Analisi del terrorismo

(di Giovanni Di Gregorio)
06/03/15

Il terrorismo, soprattutto all’indomani dell’attentato al World Trade Center di New York e al Pentagono a Washington DC è un termine che è diventato – suo malgrado – molto di moda. Il principale motore di ricerca in Internet – Google – riporta oltre 58,4 milioni di siti web sull’argomento.

Peccato che nessuna di queste contempli una definizione esaustiva, ove per “esaustiva” si intenda “comunemente accettata” o “condivisa”.

L’autore del libro "IL PUGNO DI DIO, Terrorismo e Terrorismi, dalle origini alla spada dell'Islam", ha voluto raccogliere tutte quelle informazioni necessarie a capire e comprendere il fenomeno del terrorismo nazionale e transnazionale dando spunto a quello che è la lotta a questa forma di orrore.

E’ corretto analizzare i vari fenomeni di terrorismo, da quello prevalentemente politico a quello di matrice islamica e religiosa. Documentazione Governativa e da fonti di Intelligence sono state vagliate per la realizzazione di questo libro, che si spera possa fornire ai lettori lo spunto per poter percepire il reale problema e il modus operandi.

La definizione di terrorismo

La volontà di cercare di definire la pratica del terrorismo è conseguente al suo sviluppo storico e al suo radicamento ed attuazione. La notevole complessità della materia, nella quale sono presenti moltissime variabili – strategiche, tattiche, ideologiche ecc. hanno fatto sì che si realizzasse una vastissima letteratura sull’argomento e, di conseguenza, che si addivenisse ad un lungo elenco di diverse definizioni.

Un primo tentativo di sintesi e di analisi sulle varie definizioni che si erano susseguite durante il corso della storia, fu realizzato nel 1988 dall'US Army. Nel suo studio, l’esercito americano contava ben 109 diverse definizioni, le quali includevano 22 diversi elementi caratteristici e determinativi. Ancora nel 1999, Walter Laqueur, dopo aver analizzato 100 diverse definizioni arrivava a concludere che “la sola caratteristica generale comunemente condivisa sul termine, è che il terrorismo comprende (contempla) la violenza e la minaccia del ricorso alla violenza”. Si tratta di una definizione molto generica, ma omnicomprensiva, tuttavia per nulla esaustiva, dato che tralascia altre variabili di fondamentale importanza per tracciare ogni tipo di analisi più approfondita.

The unlawful use or threatened use of force or violence against individuals or property in an attempt to coerce or intimidate governments or societies to achieve political, religious or ideological objective.(AAP-6) (1/9/89)

Innanzitutto la definizione è datata. Risale alla fine degli anni Ottanta, elaborata pertanto in un contesto di confronto bipolare, nel quale il terrorismo, è un fenomeno che si realizza prevalentemente in Europa ed nella sua componente politica di sinistra è spesso sponsorizzato dall’Unione Sovietica e dai suoi paesi satelliti, (così come avviene per certi versi in America Latina, altro teatro d’azione dei gruppi marxisti-leninisti) ha una matrice politica di sinistra (terrorismo europeo locale) o l’Europa diviene il terreno di scontro di azione per le rivendicazioni indipendentiste palestinesi.

Contrariamente a ciò che è avvenuto in altri Stati o presso altre istituzioni sopranazionali, la definizione non è stata aggiornata dopo l’11 settembre, ritenendola valida e ancora attuale. Secondo questo ragionamento, la caratteristica che permette di definire il terrorismo è costituita dall’atto in sé e non dalle ragioni e dalle giustificazioni che lo motivano. Il limite di tale definizione risiede nel fatto che non è possibile effettuare una differenziazione chiara e netta tra la violenza perpetrata dagli Stati da quella di gruppi non statali, come i gruppi terroristici. E ciò fa la forza di tali gruppi, poiché possono sostenere che non v’è differenza alcuna tra una bomba artigianale posta in un bidone di un mercato in una città qualsiasi che ucciderà o mutilerà indiscriminatamente le persone che verranno a trovarsi entro il raggio d’azione dell’ordigno, da un sistema d’arma altamente tecnologico sganciato da un bombardiere ad alta quota. Tale ragionamento pone sullo stesso piano le azioni perpetrate da stati sovrani durante la Seconda Guerra Mondiale (bombardamento di Dresda o di Hiroshima e Nagasaki da parte degli americani o di Coventry e Varsavia da parte della Luftwaffe e, come antesignano il bombardamento di Guernica, durante la guerra civile spagnola nel 1937 da parte della Legione Condor) con le azioni di entità sottostatuali, partendo dal presupposto che entrambi causano la morte di civili innocenti.

