A gennaio di quest'anno, con l'aggravarsi della crisi ucraina, avevamo scritto un'analisi intitolata “Sciame di Fuoco” nella quale esploravamo la possibilità, poi drammaticamente concretizzatasi, che la Russia decidesse di risolvere alla radice la questione ucraina invadendo apertamente il suo vicino. Oggi, nel quasi assoluto silenzio tanto delle cancellerie mondiali quanto dei principali media e dell'opinione pubblica in generale, da luglio, nel cuore dei Balcani, si sta consumando tra la Serbia ed il Kosovo una grave crisi politico-militare che, a 21 anni di distanza dalla fine delle guerre di disintegrazione della Yugoslavia, rischia di far precipitare nuovamente l'area in una drammatica guerra generalizzata.
La miccia dell'ennesima crisi tra Belgrado e Pristina è stata l'annuncio da parte delle autorità della seconda della imminente fine della moratoria di 11 anni di validità dei documenti degli autoveicoli degli abitanti di etnia serba della autoproclamata Repubblica del Kosovo. Tali documenti infatti furono emessi in Serbia e per lungo tempo hanno costituito un elemento del contendere tra le leadership di Belgrado e Pristina perché i leader politici della maggioranza etnica albanese (che costituiscono inoltre la classe politica dirigente della autoproclamata repubblica) li considerano degli strumenti del nemico per mantenere divisa e frammentata la società kosovara. Dall'altra parte, Belgrado accusa gli albanesi del Kosovo di voler portare avanti una subdola politica di “snazionalizzazione” nei confronti delle minoranze non albanesi (in special modo contro i serbi) presenti sul territorio dell'autoproclamata repubblica, la quale è invece nota in Serbia come “Provincia Autonoma di Kosovo e Metohija”.
Qui è necessario aprire una breve parentesi “geografica” perché quello che agli “occidentali” è noto semplicemente con il nome di “Kosovo” è in realtà l'unione di tre territori diversi. Nella zona settentrionale vi è il cosiddetto “Kosovo del Nord”, comprendente le municipalità di Leposavić, Zvečan, Zubin Potok e la parte settentrionale della città di Kosovska Mitrovica. Quest'area, estesa su poco più di mille chilometri quadrati e che, tra l'altro, comprende lo strategico complesso delle miniere di Trepča, ricche di piombo, zinco, argento, oro ed almeno una sessantina di altri minerali di tutti i tipi, è saldamente nella mani della minoranza serba, che qui vi costituisce la maggioranza assoluta.
Il Kosovo del Nord rappresenta la parte più recente delle “acquisizioni territoriali kosovare” essendo stato unificato al resto della provincia solamente nel “Secondo Dopoguerra” su iniziativa di Petar Stambolić, a lungo nome di peso nella gerarchia della sezione serba della Lega dei Comunisti Yugoslavi ed egli stesso presidente della Yugoslavia tra il 1982 ed il 1983. La ragione principale che portò Stambolić a premere per l'unificazione dei territori del Kosovo del Nord con il “resto del Kosovo” fu quella di rafforzare la sua base elettorale nel territorio e dare maggior rilevanza alla comunità serba del Kosovo facendone aumentare i numeri complessivi.
Il resto dell'area è divisa in due zone speculari e di dimensioni simili, una situata ad est, verso la Serbia meridionale, e l'altra situata ad ovest, verso l'Albania settentrionale, gravitanti rispettivamente attorno a Pristina (il centro abitato più importante della regione) e attorno all'asse Peć-Dečani-Đakovica-Prizren. La prima delle due aree (quella gravitante attorno a Pristina) è il “Kosovo” propriamente detto, mentre la seconda (quella gravitante attorno a Peć-Dečani-Đakovica-Prizren) è invece la “Metohija”.
