Che ci piaccia o no l’avventura di Trump si sta chiudendo, lasciando dietro di sé molte ceneri ed eredità scomode per Biden. Per comprendere che cosa ha rappresentato per gli Stati Uniti d’America Donald Trump, bisogna conoscere gli Stati Uniti e il modo di vivere e di pensare di milioni di persone che vivono dall’altra parte dell’Atlantico, con i loro valori, i loro pregi ma anche le loro contraddizioni. Un popolo che da quasi un secolo ha comunque influenzato il resto di buona parte del mondo. La cosa straordinaria è stata che, nel bene e nel male, questo melting pot di diverse culture e religioni ha esportato l’american way of life in Paesi culturalmente più antichi influenzandone i costumi.
Per comprendere gli Stati Uniti bisogna viverci per lungo tempo, cercando di ricordarci sempre che la nostra cultura e la loro non possono essere qualitativamente comparate. Sono semplicemente diverse, basandosi su substrati sociali e culturali differenti.
Chi è Donald Trump?
Forse potremmo definirlo un ricco e controverso uomo d'affari di New York che, prima di darsi alla politica, non era immerso nell'ambiente di Capitol Hill e tanto meno del Congresso. Sebbene sin dagli anni ‘80 avesse ventilato l’idea di scendere in politica, solo nel 1999 istituì un comitato esplorativo presidenziale, basando il suo progetto politico su opinioni socialmente liberali ma dal punto di vista economico conservatrici.
Nel giugno del 2015 annunciò la sua candidatura alle elezioni presidenziali statunitensi del 2016, promettendo, in estrema sintesi, milioni di nuovi posti di lavoro, protezionismo delle aziende nazionali, abrogazione dell'Affordable Care Act (ACA), rilancio dell'industria del carbone statunitense, riduzione dello strapotere delle lobby a Washington, D.C., ritiro degli Stati Uniti dall'accordo di Parigi del 2015 per contrastare i cambiamenti climatici, un nuovo regime protezionistico dei dazi, lotta contro la migrazione clandestina (ricorderete il famoso muro lungo il confine tra Stati Uniti e Messico) ed il divieto di immigrazione negli Stati Uniti dei musulmani.
La campagna fu dura, affrontata con uno stile rude e guascone sia durante i comizi che sui media, contro Hillary Clinton, quella egli che definì "Crooked Hillary". Fece scalpore la sua aperta minaccia di metterla in prigione se fosse stato eletto, cosa che non aveva precedenti nella storia politica moderna degli Stati Uniti.
Tra mille difficoltà, in una campagna che apparve sporca da entrambe le parti, Trump sconfisse Hillary Clinton nelle votazioni di novembre 2016 e fu eletto presidente, prestando giuramento il 20 gennaio 2017.
La sua vittoria, inaspettata per molti, evidenziò che Trump era riuscito a mettere a frutto le ansie economiche della middle class, stanca di belle parole e di pochi fatti. Il suo ingresso alla Casa Bianca fu caratterizzato da azioni mirate a distruggere i provvedimenti della presidenza precedente, in linea con il suo programma elettorale.
Trump si distinse dai precedenti presidenti per il suo uso continuo e retorico dei social media e, in particolare, di Twitter, che utilizzò anche come sede per dichiarazioni presidenziali semi-ufficiali. Uno stile nuovo, in linea con la comunicazione del III millennio, diretto ed immediato ma che spesso evidenziò una sua incapacità di comprendere il ruolo istituzionale assunto.
In realtà Trump rappresenta un caso raro se non unico nella storia moderna degli Stati Uniti dove tutti i presidenti avevano sempre avuto un background politico, servendo, in un modo o nell'altro, alla Camera, al Senato o come governatori. Un fattore che, come vedremo, può aver contato nella sua presidenza.
Di fatto Trump nel suo mandato ha tagliato le tasse, ricostituito la magistratura federale e dato un respiro allo strumento militare, massacrato dalla politica di Obama. Volendo essere pragmatici, fino alla fine del 2019, il lavoro della sua amministrazione ha permesso di continuare il gradiente negativo dell'indice della disoccupazione, dando lavoro a migliaia di statunitensi.