Framework Decision on Combating Terrorism

A dare una definizione, ci ha provato anche l’Unione Europea.

The European Union employs a definition of terrorism for legal/official purposes which is set out in Art. 1 of the Framework Decision on Combating Terrorism (2002). This provides that terrorist offences are certain criminal offences set out in a list comprised largely of serious offences against persons and property which, "given their nature or context, may seriously damage a country or an international organisation where committed with the aim of: seriously intimidating a population; or unduly compelling a Government or international organisation to perform or abstain from performing any act; or seriously destabilising or destroying the fundamental political, constitutional, economic or social structures of a country or an international organisation.

L’articolo 29 del trattato sull'Unione europea fa riferimento specifico al terrorismo in quanto forma grave di criminalità.

L’azione dell'Unione in materia di lotta contro il terrorismo si inserisce nel quadro del terzo pilastro, cioè la cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale (titolo VI del trattato sull'Unione europea). In questa prospettiva, le infrazioni terroristiche sono definite come «atti intenzionali, soprattutto il sequestro di persona o la presa di ostaggi, la diffusione di sostanze pericolose o la provocazione di incendi, inondazioni o esplosioni i cui effetti mettano in pericolo vite umane, omicidi (…). Sono anche considerate infrazioni terroristiche gli atti che possono arrecare grave danno a un paese o a un'organizzazione internazionale qualora siano commessi al fine di intimidire gravemente una popolazione o costringere i poteri pubblici, a destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche fondamentali » (Decisione Quadro del 13 giugno 2002).

Ognuna di queste definizioni traduce evidentemente le priorità e gli interessi specifici delle varie amministrazioni. Il Dipartimento di Stato pone l’accento sul carattere della premeditazione, della pianificazione e del calcolo dell’azione terroristica, sottolineando – ed ecco l’originalità statunitense – il carattere fondamentalmente politico del terrorismo, così come la sua natura essenzialmente “subnazionale”.

Una ulteriore definizione è data dal Congresso dei Paesi Islamici di cui è utile sapere e conoscere le, quasi, moderate convinzioni in merito al terrorismo

Article I

2. "Terrorism” means any act of violence or threat thereof notwithstanding its motives or intentions perpetrated to carry out an individual or collective criminal plan with the aim of terrorizing people or threatening

to harm them or imperiling their lives, honor, freedoms, security or rights or exposing the environment or any facility or public or private property to hazards or occupying or seizing them, or endangering a national

resource, or international facilities, or threatening the stability, territorial integrity, political unity or sovereignty of independent States.

Article 2

a) Peoples struggle including armed struggle against foreign occupation, aggression, colonialism, and hegemony, aimed at liberation and selfdetermination in accordance with the principles of international law shall

not be considered a terrorist crime.

b) None of the terrorist crimes mentioned in the previous article shall be considered political crimes.

Pur non citando né facendo espressamente riferimento alla situazione della Palestina, è ovvio che l’articolo 2 faccia riferimento a quella che è considerata una lotta di liberazione nazionale dal giogo israeliano. Così come dev’essere considerata la lotta di resistenza libanese.

Tuttavia con la Dichiarazione di Kuala Lumpur, nel 2002, l’Organizzazione della Conferenza Islamica, torna sull’argomento e dichiara apertamente di “rigettare ogni tentativo di collegare la lotta del popolo palestinese o la resistenza libanese ad atti di terrorismo”.

Kuala Lumpur declaration on international terrorism

Adopted at the extraordinary session of the Islamic Conference of Foreign Ministers on Terrorism 1-3- APRIL 2002

5. We reject any attempt to link Islam and Muslims to terrorism as terrorism has no association with any religion, civilization or nationality;

6. We reiterate that preventive action taken to combat terrorism should not result in ethnic or religious profiling or the targeting of a particular community;

7. We unequivocally condemn acts of international terrorism in all its forms and manifestations, including state terrorism, irrespective of motives, perpetrators and victims as terrorism poses a serious threat to international peace and security and is a grave violation of human rights;

10. We reject any attempt to link terrorism to the struggle of the Palestinian people in the exercise of their inalienable right to establish their independent state with Al-Quds Al-Sharif as its capital;

11. We reject any attempt to associate Islamic states or Palestinian and Lebanese resistance with terrorism, which constitutes an impediment to the global struggle against terrorism;

Cosa possiamo trarre dalle definizioni sopra citate?

