Con il mancato pagamento di cedole obbligazionarie per 42.5 milioni di dollari, lo scorso 13 novembre la Repubblica dello Zambia è diventata il primo Paese africano a dichiarare bancarotta sovrana (default) dall’inizio della pandemia di Covid-19. Lo Zambia non è certo l’unico Paese al mondo ad essere precipitato nell’abisso economico e sociale del default sovrano in questo terribile 2020, ma si trova per ora in compagnia di altri 5 Paesi (l’Argentina, il Belize, l’Ecuador, il Libano ed il Suriname) che hanno subito lo stesso destino a partire dall’inizio dell’anno.
Va riconosciuto ai mass media italiani di aver prestato un minimo di attenzione alla situazione argentina (data l’enorme ed eterna portata del problema, oltre che ai legami storici e culturali che legano quel Paese al nostro) come pure alla situazione libanese (date le conseguenza geopolitiche nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente) mentre non vi è stata pressoché alcuna attenzione riguardo agli altri 4 casi, se non in pubblicazioni altamente specializzate in finanza internazionale.
Questa distrazione può essere perdonata nei casi del Belize, dell’Ecuador e del Suriname. Infatti, dato che i 3 Paesi caraibici e sudamericani sono relativamente piccoli e sottosviluppati, ed hanno ridottissimi scambi commerciali internazionali, si può certamente affermare che il disastro economico-finanziario di questi 3 Paesi ha un impatto sul resto del mondo assolutamente insignificante.
Ad una prima analisi superficiale la stessa cosa si potrebbe dire dello Zambia. Tuttavia, chi scrive è convinto che il caso del Paese africano vada osservato con più attenzione da tutti gli amanti della geopolitica, poiché i problemi economici dello Zambia si contestualizzano all’interno di alcuni trend storici, politici, economici e finanziari che riguardano tutto il continente nero. Di conseguenza, il caso dello Zambia potrebbe essere solo la punta di un iceberg di una catena di ulteriori default africani che potrebbero avere effetti rilevanti per il mondo intero.
Per consentire dunque al lettore di comprendere più in dettaglio il problema, è necessario fare un passo indietro e riassumere gli eventi salienti della storia dell’Africa a partire dal secondo dopoguerra che ci hanno condotto alla situazione attuale.
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale la nascita dell’ONU e l’avvento della “guerra fredda” fra Stati Uniti ed Unione Sovietica diedero una fortissima accelerazione al processo di decolonizzazione che portò all’indipendenza di tutti quei territori africani che erano stati colonie di vecchie potenze europee oramai in declino come ad esempio il Regno Unito, la Francia, il Belgio e l’Italia. Di conseguenza, negli anni compresi fra il 1957 ed il 1965 la stragrande maggioranza dei Paesi dell’Africa sub-sahariana ottennero la loro indipendenza (solo un numero ridotto di Paesi, come ad esempio le ex colonie portoghesi di Angola e Mozambico, la ottennero con qualche anno di ritardo).
Tutti i nuovi Stati africani, una volta ottenuta e celebrata la libertà dal giogo coloniale, si trovarono ad affrontare fin da subito una serie di problemi difficilissimi da risolvere. L’insieme di tutte le cause che portarono al sottosviluppo cronico di quasi tutti i Paesi indipendenti dell’Africa è un argomento talmente vasto che richiederebbe una trattazione a parte. È sufficiente ricordare qui alcuni elementi comuni, tra cui la mancanza di coesione interna fra le etnie di ciascun Paese (anche dovuta alla totale arbitrarietà dei confini internazionali), nonché la totale assenza di un tessuto economico equilibrato (dato che l’economia di una colonia ruotava tipicamente attorno alla produzione di un unico bene) per comprendere perché nel giro di pochi anni dopo l’indipendenza in quasi tutti i Paesi dell’Africa sub-sahariana si verificarono alternativamente disordini, oppressioni, colpi di stato e/o dittature militari. Le infrastrutture dell’epoca coloniale si deteriorarono e le economie non poterono svilupparsi.
