Federica Marzi
Ed. Bottega Errante
pagg.335
“Che fate? Rimanete per stare attaccati a una tomba? Che fate? Rimanete per poi rimpiangere di non essere andati come gli altri? Che fate? Volete vivere da stranieri in un nuovo Paese? O volete vivere da stranieri in un Paese che ora immaginate di avere il diritto di chiamare vostro? No, non vostro. Siete voi che ora appartenere a lui. Di diritto. Vi lasciano entrare. Vi lasciano passare. Andate in Italia. Ora o mai più”.
In poche righe, l’autrice descrive, in uno di quelli che, a mio avviso, è uno dei passi più intensi di questo suo romanzo d’esordio, il dramma della scelta, tra il partire o il restare, dei profughi istriani dopo che i titini presero il potere.
Federica Marzi è triestina, è un’insegnate e proviene da una famiglia di frontiera, in parte istriana e in parte slovena. Appartenenti a famiglie di frontiera sono anche i due personaggi principali del romanzo: Amila, una ragazza di origine bosniaca e Norina, una signora anziana, di origine istriana. Tutte e due sono nate in una città che poi ha cambiato la sua nazione di appartenenza; tutte e due, quindi, sono nate “altrove”. Tutte e due, perché una ha bisogno dell’altra, intrecceranno le loro vite a Trieste. Tutte e due hanno fatto l’esperienza di vivere in un campo profughi: in quello di Jesolo, Amila, in quello di Padriciano, Norina, chiaramente in tempi e situazioni diverse.
La famiglia di Amila si trovò ad esser profuga, negli anni Novanta, a causa della guerra nei Balcani, mentre la famiglia di Norina fece parte del grande esodo, negli anni Cinquanta, dalla Jugoslavia verso l’Italia. “Era stata una ragazza felice, ma poi, dopo la guerra e i tedeschi, era arrivata la Jugoslavia”. “Molte case si svuotarono […]. Chi voleva andare verso la patria italiana, a Trieste, doveva mettersi in fila al comune e abbandonare i beni. Le famiglie si disgregarono. Le amicizie si sbriciolarono come pasta frolla. I lacci che avevano tenuto insieme una comunità si recisero. E anche i giuramenti e le promesse che avevano cantato amor, amor, amor si ruppero come tanti rami secchi”. Non tutti però riuscirono a sopportare la vita nel campo profughi, dove ognuno seguiva “con apprensione quel che faceva o non faceva il Governo italiano. Il confine era poco lontano. Anche Norina e Nevia furono presto contagiate dalla paura di venir tagliate fuori un’altra volta. Bastava una bega internazionale e la linea poteva avanzare in una sola notte verso di loro e oltrepassarle, respingendole in Jugoslavia”.
Nevia, la sorella di Norina, resasi conto “che ci si poteva solo trascinare sul nuovo suolo”, decise di rifarsi una vita, in Australia, imbarcandosi sulla motonave “Flaminia”; non sarebbe più tornata in Italia. A farlo, invece, sarebbe stato suo nipote Simon che, con il suo arrivo in Italia, avrebbe portato qualche sconvolgimento, sia nella vita di Amila sia in quella di Norina che, attraverso il nipote, si troverà a dover fare i conti con un passato mai dimenticato. Amila accompagnerà Simon - nel suo viaggio alla ricerca delle proprie origini - a Buie, in Croazia, da dove la sua famiglia era fuggita. E lì, egli avrà un incontro con Livio, che da ragazzo aveva corteggiato sua nonna e che, rimasto nel suo paese, “non era molto convinto della democrazia che era seguita alla Jugoslavia”. “Ma perché non siete andato via anche voi?”, gli domandò. “E dove? chiese Livio. Questa è casa nostra. Su un’altra terra non saremo più uguali, abbiamo pensato noi quella volta”. Ma il vero obiettivo di Simon sarà quello di trovare suo nonno Franco che, il giorno in cui sua nonna si imbarcò per l’Australia, era, anche lui, sulla stessa nave. Ma poi era tornato.
Gianlorenzo Capano