Il terrorismo è definito per la natura dell’atto e non per l’identità di chi lo compie. E’ quindi un atto di violenza o minaccia di violenza, calcolata per creare un clima di paura e di panico, al fine di conseguire obiettivi e fini politici. Ottenere un consenso sul significato del termine “terrorismo” non è un obiettivo importante in sé, ad eccezione per i linguisti.

Sebbene ci sia una convergenza nell’identificare il terrorismo con la violenza, è tuttavia necessario effettuare una differenziazione tra le diverse condizioni di “violenza” e di distinguere i vari modi e metodi di conflitto, qualunque sia il mondo di chiamarli, se vogliamo migliorare la nostra comprensione di questo problema, se vogliamo capire i fattori che muovono il terrorismo, se vogliamo elaborare una strategia di contro-terrorismo, o meglio di controviolenza terroristica che sia efficiente ed efficace.

Il terrorismo come movimento di liberazione

Il Secondo dopoguerra, che apre la via ad una fase di decolonizzazione e di nuove indipendenze, vede il proliferare di molti gruppi combattenti per la libertà. Si tratta per lo più di gruppi che operano in stretto ambito nazionale, contro un nemico ben definito, istituzionale: la potenza coloniale straniera ancora dominante (è per esempio il caso del sud-est asiatico, dove alcune forze coloniali non si rassegnano alla perdita dei loro imperi, si veda il caso della Francia della IV Repubblica nella guerra di Indocina - 1954) o la nuova élite al potere, sorta dalle ceneri del colonialismo europeo e rappresentante solo una parte della popolazione locale (ove ci si trovi in contesti tribali, come in Africa) o ancora sia espressione di una tendenza politica di destra. Laddove invece vanno al potere fazioni o partiti comunisti, la guerriglia e quindi le azioni di terrore e di rappresaglia sono gli strumenti principe per “conservare” la Rivoluzione e per “sopprimere” le forze controrivoluzionarie, ovvero qualsiasi minaccia al nuovo status quo.

Ad esempio, una direttiva dei Viet Nam Cong San (i comunisti vietnamiti, i Viet-cong), nel 1965 è estremamente esplicita nell’identificare le categorie che devono essere represse: “gli obiettivi della repressione sono gli elementi controrivoluzionari che cercano di ostacolare la rivoluzione e che lavorano attivamente per il nemico e per la distruzione della rivoluzione /…/ gli elementi che lottano attivamente contro la rivoluzione in partiti controrivoluzionari, come il Partito Nazionalista Vietnamita (Quoc Dan Dang), il Partito del Grande Vietnam (Dai Viet), /…/ gli elementi reazionari e recalcitranti che approfittano delle diverse religioni, come il buddismo, il cattolicesimo il caodaismo (Cao Dai) ed il protestantesimo”.

Da un punto di vista ideologico-lessicale il terrorismo come movimento di liberazione avrà una portata fondamentale per i terrorismi futuri, e, in particolar modo per lo sviluppo dei gruppi che sorgeranno in Medio Oriente.

Ci si trova di fronte a combattenti per la libertà, non più a terroristi.

L’ideologia è riassunta da Yasser Arafat alle Nazioni Unite, quando nel 1974 tenne il suo primo discorso: “La differenza tra il rivoluzionario ed il terrorista risiede nelle motivazioni per le quali ciascuno combatte. Perché è impossibile chiamare terrorista chi sostiene una causa giusta, chi combatte per la libertà, per la liberazione della sua terra dagli invasori, dai coloni e dai colonialisti”.

Sebbene in America Latina non vi sia un affrancamento dal retaggio coloniale (già compiuto), i governi al potere, con forti connotazioni di destra, generano – loro malgrado – una galassia di gruppi armati di sinistra.

