta) con il probabile fine ultimo di organizzare dei referenda ed avere la scusa per legalizzare altrettanti ladrocini di terre dalle quali i Turchi sono stati espulsi 100 anni fa e che ora appartengono legalmente ad altri stati.
Non bisogna poi dimenticare il sostegno che Ankara sta dando ormai da anni alla “Fratellanza Musulmana” in ogni dove, nel Medio Oriente come nella stessa Europa e che ha permesso quasi di superare (almeno a livello dirigenziale) l'odio inter-etnico tra arabi e turchi cristallizzatosi in decenni di nazionalismo turco particolarmente spinto. Se fino agli anni '90 il leader del Partito del Movimento Nazionalista (MHP) Alparslan Türkeş arringava i suoi seguaci al grido di: “Gli arabi sono sempre stati nemici della grande nazione turca!”, il suo successore Devlet Bahçeli, non meno nazional-fascista di lui, ha opportunamente modificato l'ideologica e dogmatica avversione contro gli arabi ogni qual volta ciò è servito per ampliare la base elettorale e mobilitarla verso tematiche che stanno a cuore al pubblico turco come, per esempio, lo status della Città Vecchia di Gerusalemme e le sofferenze dei palestinesi di Gaza. Ma tale riscoperta retorica filo-araba e filo-islamica è anche servita egregiamente per “vendere” alla propria opinione pubblica l'intervento turco in Libia a sostegno del governo di Tripoli presieduto da Fayez Mustafa al-Sarraj, espressione locale della “Fratellanza Musulmana” e chiacchierato per le sue antiche origini turche. È difficile avere accesso a stime puntuali ma pare che tra militari turchi in piena regola e mercenari islamisti siriani, la Turchia possa contare sulla ragguardevole forza di oltre 20.000 uomini equipaggiati di tutto punto sul terreno, che stanno inesorabilmente cambiando le sorti della guerra civile libica a favore di al-Sarraj.
Teoricamente questa dovrebbe essere una bella notizia per l'Italia dato che i nostri governi si sono più volte spesi a favore del governo di Tripoli, ma che garanzie abbiamo che questo ci porti a delle leve di influenza se al-Sarraj dovesse diventare a tutti gli effetti un burattino nelle mani di Erdoğan e, forse, già lo è?
Ma le mosse più inquietanti della geopolitica turca stanno avvenendo nei Balcani, e neppure tanto in sordina! A parte le presenze strategiche turche in Bosnia, Montenegro, Kosovo, Macedonia del Nord e Sangiaccato di Novi Pazar, i turchi stanno prepotentemente “mettendo le mani” sull'Albania, paese che ha sempre ricoperto un ruolo di primissimo piano nella strategia di sicurezza esterna dell'Italia da quando il nostro paese “neppure esisteva”; basti ricordare l'importantissimo aiuto in chiave anti-ottomana che sia la Serenissima Repubblica di Venezia che il Regno di Napoli offrirono a Giorgio Castriota detto Scanderbeg, eroe della lotta dell'Albania medievale contro l'imperialismo della Sublime Porta. Grazie ai finanziamenti che dal 1992 la Turchia non ha mai smesso di pompare nelle casse albanesi, le autorità del “paese delle aquile” hanno ultimato la modernizzazione della base navale di Pasha Liman, vicino a Valona, e se è vero che da ora in poi anche il cosiddetto “Tunnel di Porto Palermo” sarà in grado di ospitare i sottomarini della Türk Deniz Kuvvetleri, la Marina Turca, allora l'Italia rischia di ritrovarsi in prospettiva con un coltello puntato proprio su una delle rotte commerciali vitali per la sicurezza e la prosperità economica del nostro paese senza che le nostre autorità abbiano un qual si voglia strumento per “controllare” le intemperanze dei nostri vicini anatolici, ora anche troppo vicini per lasciarci indifferenti.
Alla luce di quanto sin qui affermato ed descrivendo quelle che sono le reali condizioni oggettive sul terreno (ripeto: le condizioni che sono, non quelle che noi “vorremmo che siano”!) si capisce come la strategia del “grand bargain” suggerita nell'articolo implica che l'Europa, e l'Italia in particolare, azzerino la propria politica nel Mediterraneo e si distendano proni lasciando che i turchi “ci entrino nel letto sperando che non abbiano intenzione di molestarci”.
Visto tutto quanto ciò che è stato spiegato sopra con dovizia di particolari, tale suggerimento è francamente irresponsabile e foriero di clamorosi autogol geopolitici che potrebbero costarci carissimo nel futuro nemmeno tanto lontano.
Si badi bene inoltre che la NATO in questo caso non rappresenta per noi alcun tipo di garanzia alla tutela dei nostri interessi nazionali perché la triste realtà degli ultimi anni dovrebbe averci ormai fatto capire che le élite di Washington si sono rivelate assolutamente incapaci di riconoscere la pericolosità dell'operato turco, ed anzi ne sono diventati persino corree, opponendo ai disegni turchi una “resistenza” che definire insignificante è dire poco, visto il fatto che in passato gli USA hanno mosso guerra ad altri paesi per molto meno.
In conclusione, anche se questo argomento è di non facile trattazione, e sicuramente ci torneremo a più riprese nel futuro, ho cercato di tracciare una panoramica ad ampio respiro sul perché io non ritenga che sia un atteggiamento responsabile assecondare i disegni espansionistici ed egemonici turchi nel Mediterraneo e nelle aree limitrofe perché essi costituiscono una minaccia fondamentale alla sicurezza nazionale ed economica della Repubblica Italiana e noi non possiamo risolvere la questione semplicemente “sperando in un miracolo” o “ignorando bellamente il problema”.
Speriamo che tale campana d'allarme inizi a squillare nelle orecchie di coloro che siedono nella stanza dei bottoni e che non si sia costretti ad aspettare il momento nel quale la “Storia” inizierà a bussare alla nostra porta picchiando con il pugno.
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