Nel suo mandato Trump ha provato a cercato di mettere in atto il suo programma elettorale, basato sullo slogan "Make America Great Again", tappandosi il naso, nonostante le critiche degli economisti e di molti dei suoi consiglieri. Ha parlato spesso con la pancia e non con la testa per poi celarsi dietro il ritornello delle fake news. Ha assunto infelici e impopolari decisioni in campo ambientale, negando i cambiamenti climatici in corso decisamente corta sul futuro. In questo non ha saputo nemmeno sfruttare il supporto di ricercatori che, in certi casi, avrebbero potuto sostenerlo con competenza dal punto di vista scientifico
Economicamente parlando, forse uno dei suoi errori maggiori è stato quello di collegare il fattore benessere a quello del mercato azionario. Spesso la visione degli uomini d’affari è differente da quella degli economisti, e Trump non ha saputo coglierne la differenza, osservando l’America con gli occhi di una middle class che non si è ancora ripresa dal crollo del 2008. Ricorderete che in quell’annus horribilis per l’economia americana la Fed aveva mantenuto bassi tassi di interesse e denaro a buon mercato provocando un aumento del mercato; la disponibilità di denaro passò dalla Fed a Wall Street, dove gonfiò i valori delle attività, senza un effettivo vantaggio sul Main Street.
Concentrarsi sul valore del crescente mercato può essere quindi fuorviante, ed è come guardare l’esterno di una bella scatola che non riflette i problemi dell'economia complessiva al suo interno. Nel 2016 Trump aveva già sottolineato, nel suo primo dibattito contro Hillary Clinton che l’America era “in a big, fat, ugly bubble”.
Una situazione che emerge dal grafico del Dow Jones che riporta gli andamenti negli ultimi 20 anni. Chiunque può osservare il massiccio crollo del mercato nel 2008, seguito della ripresa iniziata sotto Obama, dal 2009 fino al 2016, e poi proseguita con Trump, con il supporto della Federal Reserve (FED) alle banche e ai banchieri di Wall Street. Azioni che però non aiutavano le famiglie e le imprese di Main Street.
Chi in quegli anni visitava gli Stati Uniti, poteva percepire l’impoverimento di un’America dove la disoccupazione era fortemente aumentata e dove i giornali denunciavano l’aumento preoccupante dei beneficiari di buoni alimentari. Un’America triste, con un degrado che poteva essere osservato dallo stato di inefficienza dei sui apparati, compreso quello militare. In particolare della U.S. Navy, dal dopo guerra punta di diamante della politica estera statunitense che, pur essendo presente in tutti gli oceani del mondo, era ai minimi termini in quanto ad efficienza. Certo accusare Trump di questo sarebbe ingiusto, in quanto il declino cominciò molto tempo prima.
Quali sono stati i suoi "errori" maggiori?
Fare un bilancio a caldo della gestione Trump, specialmente a pochi giorni dal suo definitivo termine presidenziale, è quanto meno rischioso, a causa dei fattori emotivi che scorrono a fiumi sui mass media. Cercherò quindi di fare una valutazione quanto più possibile oggettiva delle sue azioni.
Errata struttura decisionale
Il Gabinetto di Trump è stato composto in gran parte da personaggi che avevano molta esperienza nel campo degli affari ma, rispetto alle amministrazioni precedenti, poca in questioni di Governo. Trump, dopo la sua inaspettata elezione, si circondò di fedelissimi, scelti tra familiari e amici. Ciò sarebbe stato normale se non avesse lasciato al loro posto anche vecchi squali di razza, fedeli al precedente Governo, che da tempo avevano saturato la struttura decisionale. Un'ingenuità legata probabilmente alla sua poca esperienza di quei lunghi e luminosi corridoi che Trump ha pagato nel corso del suo mandato.
Come aveva detto Reagan, la politica la fanno le persone, e sono le persone che “make things come true”. Questo avviene in qualsiasi Paese; spesso un ministro è biasimato per le sue azioni senza che si consideri che chi fa girare le ruote è il suo staff, che può facilitarne il lavoro ma anche vanificarlo, essendo maggiormente addentro ai meccanismi. Sorprendentemente tra lo staff di Trump non c’era nessun economista.