Una delle principali conseguenze di tutto ciò fu il costante aumento del debito pubblico in quasi tutti i Paesi dell’Africa sub-sahariana per tutto l’arco temporale degli anni sessanta, settanta ed ottanta. Con il debito pubblico le oligarchie politiche, economiche e militari dei vari Paesi finanziarono non solo l’acquisto di beni di prima necessità che non si riuscivano a produrre internamente, ma anche gli apparati repressivi dello Stato e l’arricchimento privato di coloro che detenevano il potere.
Questo debito pubblico fu contratto principalmente sotto forma di prestiti provenienti dalle istituzioni internazionali, in primo luogo la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e la African Development Bank; ma anche sotto forma di prestiti bilaterali ottenuti direttamente da altri Paesi sovrani. Spesso e volentieri il Paese che (in cambio di contropartite politiche ed economiche) prestava soldi al Paese africano in difficoltà era nientemeno che la ex potenza coloniale, al punto che si iniziò a parlare di “neocolonialismo”.
Come già accennato, le economie dei Paesi africani in quei decenni si basavano per eredità coloniale sull’esportazione di un ristretto ventaglio di materie prime (idrocarburi, metalli industriali e preziosi, prodotti agricoli) mentre si doveva importare pressoché ogni tipo di prodotti di prima necessità per la sopravvivenza della popolazione. Di conseguenza, il perdurante calo dei prezzi delle principali materie prime (a cominciare dal petrolio) durante tutti gli anni ottanta e la prima metà degli anni novanta assestò il colpo di grazia all’economia di molti Stati africani, rendendone insostenibile la situazione finanziaria.
Nei primi anni novanta divenne chiaro che il debito pubblico africano era diventato ingestibile e qualcosa andava fatto per alleviare il continente nero da questo peso.
Papa Giovanni Paolo II pubblicò il 10 novembre 1994 la lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente, in cui esortava i cristiani, in preparazione del Giubileo del 2000, a “farsi voce di tutti i poveri del mondo, proponendo il Giubileo come un tempo opportuno per pensare, tra l'altro, ad una consistente riduzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale, che pesa sul destino di molte Nazioni”.
A livello musicale, diversi cantanti (da Bono a Jovanotti) decisero di appoggiare e promuovere la causa. Innumerevoli associazioni e organizzazioni non governative in tutto l’Occidente fecero lo stesso.
La risposta delle istituzioni prese forma a partire dal 1996, anno in cui il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale promossero il programma congiunto Heavily Indebted Poor Countries (HIPC) che aveva lo scopo di ridurre e/o cancellare in toto il debito pubblico dei Paesi più poveri del mondo in cambio di riforme da implementarsi per aumentare l’efficienza delle iniziative volte a ridurre la povertà.
Nel contesto degli anni novanta, caratterizzati dall’assenza di gravi tensioni internazionali (specie in confronto con il mondo di oggi) e da uno zenith di benessere e prosperità diffusa in tutti i Paesi industrializzati, questo programma fu accolto positivamente in tutto il mondo. Le uniche critiche da parte dell’opinione pubblica occidentale non riguardarono l’eccessiva generosità del programma, ma casomai le condizioni di accesso imposte ai Paesi poveri, giudicate da alcuni troppo restrittive.
Si può certamente argomentare che questa campagna di cancellazione del debito dei Paesi poveri (in prevalenza Paesi africani) ha avuto successo: entro il 2005 ben 27 Paesi (di cui 23 nell’Africa sub-sahariana, Zambia incluso) hanno ricevuto aiuti per un totale di 54 miliardi di dollari (40 miliardi la porzione andata ai 23 Paesi africani).
