Operazione Lemming: suicidio russo?

(di David Rossi)
26/04/22

I "lemming" - per chi non lo sapesse - sono piccoli roditori artici che migrano in gruppi numerosi attraverso la tundra: spesso gli errori di orientamento di chi sta in testa e/o la pressione degli altri individui causano la caduta dell’intero gruppo in corsi d'acqua, dirupi, ecc. dando l’impressione di un "suicidio collettivo".

Questa, come andremo a vedere, è la descrizione di quello che sta succedendo alla Russia dal 24 febbraio scorso.

Il fallimento della guerra lampo

Gli strateghi del Cremlino avevano un piano ben preciso per le prime 24 ore:

  1. annientare le forze aeree, antiaeree e antimissilistiche dell’Ucraina con un attacco massiccio dal cielo;

  2. prendere con un rapido blitz delle forze speciali - eventualmente, con i migliori uomini di Kadyrov come back-up option - l’aeroporto Antonov a Nord della Capitale;

  3. iniziare l’invasione da Est e da Sud anche grazie allo sminamento delle vie di comunicazione terrestri fatto dalla quinta colonna all’interno delle forze armate e dell’amministrazione ucraina;

  4. catturare il presidente Volodymyr Zelenski e la maggior parte dei ministri durante il tentativo di fuga da Kiev per ucciderli o processarli in Russia (la seconda cosa non escludeva la prima);

  5. annunciare al mondo la fine del regime “nazista” ucraino.

Poi, nelle 24-96 ore successive, avrebbero dovuto, come una cascata di conseguenze logiche, innescarsi i seguenti eventi:

  1. L’aeroporto Antonov avrebbe funzionato come un hub per far transitare truppe e mezzi verso la capitale e l’interno dell’Ucraina;

  2. il deposto ex leader Yanukovych, dal 2014 custodito da Putin, sarebbe stato trasportato a Kiev, avrebbe formalizzato la presa del potere per poi accomodarsi dalle parti dello stesso aeroporto Antonov in attesa dell’effettiva occupazione della capitale da parte delle forze russe, con la contemporanea fuga di quasi metà della popolazione verso Ovest, travolgendo la parte più antirussa dell’Ucraina con una massa umana incontrollabile e per questo mettendola in preda al caos;

  3. attraverso la Crimea, il Donbass e l’oblast di Belogorod, le forze russe sarebbero avanzate verso l’interno del Paese, mentre le forze armate ucraine – private della difesa aerea e spesso anche di buona parte dei vertici e degli effettivi per diserzioni o semplicemente perché sarebbero passati con i Russi – sarebbero ripiegate a Ovest del Dnipro, martellate senza sosta e sterminate dai Russi, padroni dei cieli sopra il Paese;

  4. Odessa, Kharkiv, Sumy, Zaporizia e molte altre città dell’Ucraina centro-meridionale e orientale si sarebbero consegnate quasi senza combattere;

  5. spiazzati dalla rapidità e dall’efficienza dell’azione russa, gli occidentali non avrebbero avuto tempo di fare niente, salvo cercare di rallentare il flusso di rifugiati, né più né meno di quanto aveva fatto la Polonia con i clandestini dalla Bielorussia;

  6. l’Ucraina occidentale si sarebbe riempita rapidamente di una decina di milioni di rifugiati e avrebbe accolto l’arrivo dei resti dell’esercito ucraino, incapace di qualsiasi operazione bellica e di resistenza.

Come ben sapete, a parte lo sminamento di alcune strade lungo i confini, ai Russi è andato tutto male: Inefficacia degli attacchi dal cielo, lentezza dei mezzi a terra, errori grossolani nelle comunicazioni, pianificazione completamente sbagliata ecc. Così, è sparito dai riflettori il ministro Shoigu ed è diventato missing person il capo di stato maggiore interforze Valery Gerasimov, mentre il controllo effettivo è passato nelle mani del Cremlino.

Il fallimento della guerra barbarica

È cominciata così una nuova fase della guerra, durata grossomodo dal 27 febbraio, quando Shoigu e Gerasimov sono stati costretti ad ascoltare con gli occhi sgranati Putin stesso minacciare l’uso di armi nucleari, fino al 9 aprile, quando Dvornikov (foto) è stato nominato coordinatore unico della così detta “operazione militare speciale”. È stata una storia già vista a Grozni e Aleppo, ogni qualvolta i gruppi tattici di battaglione della Russia sono entrati in crisi di fronte alla guerra urbana. Possiamo riassumere questa fase seguendone lo svolgimento sul lunghissimo fronte, da Odessa fino a Kiev, più di 2.000 chilometri contro i quali il Cremlino ha scagliato circa 200.000 uomini.

