Nebbie tunisine

(di Gino Lanzara)
29/07/21

Gli eventi tunisini impongono una serie di riflessioni rapide, ma non per questo meno rilevanti. Il Mediterraneo è un ambito sistemico, e quanto accade a poca distanza dalle coste di uno dei Paesi bagnati dalle sue acque, non può non trovarvi riflesso.

Le primavere arabe, fenomeno politico della prima decade del nuovo secolo, hanno lasciato il posto al normale scorrere di tempo e stagioni; degli afflati che sembravano aver portato, invece, è rimasto poco o nulla, cosa che induce a porsi diverse domande circa la loro originalità e forza autentica, arrivando alla conclusione che i moti rivoluzionari, stagionali o colorati che fossero, non possedevano il pregio della genuinità, e pur scuotendo molte fondamenta politiche, non hanno inciso storicamente come diverse cancellerie occidentali stolidamente immaginavano. La reazione si è sovente concretizzata in un irrigidimento istituzionale, in un ritorno a prassi tipiche di culture sociali e politiche che l’Ovest rifiuta di comprendere.

Il discorso tenuto dal presidente Obama all’Università del Cairo nel 2009, pur attagliandosi perfettamente ad un entusiastico stile dem yankee, non ha propriamente fatto breccia in ambito mediorientale; il tutto per dire che, come la storia recente ha ricordato a furia di bacchettate, Chicago non è Baghdad. Del resto, perché in MO dovrebbe trovare pacifica accettazione l’obbligo politically correct di comprendere idee che in Occidente si ha l’infondata presunzione di poter esportare universalmente? Una presunzione che, a Bengasi, ha illividito proprio Washington, impotente di fronte all’omicidio dell’ambasciatore Chris Stevens.

La rivolta tunisina proietta le sue ragioni dal passato, evidenzia sia gli errori interpretativi commessi nel tempo, specialmente il non aver saputo discernere le differenze socio economiche esistenti tra le varie aree del Paese, sia nell’aver dato modo alle controverse formazioni dell’Islam politico di conquistare spazio. Racheed Ghannouchi, in Tunisia, porta sugli altari Ennahdha, movimento di ispirazione religiosa1 che, sull’onda emotiva obamiana, concretamente impalpabile, viene sdoganato come inseribile all’interno di contesti laici democratici e pluralisti.

L’idea è così perfetta che, nel 2018, i tunisini sono nuovamente in piazza a dimostrare contro carovita, inflazione e disoccupazione; se il FMI bussa alla restituzione dei prestiti reclamando le previste ma mai realizzate riforme, è evidente che qualcosa non abbia ben funzionato. La valuta è debole, le disparità regionali ancor più accentuate, il turismo, voce economica fondamentale, crolla a seguito degli attentati del 2015 al Museo del Bardo ed a Sousse2.

Nel 2018 la Tunisia è come divisa in due, ed i prestiti di Riyadh non coprono il debito contratto con il FMI, accusato di politiche neocoloniali che puntano a ridurre funzione pubblica, spesa e debito aumentando l’I.V.A. e svalutando il dinaro; in un paese importatore netto come la Tunisia, la crisi economica è lacerante, le retribuzioni non compensano i rincari, e nulla di quanto promesso si avvera. Del resto un'economia non si improvvisa, specialmente quando dipende da domanda e capitali esteri; la politica tunisina ha trascurato qualsiasi iniziativa volta a trasformazioni strutturali ed al contrasto della corruzione.

Anche diversi progetti animati dalla comunità internazionale hanno contribuito ad inasprire problemi e disparità socio-economiche del Paese: l'accordo di libero scambio con l'Unione Europea è stato avversato da diverse organizzazioni tunisine dato che avvantaggia i produttori UE, facilitati nell’introdursi sul mercato tunisino senza sottostare ad alcun obbligo redistributivo, mentre lievita l’indebitamento con l’estero.

