Lo scorso 13 marzo il ministro della Difesa Guido Crosetto ha dichiarato: "L'aumento esponenziale delle partenze è in misura non indifferente, parte di una strategia chiara di guerra ibrida che la divisione Wagner, mercenari al soldo della Russia, sta attuando, utilizzando il suo peso rilevante in alcuni paesi africani". Un problema evidenziato già dai servizi d’informazione e dal COPASIR.
Dello stesso tenore le dichiarazioni del ministro degli Esteri Antonio Tajani, il quale ha parlato di un "tentativo di spingere i migranti verso l’Italia".
Senza nascondere la testa sotto la sabbia, per un Paese come l’Italia, incuneato al centro del Mediterraneo, ai confini con uno scenario ormai sistemicamente instabile come la cintura del Nord Africa-Sahel, l’immigrazione irregolare costituisce un problema di natura strategica per la sicurezza nazionale ed implica anche l’obbligo di rivedere la propria capacità e volontà di proiezione per arginare l’emergenza.
Secondo l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), agenzia collegata all’ONU, più di 20.000 persone sono sbarcate sulle coste italiane dall'inizio del 2023, il triplo rispetto al 2022 nello stesso periodo.
L’emergenza immigrazione è parte integrante dell’instabilità di Libia e Sahel, aree collegate da un “corridoio” geografico attraverso il quale passano le principali rotte terrestri dell’immigrazione clandestina e quelle dei traffici illeciti d’ogni tipo. Senza contare che la regione è inserita a pieno titolo nella competizione tra potenze – compresa la Russia – impegnate nel nuovo scramble for Africa.
Certamente la presa di posizione del Governo italiano sulle strategie di “guerra ibrida” attuate dal Gruppo Wagner contro Roma sono esagerate, frutto di una volontà politica di “sopravvalutare” alcune informazioni dell’intelligence da utilizzare nella guerra propagandistica tra Occidente e Russia che si combatte liminalmente alla “guerra guerreggiata” tra Mosca e Kiev.
Se il Gruppo Wagner in Libia ha una presenza importante e radicata, ciò non vuol dire che esso abbia capacità tali di gestire la tratta dei migranti in regime di monopolio; certamente ne beneficia, certamente può utilizzarlo – confacentemente alla volontà del Cremlino – quale strumento di pressione sul fronte meridionale della NATO, considerando anche la sensibilità dell’opinione pubblica italiana sulle questioni guerra d’Ucraina ed immigrazione, ma si tratta di uno sfruttamento a latere del vero racket del traffico di esseri umani.
Lungo le coste libiche – per l’incapacità delle autorità governative di Tripolitania e Cirenaica di fermare i traffici ma anche per la connivenza di loro branche e supporters – sono germogliate organizzazioni criminali strutturate, delle vere e proprie “mafie”, che fanno del traffico di esseri umani dall’Africa subsahariana alle coste italiane la loro fonte di guadagno principale.
La migrazione di massa sponsorizzata direttamente da uno Stato o da un attore non statale con interessi politici e strategici ed in grado di controllare i traffici può essere uno strumento estremamente efficace per destabilizzare uno specifico Paese bersaglio. Si tratta di un fenomeno ormai conosciuto in epoca di “globalizzazione selettiva”, noto come weaponized migration, strumento di guerra politica ed ibrida già utilizzato da Mu'ammar Gheddafi nel 2011 allo scoppio della guerra civile libica, dalla Turchia nel febbraio 2020 durante la crisi di frontiera turco-greca e nel 2021 dalla Bielorussia durante la crisi che vide confrontarsi le autorità di Minsk con quelle di Bruxelles.
Restando in Libia, è stata prassi consolidata anche dei governi succeduti a Gheddafi, sia in Tripolitania che Cirenaica (specie questi ultimi), utilizzare le ondate migratorie come arma di ricatto nei confronti dell’Italia e dell’Unione Europea.