Sul fronte meridionale, esteso quanto l’intero Nord Italia - da Odessa fino all’oblast di Zaporizia -, dopo la rapida marcia dalla Crimea verso Kherson, Melitopol e Enerhodar nelle prime due settimane, l’avanzata delle forze russe si è interrotta bruscamente, per una serie di ragioni, riassumibili in tre principali: crisi della catena logistica e dei rifornimenti, resistenza civile e clandestina della popolazione locale e limiti strutturali delle forze russe schierate. È stato portato avanti con successo solo il blocco navale, senza riuscire mai a impensierire gli Ucraini col pericolo concreto di uno sbarco: l’attacco a Berdiansk ha sollevato seri dubbi sullo strumento bellico navale e sul controllo dei cieli da parte dei Russi. I generali hanno spesso gestito la loro porzioncina di fronte come dei warlords litigiosi e scoordinati. La popolazione civile ha sofferto rapimenti, violenze e minacce, ma non ha mai mollato, spesso - come a Energodar - frapponendosi fisicamente fra gli attaccanti russi e i loro obiettivi.

Sul fronte del bacino del Don, i Russi sono riusciti a penetrare a Mariupol, ma non hanno mai veramente controllato il territorio attorno e all’interno della città, mentre dal lato di Luhans’k e Donetsk le milizie delle autoproclamate repubbliche popolari hanno continuato a confrontarsi con le forze migliori di Kiev come da otto anni a questa parte, senza significativi guadagni territoriali. Nell’area di Mariupol molto probabilmente la Russia ha avuto un terzo delle perdite patite nel corso dell’intera guerra, con una mortalità fra i vertici delle forze armate senza uguali nella storia moderna e contemporanea dell’Europa. L’aver sventrato la città di Maria provocando perdite enormi fra i civili non è servito ad avvicinare la vittoria, ma ha dimostrato al mondo l’estrema brutalità e lo spregio per la vita umana dei leader politici e militari russi.

Sul fronte nord-orientale, fra Kharkiv e Sumy, i Russi sono riusciti solo occasionalmente a penetrare nelle città, venendone sempre respinti. Dopo meno di un mese di guerra, le truppe di Mosca hanno dovuto ritirarsi da questo fronte dopo inutili e dispendiosi tentativi di convincere le popolazioni locali - lo ricordiamo: in maggioranza russofona - ad arrendersi e farsi “denazificare”.

Sul fronte settentrionale, fra Chernihiv e Kiev, i Russi sono passati da disastro in disastro, facendo facilmente annientare le loro forze migliori e trasformandosi da sedicenti “liberatori” in razziatori, stupratori e torturatori che per decenni verranno braccati dalla giustizia internazionale per chieder conto dello sterminio del 10, forse 20% delle popolazioni residenti nei centri abitati da loro occupati e delle migliaia di mine antiuomo lasciate per colpire i civili negli anni avvenire. L’aver abbandonato sul campo ottimi sistemi d’arma oltre alle prove del regno del terrore instaurato in centri come Bucha e Irpin pare causato più dalla sciatteria e dal disordine che da un preciso intento politico e comunicativo. La fuga da questo fronte e le violenze esercitate resteranno fra le più grandi vergogne della storia militare russa per i secoli futuri.

Il (prossimo) fallimento del piano di guerra rattoppato

La così detta “grande offensiva” sul fronte orientale e centro-orientale è partita col piede sbagliato: l’affondamento del Moskva e l’attacco al centro comando sul fronte di Kherson sono segnali di una crisi dello strumento militare russo che certamente non sarà riparata dalla nomina del generale Dornikov a comandante unico. Quello che molti commentatori definiscono “boia” di Aleppo ha imposto alcuni cambiamenti:

  1. invece che disperdere gli attacchi missilistici su un territorio vasto quanto la Francia, una parte delle testate devono colpire la rete ferroviaria e il sistema industriale posti in tutta l’Ucraina e utili ai rifornimenti delle forze armate di Kiev;

  2. si deve concentrare una forza imponente lungo il fronte Kharkiv-Mariupol, per stritolare le forze ucraine poste a presidio dell’ex capitale e soprattutto del bacino del Don;

  3. non si devono allentare le pressioni su obiettivi strategici come le città industriali poste sul medio corso del Dnipro (Zaporizia, Dnipropetrovsk ecc.);

  4. una forza importante non deve più essere impiegata per stanare il reggimento Azov e le forze di fanteria della marina ucraina asserragliati nella fortezza dell’Azovstal;

  5. non si deve rinunciare ufficialmente all’obiettivo di conquistare una fascia di territorio ucraino compresa fra Nistro, medio-basso Dnipro e Don, da Odessa fino a Kharkiv.

Ebbene, come casematte mal messe, questi obiettivi non potranno essere raggiunti per i motivi che in estrema sintesi vi spieghiamo:

  1. senza il dominio dell’aria che lo impedisca, la rete ferroviaria può essere riparata in poche ore: spesso Kiev, dopo un attacco, si limita a informare che ci sarà un ritardo di una o due ore;

  2. il fronte fra le postazioni russe a nord di Kharkiv e Mariupol, passando per Severodonetsk, secondo una stima realistica misura poco meno del fronte occidentale nelle guerre franco-germaniche, vale a dire 500-600 chilometri, comprese le rientranze e le sacche: per avere la meglio sugli Ucraini, che si difendono da posizioni migliori, i Russi dovrebbero schierare lungo questa linea più del triplo delle forze a disposizione di Kiev, che stimiamo in 60-80 mila uomini, vale a dire più di quanti ne abbiano in tutta l’Ucraina;