Detto questo, la presente analisi non ha come oggetto la descrizione completa degli eventi che portarono alla Guerra del Kosovo del 1999, le rivendicazioni territoriali che oppongono i serbi e gli albanesi e la complicatissima storia demografica di questo martoriato territorio (la cui minuziosa ricostruzione ha creato seri problemi persino al sottoscritto!) perciò da ora in poi parleremo solamente della situazione di scontro geopolitico che l'area balcanica ha ereditato all'indomani dell'intervento della NATO che ha di fatto sottratto la provincia al controllo della Serbia (allora facente parte della ridotta “Repubblica Federale di Yugoslavia”) e ne ha poi favorito la cosiddetta “Dichiarazione Unilaterale di Indipendenza” del 2008.
È importante sottolineare che la Dichiarazione Unilaterale di Indipendenza del 2008 non ha portato ad una composizione finale del conflitto ed anzi ha ancora di più irrigidito le parti su posizioni sempre più intransigenti ed oramai sostanzialmente inconciliabili. Gli eventi della Guerra Russo-Ucraina hanno poi contribuito a far ulteriormente precipitare la situazione perché, temendo per la sicurezza e l'integrità territoriale della loro autoproclamata “repubblica”, i leader albanesi kosovari, in primis il primo ministro Albin Kurti, uomo noto per le sue posizioni nazionaliste e per niente conciliante nei confronti dei serbi che, anche alla luce del suo doloroso passato in prima persona, egli considera come “nemici personali”, hanno annunciato di voler premere l'acceleratore su tutta una serie di delicatissimi dossier quali: l'accessione del Kosovo alla NATO, l'accessione del Kosovo all'Unione Europea e la creazione di vere e proprie Forze Armate in piena regola rilanciando contestualmente una serie di slogan politici (non si capisce se ad uso politico interno o con vera e propria finalità programmatica) come l'unificazione di Albania e Kosovo in una “Grande Albania”, l'indivisibilità e l'integrità territoriale della Repubblica del Kosovo (quindi rifiutando in principio la “spartizione” più volte avanzata da numerosi mediatori internazionali, ma anche da altri leader politici albanesi, come “il male minore”) e l'assorbimento dei territori della Serbia meridionale a maggioranza albanese (le ormai famigerate municipalità di Preševo, Bujanovac e Medveđa) in un grande stato albanese monoetnico.
Naturalmente sarebbe sbagliato attribuire al premier albanese kosovaro tutta la responsabilità di quanto sta avvenendo, dato che lo stesso presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (nella foto, quello a sx), e gran parte della leadership politica del suo partito (lo SNS, il “Partito Progressista Serbo”) hanno tenuto una condotta assai ondivaga ed irregolare sulla questione kosovara per gran parte del passato decennio, a volte avanzando proposte utili ad uscire dall'impasse e a volte minacciando azioni militari nei confronti della “provincia secessionista”, cercando contestualmente di lavorare per isolarla diplomaticamente, non senza qualche successo. Infatti allo attuale, su 193 membri delle Nazioni Unite, complessivamente in 97 (pari al 50,26%) hanno riconosciuto il Kosovo come “stato” mentre i restanti no, e persino all'interno delle due grandi entità sponsor dell'autoproclamata repubblica, cioè la NATO e l'Unione Europea, non esiste unanimità di vedute dato che Cipro, Grecia, Slovacchia, Romania e, soprattutto, Spagna, a tutt'oggi non riconoscono la dignità di “stato” alla ex-provincia serba temendo come fumo negli occhi le conseguenze che il “modello Kosovo” avrebbe sulle rispettive integrità nazionali. Ecco quindi che l'esasperazione dei contendenti, trascinatasi nel tempo, ha prodotto un “muro-contro-muro” che ora gli eventi esterni (la già citata Guerra Russo-Ucraina) stanno facendo precipitare, ed anche molto velocemente.
A questo punto dobbiamo chiederci, esattamente come facemmo nel periodo precedente allo scoppio della Guerra Russo-Ucraina: se veramente abbiamo raggiunto il fatidico “punto di non ritorno”, quali opzioni ha Belgrado per risolvere “manu militari” la “questione kosovara”? E quali possibilità ha Pristina di resistere?