In realtà, il sorgere di questi gruppi armati, tra la fine degli anni Sessanta ed i primi anni Settanta (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejército del Pueblo FARC-EP – 1964; e l’Ejército de Liberación Nacional - ELN in Colombia – 1965; l’Ejército de Liberación Nacional in Bolivia – 1966; Sendero Luminoso in Perù – 1969 ecc.) non è imputabile solamente alla salita al potere di Juntas militari, a seguito di colpi di Stato o ad elezioni democratiche, manello specifico, per l’America Latina concorrono anche alcuni fattori endogeni:

· Ideologia: marxismo-leninismo; maoismo

· Fallimento di Che Guevara in Bolivia

· Teorizzazione della guerriglia: Marghella (Brasile),

· Tupamaros (Uruguay)

· Cuba e il Castrismo

· Ingerenza USA percepita come eccessiva: neo-imperialismo

Anche in questo specifico ambito geografico, così come avviene nel sud-est asiatico, i gruppi operano a livello nazionale. Tuttavia la strategia d’azione militare perseguita dai gruppi latino-americani farà scuola ed avrà un impatto ed una influenza fondamentali sui gruppi europei. La loro struttura organizzativa, la strategia combattente (manuale della guerriglia di Marghella), i miti (Che Guevara, così come Castro, ma anche il Viet-Nam e Ho-chi-min) saranno paradigmi che verranno seguiti pedissequamente, adottati ed assimilati pressoché in toto dai gruppi occidentali nati attorno aglianni Sessanta, ma anche quelli che sorgeranno, come una seconda ondata negli anni Settanta e Ottanta.

Prendendo spunto dalle organizzazioni terroristiche di matrice politica anti-imperialisti dei paesi dell’America Latina, in Europa si vanno ad organizzare i primi moti studenteschi cui fanno riferimento proprio i gruppi combattenti latini. Un aspetto assolutamente importante è la loro laicità degli ideali e del non coinvolgimento della religione.

Nonostante questo che li differenzia, come vedremo, dai terroristi islamici, profondamente religiosi non esiteranno a strongere legami di livello globale.

I gruppi che inizino la loro attività in Europa hanno come Leitmotive:

· ideologia politica: marxismo leninismo, maoismo

· strumenti di lotta: la lotta armata, la lotta clandestina, assassinio politico, il rapimento

· gli obiettivi: l’abbattimento dello Stato (“lo Stato non si cambia, si abbatte) e la rivoluzione proletaria

· per alcuni, l’indipendentismo (IRA; ETA, FLNC)

In Europa, il ruolo di leader, per organizzazione e struttura, per azioni, nonché per esperienza maturata sul campo (è fondata nel 1959) è detenuto da ETA. I rapporti che stringe con i primi gruppi terroristici di matrice islamica, a forte connotazione indipendentista (OLP) sono fondamentali.

Grazie all’aiuto dell’OLP, i militanti di ETA possono entrare in contatto con le tecniche e tattiche di guerriglia dei campi di addestramento che gli uomini di Yasser Arafat e di Abu Nidal hanno aperto in Giordania.

Il modello di campo di addestramento verrà importato da ETA in Europa. Questi diverranno centri per gli altri gruppi terroristici a matrice politica di sinistra, quali le Brigate Rosse Italiane ed i membri della RAF e di AD.

Terrorismo e religioni

Dio non perdona chi uccide in suo nome: è una semplice frase che potrebbe essere interpretata quasi come una tautologia dei principi che soggiacciono ad una qualsiasi fede religiosa, come un naturale sottinteso quando si crede che esista un Essere superiore alle cose terrene, non scosso dai semplici sentimenti umani. Comunque la si voglia interpretare, la circostanza che nessun Dio potrebbe suggerire uno strumento quale quello della morte per imporre la fede, o per punire la mancanza, è un concetto meno evidente di quanto sembri se è stato necessario che un Pontefice, Benedetto XVI, lo ricordasse utilizzando la frase sopra richiamata. Ma il monito del Papa non è giunto a caso: questo momento che si attraversa rischia nuovamente di trasformare le paure, le incertezze sul futuro, l'ostilità nei confronti di chi è diverso da sé, in fanatismo e terrore.