Uno dei suoi primi errori quindi stato quello di non avere una squadra completamente consolidata ed allineata, cosa che nel tempo ha comportato importanti sostituzioni e talvolta lasciato vacanti, dal punto di vista decisionale, alcuni uffici importanti.
Politicizzare la pandemia del coronavirus, minimizzando i rischi per il popolo americano
L'approccio del presidente Trump alla pandemia è stato forse il suo maggiore passo falso, perché ha spostato, in fase elettorale, l’ago della bilancia in favore di Biden. Quando l’epidemia iniziò a Wuhan, il sistema sanitario americano si dimostrò incapace di reagire prontamente. Trump si concentrò ad accusare la Cina e l’OMS di non aver detto da subito la verità (cosa che fu poi in effetti appurato) invece che sulla pandemia. Questo approccio dimostrò l’insufficiente capacità di analisi della situazione da parte dello staff di Trump, sordo anche ai consigli degli esperti sanitari.
Questa mancanza analitica fu acuita dalla incapacità di comprendere la gravità della situazione, evidenziata dal rapporto sulla morbidità e la mortalità da parte del Centers for Disease Control and Prevention (CDC) che aveva rivelato dall'esame dei ceppi scoperti nella California settentrionale come i contagi provenissero da individui di rientro da viaggi internazionali (dalla Cina ma anche dall'Europa). Trump non seppe, o non volle, cogliere il messaggio ed emanò il primo divieto di viaggio dall'Europa solo l'11 marzo, tra l'altro senza consultare gli alleati europei, cosa che sollevò non poche proteste.
In altre parole, l'ossessione dell'amministrazione Trump di incolpare la Cina per l’epidemia distolse l'attenzione dal vero problema, la diffusione del virus, rendendo tardive molte importanti azioni.
New York sta ora pagando un caro prezzo con oltre 38.000 morti, ma anche il resto degli Stati Uniti ha raggiunto oltre 367.000 decessi; questo si sarebbe forse potuto mitigare con provvedimenti più rigidi.
Un altro errore di Trump è stato minimizzare la grave situazione in atto in pubblico; in quasi ogni fase della crisi, ha ignorato o deriso gli avvertimenti scientifici, dando la priorità a mantenere aperte le attività in un inutile sforzo di prevenire una profonda e inevitabile recessione. Ironia della sorte, se avesse da subito seguito le raccomandazioni del consiglio scientifico, si sarebbero forse mitigati i provvedimenti a singhiozzo negli Stati e quindi rallentata la caduta dell'economia verso una recessione ora simile alla Grande Depressione.
La retorica razzista
Donald Trump è noto per i suoi discorsi spesso giudicati razzisti o comunque istigatori di razzismo negli Stati Uniti. Da parte sua egli ha ripetutamente rigettato le accuse, affermando che la limitazione dell'immigrazione clandestina non è dettata da razzismo ma dalla necessità di favorire l’economia degli Stati Uniti, che migliorerebbe l’integrazione e le condizioni di vita degli immigrati già presenti sul territorio.
Al di là delle dichiarazioni, di fatto Trump non ha saputo gestire un problema che appare ancora insoluto negli Stati Uniti, la questione razziale. Al di là delle leggi, esistono differenze culturali sostanziali nei diversi Stati, che alimentano contrasti tra le diverse comunità razziali. Trump può contare sul supporto dalla comunità “bianca” degli Stati del Sud, in cui forme di intolleranza sono ancora presenti. Questa contrapposizione è chiara, evidente e presente in tutti gli Stati, con violenze reciproche e discutibili azioni da parte delle Amministrazioni locali.
Recenti violenze subite da persone di colore da parte della polizia hanno portato a gravi scontri sociali incendiando tensioni mai sopite nei quartieri più degradati, con il fenomeno “Black Lives Matters”; ne sono seguiti discutibili provvedimenti governativi locali che, sulla base del politically correct sono degenerati nell’abbattimento di statue di personaggi storici degli Stati Confederati, considerati in alcuni Stati del Sud ancor oggi eroi nazionali, ma avversati dalle amministrazioni come reminiscenze di un passato da cancellare; vittime di questo abbruttimento culturale anche personaggi come Cristoforo Colombo e Omero.