Nel 2019 il fronte liberale tunisino sta ancora meditando sulla sconfitta maturata alle elezioni politiche e presidenziali; è il simbolo del fallimento delle formazioni liberali, affette da corruzione, nepotismo, clientelismo, malesseri sociali a cui si aggiunge la pandemia, che rivela al mondo le vulnerabilità di un sistema sanitario rapidamente al collasso. I liberal scompaiono, resiste Ennahdha, ispiratrice di un compromesso politico che cerca di opporsi alla presidenza di Kaïs Saïed, giurista e docente universitario, avversario del sistema partitico e fiero critico dell'inefficacia di una democrazia così condotta.

Nel 2020, in un contesto fiaccato da crisi economica e pandemia, cade anche l’esecutivo di Elves Fakhfakh, premier scelto da Saïed ed accusato di conflitto di interessi; sullo sfondo il perdurante attrito tra il presidente ed Ennahdha, il soggetto politico, opportunisticamente buono per tutte le stagioni, sempre presente in qualsiasi esecutivo, ora con Qalb Tounes, partito liberista e populista del magnate Nabil Karoui.

Giunge il momento di Hichem Mechichi, ministro dell’Interno nel gabinetto Fakhfkah e già consigliere legale del capo dello Stato. Le aspettative del 2011, per ben 9 anni, sono state disattese, e la democrazia tunisina, nata dalle ceneri del regime di Ben Ali, si è rivelata incapace di ovviare ai problemi nazionali. Mechichi, come Fakhfakh, è l’effigie di una sorta di governo tecnico non partitico del presidente che, in realtà, punta a fiaccare Ennahdha, sempre più pervasiva anche in politica estera, specialmente per quanto concerne la Libia, aspetto che permette di apprezzare la sempre più marcata confluenza tra Ghannouchi, Qatar e Turchia, cui Saïed nega l’utilizzo del territorio tunisino come avamposto per le attività belliche a favore del GNA di Tripoli.

L’azione dell’esecutivo Mechichi è da subito rallentata dall’assoluta carenza di collaborazione da parte della maggioranza e dalla mancanza di sostegno sociale; nei primi 100 giorni, il governo Mechichi non è stato in grado di approvare alcuna delle proposte di legge presentate in Parlamento, e ha evidenziato la faglia tra le due principali compagini di maggioranza, Ennahdha e Qalb Tounes.

È opportuno rammentare come il dibattito parlamentare si sia progressivamente deteriorato ad opera delle formazioni più estreme, come il Movimento islamista radicale Al Karama, ed il Partito Desturiano Libero, anti islamista e nostalgico dell’ancien regime.

Il rapporto tra Ennahdha ed aspetto securitario è tale da costringere il presidente a garantire l’applicazione imparziale della legge a seguito degli accertamenti esperiti dalla commissione d’inchiesta che, in merito all’omicidio degli oppositori M. Brahmi e S. Belaid nel 2013, accerta responsabilità direttamente a carico della formazione islamista.

Ad oggi, la Tunisia è abbandonata a sé stessa, e si interroga sull’effettiva utilità postuma della sua rivoluzione. Il collasso tunisino è prossimo a generare un’onda critica sospinta da un pericoloso tutti contro tutti e dove, tutti, a cominciare dai magistrati, cercano di ritagliarsi una consistente porzione di benefici, mentre la spaccatura nord-sud si approfondisce, implementando il rischio di creare nuovi elementi radicalizzati.

Presidenza della Repubblica ed esecutivo giungono ai ferri corti a gennaio 2021 quando Mechichi, presentando la lista dei nuovi ministri, si scontra con il mancato avallo di Saïed, che si appella a ragioni di opportunità in merito all’incompatibilità di diversi designati, aprendo di fatto una crisi politico istituzionale: il presidente, assurto alla sua carica con il forte sostegno della parte giovane della società, diventa difensore della costituzione e nemico della corruzione.

Nel frattempo la querelle istituzionale incide sull’economia, il reddito pro capite crolla insieme con gli investimenti, il FMI, che chiede riforme con ottusità contabile che ignora le ricadute socio politiche, non eroga altri prestiti, concessi invece dalla Banca Mondiale: il sonno della rivoluzione genera il mostro jihadista, che va a reclutare adepti tra la generazione cresciuta nella speranza di libertà e benessere; è utile rammentare che la disoccupazione risulta superiore al 15% e che, in alcuni centri, raggiunge picchi del 30% .

Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica, un terzo dei giovani tunisini è disoccupato, mentre un quinto della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà; ad aver peggiorato la situazione economica tunisina si sono aggiunte la pandemia di Coronavirus e la minaccia terroristica, due fenomeni che hanno annichilito un settore vitale, il turismo, che rappresenta circa l’8% del PIL nazionale.

Secondo il FMI la crescita tunisina tornerà al di sotto del 3% almeno fino al 2025, valutazione che ha indotto il governo tunisino, nel corso del 2020, ad impiegare risorse finanziarie aggiuntive che hanno fatto lievitare il deficit di bilancio fino al 14% del PIL, con una crescita del debito pubblico all’85%. Le difficoltà economiche comporteranno un peggioramento del tenore di vita ed un aumento della povertà, che crescerà tra il 7,3 e l’11,9 %.

In questo momento, mentre la Tunisia è ad un passo dal default, Saïed si appoggia alla Francia, Ennahdha alla Turchia, mentre il copione annuncia nuovi eventi fra 30 giorni, alla scadenza dei provvedimenti presidenziali disposti il 25 luglio dopo un vertice con Forze Armate e servizi di sicurezza. Saïed, di fatto, attivando il disposto dell’art. 803 della Costituzione, esautorando Mechichi, sospendendo sia le attività parlamentari che le relative immunità, ha battuto in volata Ennahdha; il tutto mentre il numero dei contagi aumenta, ed al decaduto esecutivo si attribuiscono precise responsabilità in merito alla caotica gestione dell’emergenza caratterizzata dalla mancanza di vaccini, di ossigeno medicale (fornito dalla Libia!), e da oltre 18.000 decessi.

Saïed ha compiuto un colpo di stato, oppure è il protagonista di un disperato tentativo di salvare il salvabile? La scena può essere osservata da entrambe le prospettive, finanche a giungere all’ipotesi della nascita della terza repubblica tunisina. Non c’è dubbio che il presidente, legittimamente attivo dal punto di vista delle competenze costituzionali che lo vedono responsabile dei rapporti di politica estera (particolarmente invisi ad Ennahdha quelli intrattenuti con l’Egitto di Al Sisi, nemico giurato dell’Islam politico)4, abbia assunto i pieni poteri costituzionali, con la promessa sia di colpire la corruzione, il mitico bakshish, sia di nominare un leader di sua fiducia nel rispetto del dettato costituzionale.

Ma chi controlla il controllore? Ed al contempo: chi censura i censori? Di certo non è stata una sua responsabilità il mancato insediamento della Corte Costituzionale, causato dalla lotta tra fazioni politiche, come non è una sua colpa lo stallo politico dovuto alla patologica confusione di un esecutivo marcatamente islamico, con un Parlamento frammentato e condizionato da Ennahdha e penalizzato dall’incomunicabilità con Ghannouchi, nominato alla presidenza parlamentare e giustamente terrorizzato da una possibile tornata elettorale5 che, nelle proiezioni, lo vede in netto calo.

Secondo i più elementari dettami della hot water’s discovery, per ovviare all’impasse costituzionale, invece di addivenire ad un compromesso politico, Ghannouchi ha deciso di ricorrere al classico colpo di genio, presentando in Parlamento un nuovo progetto di legge che modifica le modalità di elezione dei membri della Suprema Corte, abbassando il quorum necessario per confermarne i membri.

Incredibilmente Saïed ha deciso di non collaborare con i suoi antagonisti, rifiutando di firmare il progetto di legge e rinviandolo in Parlamento per una seconda lettura.

Mechichi, accusato di essere alla mercé dei Fratelli Musulmani, si è assunto la responsabilità dello stato di crisi; questo tuttavia non gli ha concesso alcun perdono popolare per aver trasformato la lotta alla pandemia nell’ennesimo attrito tra presidente e Parlamento, cercando poi di riversare la colpa sul ministro della sanità Faouzi Mehdi.