Per prima cosa è necessario puntualizzare che, nonostante i progressi economici registrati dalla Serbia negli ultimi anni (e che le hanno valso l'appellativo di “Tigre dei Balcani”) da un lato, ed i tentativi da parte dei partner internazionali e di una parte della leadership albanese kosovara di scuote il territorio della autoproclamata Repubblica del Kosovo dalla sua condizione di “hub della criminalità in Europa” dall'altro, la per ora ipotetica “Seconda Guerra del Kosovo” opporrebbe due tra i più poveri paesi del continente europeo, per altro caratterizzati da pesanti contrazioni demografiche. I dati da questo punto di vista sono impietosi: secondo quanto riportato dal Fondo Monetario Internazionale relativamente al presente anno 2022, il PIL pro-capite a parità di potere d'acquisto dei cittadini della Serbia equivale a 23.904 dollari l'anno mentre quello dei cittadini del Kosovo non supera i 13.964 dollari.
Demograficamente parlando, la Serbia raggiunse il momento di massima espansione numerica nel 1990 quando aveva una popolazione di 7.897.937 abitanti (escluso il Kosovo) ma nel 2021 essa si era ridotta a 6.834.326 (un calo del 13,5%). Il Kosovo, per parte sua, raggiunse la massima espansione demografica nel 1997 con 2.188.083 abitanti, ma nel 2021 essi erano diventati 1.786.079 (un calo del 18,5%).
Senza tanti giri di parole, ci troviamo di fronte a due nuovi “casi Ucraina”: tanto la Serbia quanto il Kosovo sono “sistemi-paese” semplicemente insostenibili nel lungo periodo e che si dirigono ad ampie falcate verso il fallimento generalizzato (nel caso della Serbia, ampiamente probabile, in quello del Kosovo, semplicemente inevitabile).
Ecco quindi che si concretizza una situazione nella quale le leadership politiche dei due paesi possono trovare nella guerra un'utilissima via d'uscita “a costo zero” anziché imbarcarsi in un doloroso quanto impopolare processo di riforma e riassettamento delle rispettive compagini statali al fine di dare una speranza ed un futuro ai loro popoli. Si badi bene, però, che questo è un ragionamento a valenza universale, e non limitato solamente alla contesa Kosovo-Serbia; laddove leader inetti reggono le sorti dei paesi, la guerra sarà sempre una prospettiva facile ed allettante per sviare lo scrutinio delle masse rispetto al proprio operato.
Ciò detto, allo stato attuale delle cose, una comparazione militare tra Serbia e Kosovo è semplicemente improponibile dato che, come già affermato in una precedente analisi, alla luce dei numeri e della corsa agli armamenti degli ultimi anni, la Serbia detiene un potenziale militare che al momento equivale alla somma di quelli di Kosovo, Albania, Montenegro, Macedonia del Nord e Bosnia-Herzegovina messi insieme.
Le Forze di Sicurezza Kosovare contano 5000 uomini in servizio attivo e 3000 riservisti, potendo essere all'uopo rincalzate dai 10.000 uomini della Polizia Kosovara. Sia le Forze di Sicurezza Kosovare che la Polizia Kosovara sono completamente prive di una componente aerea e d'artiglieria e hanno pochi mezzi non adatti ad una difesa di natura convenzionale. Per essere brutali, se noi facciamo la somma degli organici noti solo delle 5 unità che compongono la comunità delle forze speciali e d'élite della Forze Armate e delle Forze di Polizia della Repubblica di Serbia, otteniamo la cifra (approssimata probabilmente per difetto) di 5600 effettivi, che è maggiore numericamente della componente attiva delle Forze di Sicurezza Kosovare!
A livello più generale, l'iniziativa di un attacco serbo al Kosovo ricadrebbe sulle spalle delle Forze Armate Serbe, rincalzate dalle Forze del Ministero degli Affari Interni, le quali avrebbero un importante ruolo di appoggio dato che sia all'epoca della Repubblica Socialista Federale di Yugoslavia che a quella della Repubblica Federale di Yugoslavia, queste ultime erano strutturate non solamente per combattere il crimine (classico ruolo di polizia) ma anche per integrare la Forze Armate in missioni di contro-guerriglia o difesa convenzionale del territorio nazionale (come è infatti avvenuto nel corso delle guerre di disintegrazione della Yugoslavia, in particolare nella Guerra del Kosovo).