Nello specifico (dati HIPC) a fine 1999 lo Zambia aveva un debito pubblico verso l’estero pari a 6.5 miliardi di dollari (equivalente al 160% del PIL dell’epoca), per il 53% nei confronti di istituzioni internazionali (come Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale); per il 46% nei confronti di altri Paesi sovrani (quasi interamente nei confronti di Paesi aderenti al Club di Parigi); per il restante 1% nei confronti di istituti di credito internazionali. Sulla base del programma HIPC, le tre tipologie di creditori concessero allo Zambia aiuti per un totale di 2.5 miliardi di dollari, ciascun creditore in proporzione alla propria quota.
Questi aiuti furono elargiti nel 2000 in cambio di un impegno del governo zambiano ad apportare migliorie al sistema educativo, ad implementare programmi di contrasto all’HIV/AIDS e malaria più efficienti, nonché a lanciare una grande campagna infrastrutturale volta a portare elettricità ed acqua potabile in ogni angolo del Paese.
A partire dai primissimi anni del nuovo millennio una combinazione di fattori favorevoli, tra cui il completamento dei programmi di riduzione del debito, le riforme richieste in cambio della partecipazione a tali programmi, ed un nuovo ciclo di aumento dei prezzi delle materie prime che vengono esportate dai Paesi africani, ha portato molti Paesi dell’Africa sub-sahariana a vivere forse per la prima volta dall’indipendenza una stagione di crescita economica sostenuta e convincente, nonché un miglioramento generalizzato di tutti gli indicatori sociali.
Come ciliegina sulla torta, nel corso degli anni 2000 si è verificato quasi ovunque in Africa un rientro del debito pubblico a livelli più che sostenibili (nel caso dello Zambia, il debito è sceso fino al 20% del PIL nel 2010). Il quasi è un riferimento non casuale allo Zimbabwe: Paese governato dal 1980 in modo totalitario dal padre-padrone Robert Mugabe, il quale ha imposto a tutti i suoi concittadini una gestione devastante dell’economia, che nel giro di un quarto di secolo ha trasformato il granaio dell’Africa in un vero e proprio inferno di repressione, confisca dei beni, svalutazione, iperinflazione, HIV/AIDS e colera (e ovviamente non ha mai partecipato al programma HIPC).
Negli altri Paesi dell’Africa sub-sahariana, invece, la nuova stagione di crescita economica e sociale degli anni 2000, raffrontata sia a quanto accaduto dall’indipendenza fino al momento della cancellazione del debito, sia a quanto stava accadendo nel vicino Zimbabwe, rappresentava una lezione della Storia che negli anni intorno al 2010 tutti i leader del Paesi africani avrebbero dovuto studiare e ricordare per dare una vera chance ai loro rispettivi Paesi di proseguire la appena cominciata lunga marcia verso lo sviluppo e la prosperità.
E invece quella del debito dei Paesi africani si è rivelata essere una Storia che non ha insegnato nulla. Per capire perché, è necessario fare un secondo excursus, questa volta per descrivere come si sono evoluti i flussi di capitale a livello internazionale a partire dalla crisi finanziaria del 2008.
Al contrario di altre crisi finanziarie del passato, che erano partite da luoghi “periferici” e “fragili” dell’economia globale (solo per fare 3 esempi: la crisi messicana del 1994, la crisi delle “tigri asiatiche” nel 1998, la crisi turca del 2001), la grande crisi finanziaria del 2008 ha avuto come doppio epicentro i centri nevralgici di tutta la finanza mondiale: la City a Londra e Wall Street a New York.
È sufficiente guardare al picco del tasso di disoccupazione registrato nei vari Paesi nei primi mesi del 2009 per rendersi conto di come la crisi esplosa a Londra e New York abbia travolto appieno l’economia britannica e quella americana, mentre le economie degli altri Paesi avanzati (come ad esempio il Canada, l’Europa continentale, il Giappone e l’Australia) hanno accusato il colpo in maniera un po’ più attutita, la Cina in maniera ancora più lieve, mentre gli altri Paesi del mondo (inclusi i Paesi africani) hanno subito questa crisi in maniera assai marginale.