Ennahdha è ormai ai minimi storici, e tenta il rilancio accusando il presidente di colpo di Stato, malgrado buona parte dell’opinione pubblica abbia individuato nella formazione islamista la responsabile della crisi che sta conducendo il Paese alla guerra civile, ben sapendo che il dominus terzo rimane Erdoğan, per il quale Ennahdha costituisce elemento fondamentale per la sua espansione nordafricana, specialmente ora che la situazione libica si è messa politicamente in moto e lascia presagire possibili sorprese elettorali decembrine, con il ritorno sulle scene del revanscismo gheddafiano: il Mavi Vatan6 turco continua ad avere bisogno di piattaforme continentali che consentano la proiezione nel MENA nel segno della Fratellanza Musulmana.

Da notare come Parigi, che ha ricevuto Saïed a metà maggio, poco prima dell’attivazione dell’art. 80, con il bollettino n. 21 del gruppo Credit Agricole, auspicasse per il Paese uno shock salutare per evitare un default in modo da permettere l’apertura di sette nuove linee di cooperazione economica con la Tunisia.

La decisione di Saïed, appoggiata da ampi strati della popolazione, apre a scenari instabili; al momento non si possono escludere né un aggravamento delle proteste con scontri violenti che costringerebbero i militari ad assumere il controllo diretto della situazione, né la nomina di un nuovo premier, né la possibilità di addivenire ad un’ipotesi di compromesso istituzionale, la soluzione più saggia e dunque più improbabile. Nel frattempo, Saïed ha ribadito anche ad Anthony Blinken7 l’impegno a rispettare la legittimità istituzionale.

Ma contro cosa combatte il presidente? La lotta politica ha condotto ad un’estremizzazione tra elementi radicali e nostalgici, cosa che ha ridotto al minimo la partecipazione delle elite politico culturali. Ennahdha, per cercare di rafforzare un’immagine egemonica islamista, pur di sopravvivere, ha composto una coalizione con formazioni non confessionali, e forte della legittimazione elettorale del 2011, ha ridotto al silenzio qualsiasi espressione di dissenso, tollerando espressioni radicali islamiste ed i loro portavoce più estremisti, come l’egiziano Wajdi Ghoneim, il kuwaitiano Nabil Al-Awadi,, il partito salafita Ettahir, che propone l’instaurazione di un Califfato, il movimento Ansar Al-Sharia affiliato ad Al Qaeda. Secondo una prassi politica universalmente consolidata, intuìto l’esaurimento della legittimità elettorale, Ennahdha decide di riavvicinarsi ai vecchi nemici, i desturiani, optando per la strategia del consenso: è lotta per la sopravvivenza, è partecipazione al potere evitando i proiettili destinati alla prima linea.

Nel 2019 Ennahdha paga la sua ambiguità politica perdendo peso elettorale: essere partito di lotta e di governo non rende, specie con un presidente avulso dai giochi di potere e poco versato per i compromessi ambigui. Non può non esserci attrito tra un elemento coerentemente estraneo alla politica, e chi sulla sollevazione delle masse per brevi periodi ha fondato le sue fortune; del resto, dopo 10 anni di potere, è così astruso ritenere che qualsiasi partito non abbia messo radici e piazzato esponenti nei punti nodali? La demagogia non ha confini: se da un lato, pur forti di insuccessi e fallimenti ormai decennali, si ricorre al richiamo della leggenda rivoluzionaria, dall’altro si erge pragmaticamente un docente di diritto che non può che prendere atto del dramma civile che sta per consumarsi, tra adunate oceaniche e povertà incipiente.

Che i media occidentali abbiano semplificato marchianamente il caso tunisino è evidente, non fosse altro per la mancata stigmatizzazione della frequenza degli esecutivi che si sono avvicendati alla guida di un Paese che ha visto la contrapposizione di EAU – Arabia Saudita e Qatar.

Se si deve muovere un appunto al presidente, questo riguarda l’impronta neutralista che non tiene presenti i bisogni strategici di un Paese fortemente dipendente dall’estero, e che con Maghreb, l’Algeria del pouvoir8 proiettata nel Mediterraneo e supportata dalla Russia, e Libia, deve, necessariamente, mantenere un rapporto costruttivo, a meno che non intenda gettarsi nel soffocante abbraccio cinese, osteggiato da USA e Francia.