Frequenza e ritmo degli sbarchi sulle coste italiane non sono influenzati solo ed esclusivamente da questioni politiche, anzi, sono principalmente le necessità delle organizzazioni criminali di trafficanti a farlo, ma è chiaro che attori con finalità politiche possano sfruttare la destabilizzazione che l’immigrazione di massa, agitata come minaccia o attuata nella pratica, possa causare contro un Paese nemico.
Finora il Gruppo Wagner e con esso il Cremlino, non ha avuto alcuna influenza “conosciuta” nel racket del traffico di esseri umani, ma può sfruttarne il potenziale dirompente. Proprio come in altri Stati africani, come la Repubblica Centrafricana ed il Mali, il Gruppo Wagner sta sfruttando la propria presenza in Libia per ottenere concessioni estrattive. Nel Fezzan, che è area di transito obbligata dei flussi migratori illegali provenienti dal Sahel e dall’Africa Centrale, Wagner è coinvolta nell'estrazione illegale di oro, con truppe schierate vicino a basi aeree chiave e vicino a installazioni petrolifere di vitale importanza, nello specifico nell’area che va dal capoluogo Sebha alla vicina Awbari.
Wagner ha, inoltre, firmato contratti con il Maresciallo di Libia Khalifa Haftar, rivale del governo di Tripoli, figura ambigua all’interno di quello di Tobruk e, sicuramente, figura ostile alla presenza italiana nella ex “Quarta Sponda”. Le risorse di petrolio, gas e oro presenti in Libia hanno spinto il Gruppo Wagner ad entrare a gamba tesa nella crisi del Paese ed a scegliere quello che, tra i vari attori in campo, è più vicino anche agli interessi della Russia.
Ma al netto di queste considerazioni, c’è un fatto da sottolineare. La presa di posizione forte contro Wagner del Governo Meloni riapre una ferita mai realmente cicatrizzata sugli errori che finora hanno accompagnato la strategia italiana di riconquista di un “posto al sole” in Libia a partire dalla disastrosa guerra contro Gheddafi del 2011.
L’approccio “securitario” di Roma, che dal 2017 ha versato nelle casse di Tripoli ben 32,6 milioni di euro per missioni di supporto alla Guardia Costiera Libica senza ottenere risultati reali sul contrasto all’immigrazione clandestina, ha impedito all’Italia di considerare realmente la Libia per quel che è, cioè un problema politico-strategico, tanto di sicurezza nazionale quanto di proiezione all’estero, dunque come una questione essenzialmente proattiva di politica estera e di difesa.
Ugualmente, questo tipo di approccio ha sempre impedito all’Italia di individuare i veri responsabili del traffico di esseri umani, i quali lucrano anche grazie alle coperture che gli interlocutori delle potenze straniere coinvolte in Libia (italiani compresi) gli forniscono.
La verità è che l’approccio “securitario”, concentrato solo sul contrasto dell’immigrazione clandestina, impedisce di comprendere che la vera causa del dissesto – anche umanitario – dell’area è l’instabilità politico-militare dell’area vasta che va dal Sahel alle coste mediterranee dell’Africa, profondamente interconnesse.
Un’interconnessione – è scritto nella “Strategia di difesa e sicurezza nazionale nel Mediterraneo” del Ministero della Difesa datata 2022 – a cui l’Italia non sfugge, poiché risente direttamente dell’instabilità che proviene dal cosiddetto “Fianco Sud”, per effetto di una fragilità diffusa, che favorisce l’insorgere del terrorismo di matrice jihadista, dei traffici illeciti e, più di recente, delle minacce ibride di attori esterni alla Regione, ormai radicati in questo contesto.
Tradotto: Wagner o non Wagner - anzi, a maggior ragione con Wagner boots on the ground ed un fronte sud sempre più incandescente dopo lo scoppio della guerra in Ucraina - la Libia resta il problema numero uno per la sicurezza nazionale di Roma.