A partire dal settembre 2008, l’orientamento che la Federal Reserve americana guidata da Ben Bernanke assunse per uscire dalla crisi fu quello di immettere un enorme fiume di denaro nel sistema finanziario (il famoso Quantitative Easing, implementato pochi anni dopo anche dalla Banca Centrale Europea di Mario Draghi). Questo fiume di denaro fu immediatamente reso disponibile dalle banche ai grandi investitori internazionali, i quali piuttosto che impiegarlo in Paesi “avanzati” come gli Stati Uniti, l’Europa o il Giappone (dove i rendimenti erano bassi e le prospettive economiche incerte), preferirono impiegarlo in quel “resto del mondo” dove l’economia era rimasta solida e perlopiù i rendimenti erano pure più alti.
Tutti quei Paesi del mondo che avevamo sempre chiamato con spregio “Terzo Mondo” all’improvviso diventarono “Paesi Emergenti” (Emerging Markets), perdendo ogni connotato negativo. L’acronimo “BRIC” (coniato qualche anno prima per indicare i 4 grandi protagonisti fra gli Emergenti, ovvero Brasile, Russia, India e Cina) sull’onda del fortissimo interesse finanziario acquisì sostanza nel 2009 con il primo vertice formale fra i capi di governo dei 4 Paesi. Nel 2010 fu modificato in “BRICS” per includere il Sudafrica. Sempre nel 2010 fu proposto l’acronimo “CIVETS” per indicare quella “seconda fascia” di potenze regionali emergenti che sarebbero diventate “sexy” agli occhi degli investitori internazionali non appena gli investimenti nei “BRIC” fossero diventati “banali” (nell’ordine: Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia e lo stesso Sudafrica). Una moltitudine di acronimi similari fiorirono nei mesi e anni successivi, includendo i Paesi latinoamericani, est-europei, mediorientali, africani ed asiatici più disparati.
Il capitalismo è fatto in modo che laddove c’è domanda, presto c’è anche offerta. Perciò questo improvviso e travolgente interesse finanziario verso i Paesi Emergenti scatenò, nel quinquennio 2009-2013 inclusi, una raffica di nuove emissioni di debito obbligazionario dall’America Latina all’Asia passando per il Medio Oriente e l’Europa Orientale, con rendimenti via via più bassi che però gli investitori internazionali accettavano entusiasti perché erano comunque più attraenti di quanto offerto nelle vecchie economie avanzate, peraltro ancora in crisi (pensiamo all’America ancora scossa dai mutui subprime, all’Europa travolta dalla crisi greca o al Giappone travolto dalle radiazioni di Fukushima).
Nella prima metà di questo quinquennio (cioè fino al 2011) questo fenomeno aveva solo sfiorato l’Africa. Fino al 2007 gli unici Paesi che avevano emesso obbligazioni in dollari o euro acquistabili dagli investitori internazionali erano quelli situati alle 4 estremità del continente nero: il Sudafrica, l’Egitto, la Tunisia ed il Marocco. Nel 2007 si aggiunse il Ghana (primo e unico Paese sub-sahariano ad aver emesso un’obbligazione in dollari americani). Riguardo a tutti gli altri Paesi sub-sahariani, era auspicabile pensare che le lezioni storiche sopra descritte fossero sufficienti a dissuadere i leader del continente nero dal ripiombare nella trappola del debito estero.
Tuttavia, la prospettiva del denaro facile è evidentemente stata più forte di qualunque lezione storica, dato che dopo il Ghana la lista dei Paesi africani che hanno debuttato sulla scena obbligazionaria mondiale con emissione di titoli di stato si è allungata fino ad includere (a settembre 2012) il Gabon, il Senegal, la Costa d’Avorio, la Repubblica del Congo (Brazzaville), la Nigeria e la Namibia.