È curioso vedere che in tutto il mondo queste intolleranze si stiano diffondendo, portandoci verso una sempre più precaria democrazia di pensiero.
Quello che si sta osservando negli Stati Uniti è di fatto l'inizio dello scontro di civiltà teorizzato nel secolo scorso da Samuel Huntington, per il quale gli equilibri stanno mutando secondo delle linee di divisione culturale che hanno poco a che fare con le ideologie del secolo scorso.
Cancellazione dell’Obamacare
Secondo la BBC, una delle promesse più importanti di Trump in campagna elettorale fu l'abrogazione del Patient Protection and Affordable Care Act (più noto come Obamacare).
Durante le elezioni presidenziali del 2016, Trump aveva sostenuto una riforma sanitaria basata sui "principi del libero mercato", promettendo di abrogare l’Obamacare; inoltre intendeva semplificare la vendita delle assicurazioni sanitarie, istituire una detrazione fiscale completa per i pagamenti dei premi assicurativi per gli individui, rendere ereditabili i conti di risparmio sanitario, richiedere una trasparenza dei prezzi, concedere aiuti sanitari agli Stati e permettere anche ai fornitori di farmaci stranieri di accedere al mercato americano, di fatto riducendo le barriere normative e la speculazione. Promesse interessanti che andavano però a toccare lobby molto potenti. Nonostante la Camera dei deputati approvasse il suo disegno di legge, il cosiddetto American Health Care Act del 2017 (AHCA), i membri del Senato non furono in grado di concordare un piano di passaggio dall’Obamacare all’AHCA, mantenendo quindi in vigore il precedente.
Nell'ottobre 2017, Trump emise un ordine esecutivo per creare nuove regole per consentire alle piccole imprese di acquistare collettivamente l'assicurazione sanitaria espandendo così la copertura sanitaria e l'uso degli accordi di rimborso sanitario (HRA). Un tentativo che non ha di fatto apportato modifiche significative, lasciando la problematica aperta.
Politiche anti-immigrazione
Trump è di fatto rimasto coerente nelle sue politiche anti-immigrazione intese, secondo il suo programma, a “proteggere gli Americani”, soffocati da una massa sempre maggiore di migranti illegali alla ricerca di un posto di lavoro, con delle barriere fisiche lungo i confini; secondo i Democratici, il progettato muro lungo il confine messicano avrebbe causato un effetto opposto, ovvero una crescita di posti di lavoro all’estero ed una perdita di innovazione e di investimenti in campo nazionale.
In realtà Trump non è riuscito a bloccare la migrazione ed il suo flusso, soprattutto di ispanici, continua ad alimentare fasce di comunità povere già sofferenti nelle grandi città degli Stati.
Economia interna
Nel novembre del 2016, Trump ereditò un’economia in crescita. Se da un lato la disoccupazione continuava a diminuire (v.grafico seguente), l’economia del Main Street non ne ebbe un effettivo vantaggio. Di questo non si può dargli colpa, essendo un male antico. Certo Trump, per risolvere le condizioni esistenti, avrebbe necessitato di più tempo per sviluppare e implementare i suoi progetti, continuamente attaccati dai media e rallentati da un apparato burocratico “rugginoso” e tutt’altro che agile. Un "errore" politico fu quello di dare "false speranze" nei momenti più difficili, nascondendo la realtà.
Non più tardi del mese scorso, mentre infuriava la crisi del coronavirus e milioni di persone rimanevano disoccupate, Trump twittò che la sua amministrazione aveva costruito la più grande economia della storia, di qualsiasi Paese, salvando milioni di vite. In realtà nascose, in tempo di COVID, la situazione reale, che era già costata più di 10 milioni di posti di lavoro.