Un ulteriore elemento utilizzabile da Belgrado per una simile operazione, al di là del suo braccio armato vero e proprio, è costituito dalla piccola ma determinata comunità serba del Kosovo. Composta da circa 125.000 anime, ultimi sopravvissuti ed eredi di una tradizione antica di 800 anni ed oggi perennemente esposti agli umori ed alle angherie della maggioranza albanese che, in parte a causa delle vicende del passato, ed in parte a causa della retorica niente affatto conciliante utilizzata dalla leadership politica di Pristina, ha un atteggiamento apertamente ostile nei loro confronti, la comunità dei serbi kosovari non ha mai rinunciato né alla sua identità né alla prospettiva di un ritorno della sovranità serba sul Kosovo nonostante le ferree leggi della demografia non lascino praticamente scampo (nel migliore dei casi i serbi costituiscono un mero 7% della popolazione del territorio).
Dal punto di vista della distribuzione, i serbi kosovari risiedono per circa 1/3 nei territori del già citato Kosovo del Nord e per i restanti 2/3 in una serie di comunità sparse a macchia di leopardo su tutto il territorio del Kosovo e raggruppate in gran parte attorno alle municipalità di Štrpce, Gračanica, Novo Brdo, Ranilug, Klokot e Parteš, tutte situate in aree alquanto strategiche ed ideali per organizzare operazioni difensive anche contro forze numericamente preponderanti.
In merito alla fedeltà dei serbi kosovari alla Repubblica del Kosovo non bisogna farsi alcun tipo di illusione: essa semplicemente non esiste. Qualsiasi scenario relativo ad una nuova guerra in Kosovo deve partire dall'assunto che i serbi kosovari si solleveranno in massa a sostegno del tentativo di riconquista serbo ed allo stesso tempo gli albanesi coglieranno decisamente la palla al balzo per sfruttare l'irripetibile occasione di ripulire etnicamente il territorio del Kosovo da tutti i serbi fino all'ultimo anziano e/o bambino.
In termini brutali: nell'ottica albanese quando le armi taceranno, gli unici serbi ancora presenti sul territorio del Kosovo saranno quelli morti, letteralmente. Ecco perché di fronte ai nostri occhi si dipana quello che ha tutti gli ingredienti per diventare uno scontro esistenziale (ed in realtà già lo è). Da un lato la maggioranza albanese kosovara avente come obiettivo quello di proteggere l'indipendenza e l'integrità territoriale della autoproclamata repubblica e di liquidare quanto resta della presenza serba in loco e, dall'altro, le Forze Armate e di Polizia della Repubblica di Serbia coadiuvate dai serbi kosovari (e forse anche da elementi appartenenti ad altri gruppi etnici minoritari) aventi invece come obiettivo quello di reintegrare “manu militari” il Kosovo all'interno della Serbia con un conseguente bagno di sangue per gli albanesi i cui connotati finali possono variare dallo scenario più “benevolo” di un “grande massacro” a quello “catastrofico” di un “nuovo genocidio ed espulsione generalizzata”.
Il casus belli di questo conflitto potrebbe essere il fallimento senza appello delle “trattative senza fine”, unito alla decisione da parte di Albin Kurti di procedere all'implementazione della legislazione sui documenti degli autoveicoli, accompagnata da un'azione da parte delle Forze di Polizia e delle Forze di Sicurezza del Kosovo volte a prendere fisicamente il controllo del Kosovo del Nord e chiudere i valichi di frontiera con la Serbia. A quel punto, pena il totale discredito politico, il presidente Aleksandar Vučić ordinerebbe alle Forze Armate e a quelle del Ministero dell'Interno di muoversi: l'Operazione Ibar avrebbe così inizio.