Ed ecco che il 14 settembre 2012 a questa lista si aggiunge anche il nostro Zambia, che fa il proprio ingresso nella finanza mondiale con l’emissione obbligazionaria di un titolo di stato da 750 milioni di dollari americani che quel giorno generò fra gli investitori globali una domanda per la fantastica cifra di 11.9 miliardi di dollari, cioè pari a 15 volte l’offerta (dati Bloomberg). Inevitabile aggiungere: una richiesta pari a quasi il doppio del debito estero totale che era risultato insostenibile e dunque cancellato appena 12 anni prima.
Questa obbligazione decennale avrebbe pagato una cedola fissa pari al 5.375% annuo, corrisposta semestralmente ogni 13 settembre ed ogni 13 marzo fino al giorno del rimborso del titolo, previsto al 13 settembre 2022. Come già scritto all’inizio di questa analisi, il mancato pagamento della cedola del 13 settembre 2020 ha portato il Paese al default il 13 novembre scorso, una volta terminato il “periodo di grazia” di 60 giorni.
Chi scrive in quel 14 settembre 2012 esercitava la professione di consulente finanziario in una banca a Dubai (una delle “capitali finanziarie” dei mercati emergenti), e sente qui il bisogno di aprire una piccola parentesi personale per condividere con i lettori di Difesa Online quanto si sentì “punto” nel proprio orgoglio patriottico quel giorno, non potendo fare a meno di notare che il suddetto titolo “Repubblica dello Zambia 5.375% 2022” debuttava sui mercati con un differenziale (spread) inferiore a quello dei BTP comparabili dello Stato italiano! Ora, d’accordo le difficoltà politiche e finanziarie dell’Italia iniziate in quel tremendo autunno 2011 e raddrizzate solo dal celeberrimo “whatever it takes” di Mario Draghi un anno dopo, ma considerare lo Zambia meno rischioso dell’Italia decisamente non ci stava. Il 13 novembre scorso la Storia ha decretato quale dei 2 Paesi, alla fine, è fallito per primo. Chiusa parentesi.
Lo Zambia non fu certo l’ultimo Paese dell’Africa sub-sahariana ad indebitarsi nei mercati finanziari internazionali: ad esempio nei due anni successivi (cioè fino ad aprile 2014) si aggiunsero alla lista l’Angola, il Mozambico, il Ruanda e la Tanzania. Altri se ne sono aggiunti in seguito, fino a raggiungere un totale di 21 Paesi africani che ad oggi hanno contratto debito sotto forma di titoli obbligazionari di stato (tutti i Paesi già citati più il Kenya, il Benin, l’Etiopia, le Seychelles ed il Camerun).
Se si visualizzano questi 21 Paesi sulla mappa dell’Africa, salta immediatamente all’occhio per dimensioni geografiche e posizione centrale nel continente nero qual’è l’ultimo tabù ancora inviolato della finanza internazionale nei confronti dell’Africa: la Repubblica Democratica del Congo (Kinshasa). Questo immenso Paese, infatti, è caratterizzato da istituzioni statali talmente deboli, disfunzionali ed inaffidabili, nonché da carenze infrastrutturali talmente basilari che ancora nessun investitore privato è disposto a diventarne creditore. Di conseguenza, il Congo (Kinshasa) è certamente uno dei Paesi più poveri e sottosviluppati del pianeta, ma è anche uno degli oramai rarissimi Paesi sulla faccia della Terra ad avere un livello di indebitamento totale inferiore al 15% del PIL e conti pubblici in perfetto pareggio di bilancio (dati 2019).
A partire dalla primavera 2014 l’interesse degli investitori internazionali nei confronti del debito dei Paesi emergenti ha cominciato a scemare, un po’ per via delle migliorate prospettive economiche nei Paesi avanzati, un po’ per via di alcuni accadimenti negativi negli stessi Paesi emergenti a partire dai BRIC (come ad esempio l’incombere dello scandalo “Lava Jato” in Brasile o l’annessione russa della Crimea e relative sanzioni internazionali), un po’ per l’avvio di un nuovo ciclo di ribasso del prezzo del petrolio e di altre materie prime sulle quali si fondano le economie emergenti (in modo particolare quelle africane).