Il tasso di disoccupazione rappresenta il numero di disoccupati come percentuale della forza lavoro. I dati sulla forza lavoro sono limitati alle persone di età pari o superiore a 16 anni, che attualmente risiedono in uno dei 50 stati o nel distretto di Columbia, che non risiedono in istituzioni (ad esempio, strutture penali e psichiatriche, case per anziani) e che non sono in servizio attivo nelle forze armate (I grafici sono stati generati da FRED - https://fred.stlouisfed.org/)
Forbes ha riportato che nel 2018, l'anno migliore di Trump, furono creati circa 2,31 milioni di posti di lavoro, un numero in realtà inferiore al totale di Obama per ciascuno degli ultimi tre anni della sua presidenza. A seguito dell’emergenza COVID avvenne un crollo che portò, a metà luglio 2019, alla perdita di 7,8 milioni di posti di lavoro a causa dei massicci licenziamenti ma, per onestà, questo avrebbe colpito qualsiasi altra amministrazione.
Quello che emerge dai dati ufficiali forniti è che il ruolo della Amministrazione di Trump sia stato economicamente trascurabile in quanto i trend economici positivi (pre COVID) erano già esistenti e sotto la sua guida rimasero confermati. In altre parole non è realizzato nessun miracolo economico e l’affermazione "the best economy ever" va considerata come un’auto incensazione politica.
Il prodotto interno lordo (PIL) è il valore dei beni e servizi prodotti dall'economia della nazione meno il valore dei beni e dei servizi utilizzati nella produzione. Il PIL è anche uguale alla somma delle spese per consumi personali, degli investimenti interni privati lordi, delle esportazioni nette di beni e servizi e delle spese per consumi pubblici e degli investimenti lordi. I valori reali sono stime corrette per l'inflazione, ovvero stime che escludono gli effetti delle variazioni di prezzo - i grafici sono stati generati da FRED -https://fred.stlouisfed.org/
Politica estera
Analizzare la politica estera di Trump non è semplice; in generale potremmo dire che sia stata caratterizzata spesso da una mancanza di coerenza, cosa che non ha reso facile il rapporto con gli Alleati europei.
Gli aspetti salienti possono essere riassunti:
- ha assunto una forte contrapposizione politica con la Cina, ma non ne ha impedito il dilagare in Africa;
- ha allacciato rapporti diplomatici con paesi governati da alcuni degli autocrati più famosi del mondo, assumendo a volte un rapporto ambiguo e non sempre ottenendone benefici visibili;
- ha provato a ridefinire le relazioni nell'Indo-Pacifico assicurando affari e scambi a vantaggio dell’economia americana;
- ha mobilitato il mondo per esercitare la massima pressione politica per convincere la Corea del Nord ad astenersi dal programma nucleare;
- ha affrontato il comportamento destabilizzante dell'Iran e la minaccia del suo programma nucleare;
- ha incoraggiato la pace arabo-israeliana, ricercando consensi anche nel mondo arabo.
Per quanto riguarda la NATO, Trump ha continuato la politica dei suoi predecessori ma con uno stile talvolta meno gradito agli Alleati. Reiterando le richieste statunitensi al Summit di Praga, ha richiamato con decisione gli Alleati ad un maggiore investimento nelle spese militari, un’azione tra l’altro già in corso, minacciando di abbandonare la NATO.
Conclusioni
Come Marcello Veneziani ha scritto in un suo recente editoriale: “Trump non ha voluto essere un leader globale ma è rimasto saldamente ancorato alla sua America. America first. America alone...”
Con la sua caduta, noi Europei abbiamo perso un’occasione per crescere e per creare una nostra propria visione europea comune, un’occasione che potrebbe non ripetersi con Biden, che rappresenta il politically correct, dei buoni propositi, a volte irrealizzabili, ma che si troverà ad affrontare una situazione di recessione economica gravissima, nel mezzo di una pandemia mondiale, e con equilibri politici complessi che necessiteranno di diplomazia ma anche di una reale capacità di deterrenza, fortemente minata dalle politiche precedenti. Troverà una soluzione? Lo vedremo… per ora gli Stati Uniti sono divisi, forse più di sempre, tra conservatori e progressisti che non potranno non tenere conto dei temi che Trump ha nel bene e nel male sempre sollevato: la salvaguardia della tradizione e dei temi della famiglia, la sovranità nelle scelte nazionali che non può essere cancellata da una visione globalista basata solo sul guadagno e difesa da una cultura politically correct che vuole cancellare l’identità di una nazione che da 70 anni è esempio di libertà e democrazia.