Prevedibilmente, “l'operazione militare speciale” serba (il riferimento non è affatto casuale!) prenderebbe i contorni di una escalation progressiva. Come prima cosa, le forze di Belgrado muoverebbero dalle loro aree di concentrazione situate subito a settentrione del Kosovo, nelle aree di Ribariće, Novi Pazar, Raška e del monte Kopaonik al fine di prendere in controllo del Kosovo del Nord e della città di Kosovska Mitrovica. Lo scopo dichiarato dell'azione sarebbe quello di proteggere gli abitanti serbi locali dal tentativo (vero o presunto che sia) da parte delle autorità centrali di Pristina di prendere il controllo del territorio con la forza e condurvi “un genocidio”. Ovviamente l'azione serba verrebbe recepita immediatamente dalle autorità di Pristina come un atto ostile al quale la leadership albanese risponderebbe schierando le Forze di Sicurezza e le Forze di Polizia, chiamando il popolo alle armi (esattamente come fecero i capi della guerriglia albanese nel 1999) ed invocando un aiuto militare da parte dell'Albania e della NATO in generale.
Una conseguenza del precipitare degli eventi sarebbe l'assalto alle enclavi serbe situate a macchia di leopardo nelle sopra citate aree del Kosovo da parte delle milizie albanesi allo scopo di compiere la già menzionata pulizia etnica. In alcune aree, complice anche la tormentata orografia locale, i serbi riuscirebbero a resistere e prendere tempo, in altre invece verrebbero rapidamente sopraffatti e massacrati. Questo darebbe il destro a Belgrado per lanciare la seconda fase dell'operazione e, contestualmente, dichiarare l'implementazione della mobilitazione generale all'interno del paese, così da poter irregimentare il popolo ed armare i 600.000 riservisti (inclusi moltissimi veterani delle guerre di disintegrazione della Yugoslavia) dei quali la Serbia dispone. Sul terreno le forze serbe muoverebbero dalla zona del Kosovo del Nord in direzione sud, puntando decisamente verso Pristina. La manovra sarebbe supportata da nuove colonne che penetrerebbero nel territorio kosovaro a partire da Kuršumlija, Preševo, Bujanovac e Medveđa ed aventi come obiettivi Podujevo, Kosovska Kamenica, Gnjilane e Uroševac, per poter poi convergere sulla capitale da più lati e stringerla in una morsa.
Le operazioni militari serbe verranno aperte da attacchi aerei e di artiglieria contro obiettivi ad alto valore mentre gli uomini delle forze speciali di Belgrado prenderanno il controllo di obiettivi strategici in modo da aprire la strada alle formazioni corazzate dell'esercito serbo, in particolare i quattro battaglioni corazzati equipaggiati con i carri armati M-84, nel ruolo di veri e propri arieti corazzati. Non è chiaro per quanto tempo le autorità centrali kosovare possano resistere in una tale situazione ma, una volta paralizzate le capacità di reazione, la caduta della capitale comporterebbe in poco tempo anche la presa di tutta l'area orientale del paese (quella che, abbiamo visto sopra, rappresenta il Kosovo vero e proprio. A questo punto resterebbe ancora in mani albanesi la parte occidentale per paese (la cosiddetta Metohija) con i suoi centri abitati (Peć, Dečani, Đakovica, Prizren, ecc...).
Quanto avverrà a questo punto dipende dalle reazioni sia a livello locale che internazionale che le prime due fasi dell'Operazione Ibar innescheranno. Se è vero infatti che le Forze di Sicurezza e le Forze di Polizia della Repubblica del Kosovo non sono in grado di resistere da sole alla Serbia nel contesto di una guerra convenzionale (non tanto per mancanza di uomini, i quali possono essere eventualmente trovati mobilitando in maniera massiccia la popolazione civile, quanto per la mancanza totale di armi pesanti ed asset aerei) è altrettanto vero che in Kosovo è ancora dispiegata la KFOR, la quale seppur nel frattempo ridotta a “soli” 4000 uomini rappresenta comunque una sorta di “mina ad inciampo geopolitico”; in poche parole, attaccare la KFOR significa provocare la NATO ad entrare in guerra.