Come abbiamo già visto, questi fattori non hanno assolutamente impedito ad un numero sempre maggiore di Paesi africani di indebitarsi sui mercati obbligazionari internazionali, né hanno impedito ai Paesi già indebitati di emettere ulteriori titoli di debito (ad esempio, lo Zambia dopo aver emesso il titolo da 750 milioni di dollari nel 2012 ne ha emesso un secondo nel 2014 e un terzo nel 2015 raggiungendo un indebitamento totale nei confronti dei mercati obbligazionari pari a 3 miliardi di dollari). Hanno però innestato un circolo vizioso di spread sempre più alti, maggiori oneri in termini di interessi passivi e maggior indebitamento totale sia in termini assoluti sia in rapporto al PIL.
Nel caso dello Zambia, questo circolo vizioso si è rotto al 13 novembre con un indebitamento totale pari a 18.5 miliardi di dollari, ed un indebitamento in rapporto al PIL che dal 20% circa di 10 anni fa è esploso fino a raggiungere il livello attuale del 120% del PIL.
Considerando la cronica instabilità interna di pressoché tutti i Paesi dell’Africa sub-sahariana, ad oggi è troppo presto per fare previsioni sia riguardo a quale Paese africano sarà il prossimo della lista a ritrovarsi in default (l’Angola, con un debito pubblico anch’esso al 120% del PIL, è un candidato più che papabile) sia riguardo a quali saranno le conseguenze politiche, economiche e sociali del default nello Zambia (lo spettro dello Zimbabwe aleggia appena al di là delle meravigliose Cascate Vittoria).
Tuttavia, appare fuori discussione il fatto che l’uscita dal ciclo attuale di indebitamento sarà per tutti i Paesi dell’Africa sub-sahariana molto più dolorosa di quella che si concluse grazie al programma HIPC, per tutte le ragioni elencate di seguito:
- La composizione attuale dei creditori è molto diversa da quella degli anni novanta. Allora, come già accennato, i creditori erano o istituzioni internazionali (come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale), o altri Paesi sovrani (spesso e volentieri la ex potenza coloniale). Oggi, a grandi linee, i Paesi più poveri dell’Africa devono un quarto del loro debito ad obbligazionisti ed altri creditori privati; un quarto alla Cina (che nel corso degli ultimi 10 anni molte risorse ha impiegato per aumentare la propria influenza nel continente nero, anche a discapito delle vecchie potenze europee); un quarto agli altri Paesi sovrani e un quarto alle istituzioni internazionali
- Negoziare una ristrutturazione del debito con una miriade di obbligazionisti privati nel bel mezzo di una crisi mondiale da pandemia di Covid-19 è un affare molto più arduo che farsi abbuonare il debito dalle istituzioni internazionali con l’auspicio di Papa Giovanni Paolo II e il benestare di larga parte dell’opinione pubblica occidentale
- Negoziare una ristrutturazione del debito con la Cina (che non aderisce al Club di Parigi) si potrebbe rivelare molto più arduo che con tutte quelle vecchie potenze con un passato coloniale da farsi perdonare
- Le prospettive sull’andamento dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime (che alla fine della fiera determinano da 60 anni il bello ed il cattivo tempo di tutte le economie africane) appaiono ora molto più deboli di quelle degli anni novanta, dato che le aspettative di crescita dell’economia mondiale sono certamente più modeste di quelle di allora.
Come dicono a Londra e New York, “stay tuned and watch this space” (resta collegato e tieni d’occhio la questione). Questione che non promette nulla di buono, dato che il debito dei Paesi africani è una storia che (per ora) non ha insegnato nulla.
Paolo Silvagni
(Laureato in economia, ex consulente finanziario, imprenditore)
Foto: web / The National Archives UK