Le critiche mosse da parte di alcuni settori del mondo politico internazionale, asetticamente risentono di una carenza di analisi e di un trasporto ideologico che, fideisticamente, assegna ricompense e punizioni; che poi la critica liberal istituzionale provenga da Ankara, chiamatasi direttamente in causa nelle questioni tunisine, costituisce cartina di tornasole inversa. In effetti, il primo Paese consapevolmente interessato all’evoluzione delle vicende tunisine è proprio l’Italia; separata da un breve braccio di mare, Tunisi è sempre stata presente nelle vicende politiche peninsulari più o meno recenti; anche l’idea di un vero colpo di stato, secondo le accezioni di Malaparte e Luttwak9, dopo una valutazione più approfondita, al momento, non trova fondamenti: gridare all’autoritarismo nelle condizioni in cui versa il profondo caos tunisino appare privo di senso, anche alla luce del fatto che voler esprimere giudizi senza aver mai davvero seguito lo svolgimento degli avvenimenti denota una discreta dose di pressapochismo.

Di certo l’Italia, su quello sperone africano è ben rammentata, sia come destinazione migratoria massiva, sia per la vicenda dei rifiuti10 trasferiti dalla Campania, scoperta a fine estate 2020, dopo aver violato diverse convenzioni internazionali.

Macron ed Erdogan hanno compreso quali saranno le conseguenze dell’evoluzione degli eventi tunisini sugli assetti nordafricani, specialmente sul versante libico; l’Italia è politicamente distante, e malgrado sia il soggetto politico destinato a scontarne lo scotto maggiore, ancora deve mettere a sistema le possibili conseguenze di un non escluso collasso istituzionale tunisino.

In un contesto politico parcellizzato, il popolo tunisino, la cui componente portante risiede sempre più nella parte femminile, sta palesando disillusione e diffidenza nei confronti di una classe dirigente incapace di contenere il costante declino, e che sta portando ad indirizzare il prossimo voto verso gruppi populisti ed oltranzisti.

1 Partito che si ispira all’AKP turco ed alla Fratellanza Musulmana

2 Il 26 giugno del 2015 un commando jihadista semina il panico in un resort del golfo di Hammamet sparando sui bagnanti: il bilancio riporta 38 morti e decine di feriti

3 in caso di pericolo imminente che minacci le istituzioni della Nazione e la sicurezza e indipendenza del paese e ostacoli il regolare funzionamento dei pubblici poteri, il presidente della Repubblica può adottare le misure richieste da tale situazione eccezionale

4 Il presidente sui rapporti internazionali ha competenza esclusiva; il 17 marzo si è recato in Libia, primo capo di stato straniero in visita dall’insediamento del nuovo governo; Il 5 aprile ha ricevuto presso il palazzo di Cartagine il presidente del Consiglio europeo. Nel corso della medesima giornata Saied ha anche ricevuto il segretario generale della Lega araba. Il 10 aprile si è recato al Cairo, dove ha incontrato il presidente egiziano al-Sisi schierandosi senza mezzi termini a fianco dell’Egitto nella disputa in corso tra il paese arabo e l’Etiopia in merito alla costruzione della diga Gerd (Grand Ethiopian Renaissance Dam) sul Nilo. Il presidente Saied ha dichiarato che la realizzazione della diga è questione di sicurezza nazionale araba, e che la posizione del Cairo sarà anche quella di Tunisi.

5 Gli islamisti di Ghannouchi, avrebbero tutto da perdere in caso di ritorno alle urne: l’ultimo sondaggio vede Ennahda fermarsi al 21,9 %, superata dal Partito destouriano libero (35,8%), fronte anti-islamista e nostalgico di Ben Ali guidato dall’avvocatessa Abir Moussi.

6 Patria blu

7 Segretario di Stato degli USA

8 Apparato politico militare

9 Curzio Malaparte, Tecnica del colpo di Stato; Edward Luttwak, Strategia del colpo di Stato, manuale pratico

10 300 tonnellate di rifiuti classificati come “civili”