Dulcis in fundo, nel territorio kosovaro è presente la base americana di Camp Bondsteel che rappresenta una pedina fondamentale del dispositivo degli Stati Uniti d'America nell'Europa balcanica e, si sa, gli USA non accetterebbero di buon grado di venire espulsi con la forza da quell'area geografica.
Non bisogna nemmeno sottovalutare i rapporti esistenti tra Kosovo ed Albania, così come la capacità da parte della diaspora albanese (in alcuni paesi assai più influente di quanto si sarebbe tentati di credere) di mobilitare l'opinione pubblica mondiale a sostegno della causa kosovara esattamente come avvenne nel 1999.
Sul fronte geostrategico, la Serbia è completamente circondata da paesi membri dell'Alleanza Atlantica (se si eccettuano la Bosnia-Herzegovina ed il Kosovo stesso) e, a differenza di quanto avvenne nel 1999, il paese ha perso lo sbocco al mare (con l'indipendenza del Montenegro) ed è quindi soggetto sia alla minaccia di un blocco totale che di una invasione esterna. In realtà però, guardando al precedente storico del 1999, alla situazione geopolitica odierna e ad una serie di cambiamenti che sono intercorsi nell'ultimo ventennio, esiste la possibilità che la posizione serba non sia poi così disperata come possa sembrare di primo acchito.
Prima di tutto bisogna notare che il contesto geopolitico globale, specialmente dopo l'inizio della Guerra Russo-Ucraina è completamente cambiato. Contrariamente al 1999, la Russia non è più l'ombra di se stessa e sta conducendo, a mio avviso con successo, una guerra che promette di cambiare i rapporti di forza nell'Europa dell'Est lasciando intravvedere la concreta possibilità che lo stato ucraino sparisca dalle mappe geografiche e Mosca arrivi ad attestarsi saldamente alle pendici dei monti Carpazi. Questo, unito alla politica ambigua del primo ministro dell'Ungheria, Viktor Orbán (nella foto, quello a sx), il cui paese è formalmente membro dell'Unione Europea e della NATO ma che ormai flirta sempre più pesantemente con la Russia, la Serbia e persino con i serbi di Bosnia-Herzegovina, fa sì che Belgrado possa in fine guadagnarsi la tanto sospirata “sponda esterna necessaria a rompere l'accerchiamento”. Inoltre, la situazione di estrema instabilità che caratterizza i paesi dell'area, indipendentemente se membri o meno della NATO (non solo la Serbia ed il Kosovo, ma anche l'Albania e tutte le altre repubbliche ex-jugoslave) fa sì che un eventuale massiccio intervento militare esterno rischi di far detonare l'intera polveriera balcanica, oggi assai più volatile ed instabile anche rispetto al 1999. Senza contare che, per poter intervenire militarmente nel teatro delle operazioni la NATO avrebbe bisogno di tempo per mobilitare le proprie risorse, rischiando di sguarnire altre aree di crisi. Questo è ancor più vero per gli Stati Uniti d'America ora impegnati su diversi piani a contenere contemporaneamente la Russia, la Cina, la Corea del Nord e l'Iran e che rischiano di non avere gli uomini ed i mezzi da destinare anche alla crisi balcanica.
Infine, la riproposizione della guerra delle sanzioni contro la Serbia in maniera eguale a quanto visto con la Russia rischia di creare un danno tutt'altro che trascurabile non solo ai piccoli attori locali, ma anche a paesi come la Romania, la Polonia, l'Ungheria, la Germania e la nostra Italia che tanto in passato hanno investito in quest'area con l'obiettivo di attrarla nell'orbita europea e che rischierebbero ora di ricevere, dopo le sanzioni alla Russia, un nuovo pesante colpo in questa delicata congiuntura storica.
Per questa ragione è necessario continuare a monitorare la crisi balcanica ed i paralleli sviluppi della Guerra Russo-Ucraina perché nell'arco dei prossimi 6 mesi potrebbero germogliare i semi di un nuovo conflitto armato nel cuore dell'Europa.
Foto: Serbian Armed Forces / NATO / Cremlino / U.S. Army