Il recente incidente (sabotaggio?) dello scorso 2 luglio al “sito industriale” iraniano di Natanz, circa 250 chilometri a sud di Teheran, nel quale due persone sono morte e altre tre rimaste ferite, sembrerebbe più il risultato di una (ennesima) azione di sabotaggio, che la conseguenza di "lavoratori negligenti intenti a rifornire bombole di ossigeno”, come dichiarato con insolita prontezza dall’agenzia di stato IRNA.
Non sapremo mai la verità, o forse salterà fuori più avanti, poco a poco.
Giova però ricordare che lo stesso sito, che per la cronaca è una centrale nucleare, nel 2006 fu vittima di un attacco cyber che ha fatto la storia, lanciato da USA e Israele con un virus informatico, Stuxnet1, studiato apposta per disabilitare le centrifughe della centrale e impedire la rilevazione di malfunzionamenti.
Siamo ormai abituati all’isolamento dell’Iran divenuto una costante della politica internazionale degli ultimi trent’anni, che ha costretto il paese in una condizione di diffusa povertà, pur essendo fra quelli più ricchi di petrolio.
Il coronavirus, a inizio anno, ha dato poi il colpo di grazia a una economia allo stremo: mentre scriviamo, il paese occupa saldamente l’undicesimo posizione della graduatoria2, con oltre 281mila casi positivi e poco meno di 15mila morti.
In una tale situazione non deve allora sorprendere la notizia, annunciata qualche giorno fa dal New York Times, di un imminente accordo con la Cina.
Alcune avvisaglie erano già trapelate nel 2016, durante la visita di Xi Jinping al presidente Hassan Rouhani e al leader supremo Ali Khamenei, nei cui punti di discussione figurava un accordo di "Partenariato strategico globale tra la Repubblica Islamica dell’Iran e la Repubblica Popolare della Cina”.
La bozza, che va detto non è ancora stata firmata dalle parti (sarà ratificato nel 2021), prevederebbe una collaborazione ”di lunga durata”, in termini e modi che non sono stati ancora annunciati, ma che interessano il campo finanziario (cessione di liquidità) e la costruzione di una serie di infrastrutture strategiche, essenziali per dare ossigeno alla disastrata economia iraniana.
Secondo il NYT, la Cina è pronta a investire in 25 anni ben 400 miliardi di dollari, per la costruzione di "aeroporti, ferrovie e metropolitane ad alta velocità" e per la costituzione di "zone di libero scambio”.
Si tratta di una mole enorme di denaro, utile per compensare la condizione di permanente embargo interrotto solo nel 2016 a seguito dell’accordo per il nucleare voluto da Obama e reimposto dall’attuale inquilino della casa Bianca.
Nel quadro dell’accordo vi sarebbe anche spazio - manco a dirlo - per una stretta collaborazione e condivisione di dati informativi, nel campo della difesa e in quello dell’intelligence, con una attenzione al cyberspazio, nella cui dimensione la Cina si propone di fornire a Teheran il necessario supporto.
I vantaggi che derivano dalla speciale intesa tra il leone iraniano e il dragone cinese sono importanti per ambo le parti3.
Sul piano geopolitico, l’accordo consolida l’asse (Russia)-Cina-Iran, che già aveva avuto modo di palesarsi lo scorso anno nell’ambito di manovre4 navali congiunte nell’Oceano Indiano e nel Golfo di Oman.
In tale contesto, il principale vantaggio per la Cina è proprio la possibilità di incunearsi in una delle regioni più instabili del pianeta, con la capacità - non secondaria - di condizionare la principale potenza regionale dell’area, alterando considerevolmente gli equilibri di forze del quadrante.
Essendo poi l’Iran uno stato con 2440 km di costa, Pechino ricava dall’accordo un utile affaccio sul Mare Arabico e sul Golfo Persico, dai quali ogni anno transita una parte consistente del petrolio mondiale, aggiungendo così un ulteriore tassello alla “collana di perle” su cui si basa il progetto “One belt, One road”, la nuova via della seta con cui la Cina intende abbracciare intera Eurasia.
Per non parlare della possibilità di attingere a titolo preferenziale alle riserve iraniane di gas naturale - tra le prime 5 al mondo - e a quel 15% di petrolio OPEC prodotto nella Repubblica Islamica: un boccone cui il paese più energivoro del pianeta potrebbe difficilmente rinunciare.
Da parte sua, l’Iran esce dall’isolamento internazionale grazie a un accordo con un paese che è anche membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: un aspetto che tornerà certamente utile quando si tratterà di bloccare sul nascere (contando anche sul supporto della Russia) le iniziative “ostili” presentate in quel consesso dagli Stati Uniti.
Anche la collaborazione in campo tecnologico e militare contemplata nel trattato rappresenta per Teheran un valore aggiunto di non poco conto, al pari dell’accesso dei suoi prodotti di raffinazione in un mercato pressoché illimitato.
Molto meno lo è invece il pericolo di cadere nella cosiddetta “trappola del debito” in cui molti paesi partner della Cina sono incorsi nel tempo per non essere stati in grado di onorare i prestiti elargiti da Pechino per la realizzazione delle infrastrutture sul loro territorio.
È il caso del porto di Hambantota nello Sri Lanka, che il governo locale è stato costretto ad affittare alla Cina per 99 anni, dopo che non è riuscito a rimborsare i prestiti cinesi; ma anche del Pakistan, che deve alla Cina 10 miliardi di dollari per la costruzione del porto di Gwadar (il terreno è stato poi concesso in affitto al governo cinese fino al 2059); e delle Maldive, che devono alla Cina circa 1,5 miliardi di dollari, pari al 30 % del PIL.
Ma la lista potrebbe continuare a lungo, includendovi moltissimi paesi africani: un continente nel quale Pechino, grazie al ritiro dell’Occidente, detta ormai legge.
4https://it.euronews.com/2019/12/27/manovre-navali-congiunte-di-iran-russ...
Foto: IRNA / Ministry of National Defense of the People's Republic of China