  3. non ci sono uomini e mezzi, né una logistica efficiente, per prendere queste città, all’interno delle quali - è bene ricordarlo - si trovano impianti-fortezza paragonabili all’Azovstal di Mariupol;

  4. è lecito dubitare che Mosca abbia il controllo del territorio attorno e dentro Mariupol stessa: rifornimenti militari e alimentari possono e potranno arrivare ai resistenti - attraverso canali di cui né Kiev né Mosca amano parlare - ancora di più, se una parte delle forze russe poste a martello sull’Azovstal verranno dirottate altrove;

  5. il fronte sud-occidentale è da tempo un punto interrogativo: le perdite russe per tenere l’aeroporto di Kherson hanno trasformato quel luogo in un buco nero per Mosca paragonabile allo stesso Azovstal.

Aggiungiamo anche che in questa fase Mosca incontra enormi difficoltà anche nel gestire i flussi delle popolazioni locali ucraine:

  1. ha interesse a svuotare le città, per poterle gestire meglio ed eventualmente sfruttarle per migliorare - nel medio-lungo periodo, intendiamoci - la logistica,

  2. ha creato un sistema di leggi e di accordi interni alla Federazione russa per spostare agevolmente, in barba alla convenzione di Ginevra, le popolazioni dei territori occupati, compreso un accordo con la Chiesa ortodossa russa per la “russificazione” dei deportati ma per adesso è riuscita a muovere solo poche decine di migliaia di persone dato che detto progetto non trasuda certo di efficienza,

  3. dove la popolazione esprime moti di rifiuto o di rivolta, come a Kherson o Melitopol, la quantità di truppe presenti e la possibilità di controffensive ucraine rendono problematico il trasferimento di masse di cittadini ucraini in Russia o comunque il mantenimento dell’ordine.

Per questo, ci azzardiamo a prevedere che verso la fine di maggio, una volta perso il 10-20% degli uomini e dei mezzi schierati per questa nuova “grande offensiva”, il Cremlino deciderà di passare a una nuova fase, anche perché in quel momento sorgerà la questione dell’adesione della Svezia e della Finlandia alla NATO.

Il salto del lemming: la sfida alla NATO

Premettiamo un fatto: fino al 23 febbraio scorso, l’opinione pubblica finlandese era contraria all’adesione alla NATO, che adesso viene vista con estremo favore dalla maggioranza dei cittadini. Quindi, adesso come in passato, gli errori (e nel caso di Mariupol, gli orrori) di Mosca hanno determinato quella che per il Cremlino è il tentativo di soffocamento della Russia da parte degli occidentali: anche alla luce delle recenti minacce profferte da Putin e da altri esponenti dell’establishment russo, non si vede come mai la Russia non dovrebbe passare all’azione. Polonia, Baltici, Finlandia, Slovacchia, Cechia e Svezia: manca solo la Turchia per avere la lista completa dei Paesi dell’Europa nord-orientale e meridionale con cui Mosca ha da secoli conti in sospeso e che percepiscono la Russia come un potenziale pericolo.

Parlavamo di sospetti, conti aperti e antichi rancori. Ecco da quanto questi Paesi non hanno una guerra guerreggiata con Mosca:

  • la Svezia dal 1809, al termine della Guerra di Finlandia: Stoccolma proclamò la politica di neutralità tre anni dopo, nel 1812;

  • la Polonia dall’invasione sovietica nel 1939, con la presenza di truppe di Mosca sul territorio polacco fino al 1989;

  • i Baltici dal 1939, con l’incorporazione nell’Unione sovietica durata fino al 1991;

  • la Finlandia dal 1944, con la neutralità proclamata nel 1955 e un rapporto stretto con l’URSS durato fino al crollo dell’impero sovietico;

  • la Cechia e la Slovacchia dall’invasione sovietica nel 1968, avendo fatto parte - come Cecoslovacchia - del Patto di Varsavia fino al 1989.

Sì, avrete notato che è la lista dei Paesi europei più attivi nell’aiutare l’Ucraina. Riteniamo probabile che il Cremlino, allo scopo di giustificare una mobilitazione generale, per ostacolare un nuovo allargamento della NATO e per bloccare l’afflusso di armi ai resistenti ucraini non esiterà ad attaccare uno o più di questi Paesi, pensando che i Paesi più dipendenti dal gas russo -Germania, Italia e la stessa Finlandia - bloccheranno l’applicazione di misure militari dirette di tutta l’organizzazione del Patto Atlantico contro Mosca. Ecco, allora vedremo il culmine dell’Operazione Lemming: trascinati dai propri leader e spinti dai rancori popolari, i Russi si getteranno a capofitto nella Grande Guerra verso cui si sono proiettati fino ad oggi e che il Cremlino, bontà sua, conta di limitare come estensione, pur non escludendo affatto l’uso di armi nucleari.

Ci fa paura il fatto che fino ad oggi, come ogni dittatore che si rispetti, Putin abbia mentito su tutto tranne che sulle minacce: ha sempre fatto quello che ha minacciato di fare.

Foto: Encyclopædia Britannica / Twitter