Fa pensare il fatto che, dopo l’assalto al Congresso, i mass media abbiano oscurato Trump, impedendogli comunque un contradditorio. Gli Stati Uniti hanno sempre rappresentato per il mondo intero l’ideale di libertà di espressione ed ora, a pochi giorni dalla nuova presidenza, hanno espresso una cupa atmosfera orwelliana che certo non aiuterà Biden a traghettare gli Stati Uniti fuori da questa crisi, schiacciato da quei poteri transnazionali che Trump, nella sua rudezza e limitata visione, aveva comunque provato a combattere.
Trump è finito ma non il trumpismo. I recenti tragici fatti hanno un significato simbolico molto forte che denota come una parte del popolo americano, normalmente molto più inquadrato di quelli europei, non voglia accettare questo cambio di regime. Fa pensare il fatto che tra i coloriti personaggi fotografati dalla stampa, come lo sciamano con corna di bufalo (i.e. non corna di vichingo come affermano blasonati giornalisti della nostra stampa), vi fossero molti veterani con le loro bandiere. Uomini e donne che hanno combattuto per gli ideali americani in tanti teatri di guerra, e che ora, tornati a casa, trovano un’America diversa, che non riconosce il loro sacrificio, quasi li disprezza. Un’America che non ha lavoro per tutti a causa di quella logica commerciale voluta dalla Globalizzazione che Trump aveva cercato di combattere a suo modo, parlando spesso con la pancia. Un dolore morale che, per molti statunitensi, va oltre quelli fisici sopportati in guerra.
Noi Europei non rimpiangeremo Trump per le sue scelte sull’Ambiente e per la sua ingenua, limitata visione di un mondo in continuo sviluppo. Alcuni dei suoi "errori", che ho brevemente sintetizzato, lo hanno reso antipatico e odiato da molti, anche tra le file del suo stesso partito. Come quando si riferì a McCain, eroe di guerra, purtroppo morto prematuramente, definendolo più volte, in maniera sprezzante, "a loser", un perdente; lo disprezzò anche in occasione dei suoi funerali. Un atteggiamento caparbiamente guascone che nel tempo lo portò a licenziare uomini di grande valore per circondarsi di più comodi "Yes Men". Tra di essi Mattis, pluridecorato generale dei Marines che disse di lui "the first president in my lifetime who does not try to unite the American people, does not even pretend to try. Instead, he tries to divide us".
Forse il problema maggiore di Trump è stato quello di non aver saputo guardare oltre l’orizzonte, concentrato nella salvaguardia di un ideale di vita americano che forse è stato ucciso dalla globalizzazione sostenuta dai suoi predecessori. Certo, a differenza di loro, non ha intrapreso conflitti, anzi li ha evitati, privilegiando una politica di disimpegno nei teatri operativi.
Il 20 gennaio, a meno di sorprese dell’ultimo momento, Trump lascerà la Casa Bianca. Negli ultimi giorni ha dimostrato una mancanza di stile che verrà ricordata anche dai suoi stessi membri di partito. Il suo atto di incitamento per difendere l'indifendibile ha di fatto danneggiato i Repubblicani, che in gran parte si sono distaccati dalle sue ultime affermazioni. Un’occasione persa per i Repubblicani ed una nuova per i Democratici di trasformare gli Stati Uniti così da rispondere alle sfide del III millennio. Ma come?
Biden eredita un’America in ginocchio, con un elettorato diviso in cui esistono fazioni immature e non disponibili al dialogo, con una profonda crisi economica che potrebbe durare per molti anni. Dovrà affrontare un mondo dinamico che è passato in 70 anni da una gestione bipolare ad una multipolare, con potenze emergenti che non hanno intenzione di integrarsi, ma di ottenere una supremazia economica e militare per lo sfruttamento delle risorse energetiche e alimentari.
Saranno in grado gli Stati Uniti di reagire a questa decadenza e tornare di nuovo grandi?
Foto: U.S. Air Force / Gage Skidmore / U.S. Navy / U.S. DoD / presidenza del coniglio dei ministri