Il terrorismo religioso costituisce un macrocosmo complesso e variegato che solo le cronache degli ultimi anni ci hanno abituato ad archiviare nel desktop della nostra mente con una icona che richiama atmosfere islamiche. E invece non si può dimenticare che la violenza ha fatto e fa parte del lato oscuro di ogni fede. La violenza che il terrorismo può suggerire, nelle idee di coloro i quali accedono a queste visioni distorte dell'esistenza, è la più pericolosa poiché trasforma l'assassinio (e/o il suicidio) in una azione 'giusta' e suadente, capace di aprire al regno dei cieli con pieno merito. E' come dire che l'esistenza terrena potrebbe essere anche cancellata completamente, tanto è effimero il suo valore. Ed è probabile che questi uomini persi tra i fumi del delirio mistico non abbiano bisogno del perdono di Dio: nella loro mente è più che sufficiente credere di averne.avuto.la.piena.approvazione.

Terrorismo mediorientale, terrorismo religioso, così come lo intendiamo noi oggi – nella sua accezione essenzialmente islamica ed internazionalizzazione del fenomeno del terrorismo, sono tre elementi che vanno visti in una unica dimensione. Sono tre elementi che si intersecano, si sviluppano, evolvono in maniera univoca, complementare, quasi simbiotica.

Ma per capire bene il problema dobbiamo analizzare la cronologia storica dei suoi atti che hanno portato alla conoscenza di questo fenomeno e della sua radicalizzazione a livello internazionale.

Gli scopi dell’atto terroristico Indefferentemente dal tipo di terrorismo, sia esso di natura politica o religioso di matrice islamica, lo scopo è quello di creare caos e “terrore” .

Infatti andiamo ad analizzare quali sono i punti che ne delineano le caratteristiche:

· Ottenere visibilità e pubblicità a livello globale;

· Produrre un effetto imitativo;

· Fare colpo su potenziali simpatizzanti e reclutare nuovi adepti;

· Provocare una reazione repressiva sproporzionata per sfruttarne il vantaggio politico;

· Forzare le autorità a fare concessioni;

· Provocare conflitti;

· Danneggiare o distruggere la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.

· Abbattere governi, modificare o revisionare le linee politiche dei governi, le linee economiche e di imprese di multinazionali.

Per perpetrare i loro scopi criminali scelgono con cura i loro bersagli:

· Civili, infrastrutture civili, mezzi di trasporto

· Istituzioni politiche, economiche, religiose

· Governi e loro azioni politiche

· Uomini politici, di governo, personalità pubbliche

· Edifici Simbolo

· Manager e uomini d’affari: rapimento, ricatto per autofinanziamento

· Infrastrutture economiche (aziende, rappresentanze all’estero, fabbriche): danneggiare governi locali, revisione politiche delle multinazionali

· Bersagli strategici: centrali nucleari, elettriche, oleodotti, gasdotti: provocare danni alla popolazione civile residente.

Così George Habbas, fondatore dell’FPLP, dichiarava nel 1970:

“Quando dirottiamo un aereo, il risultato ottenuto è più importante di quello ottenibile attraverso l’uccisione di un centinaio di israeliani durante un combattimento. Per decine di anni, l’opinione pubblica mondiale non è stata né a favore né contro la questione palestinese. Ci ignorava semplicemente. Ma adesso il mondo parla di noi.”

Tali cambiamenti nella tattica delle operazioni terroristiche sono resi possibili anche dagli sviluppi tecnologici che si sono susseguiti in quegli anni: La grande rapidità e la facilità di spostamenti aerei internazionali, il miglioramento delle tecniche di ripresa televisive e la rapidità con la quale le sequenze televisive possono essere messe in onda e fare il giro del mondo, la diretta TV sono tutte innovazioni che – loro malgrado – faranno il gioco dei terroristi.

I gruppi dell’OLP saranno i precursori dell’applicazione di queste nuove tattiche di combattimento, di terrorismo e tra il 1968 ed il 1970 si dimostreranno infatti i più attivi nel panorama terroristico internazionale. L’obiettivo strategico, pienamente centrato dall’OLP, sarà di portare all’attenzione pubblica mondiale il problema palestinese attraverso l’internazionalizzazione della sua lotta contro lo Stato di Israele.

Il successo conseguito dall’OLP, si farà paradigma e servirà da modello per tutti i gruppi etno-nazionalisti o indipendentisti o più generalmente combattenti (anche di sinistra).

Nonostante l’internazionalizzazione compiuta, in questo periodo, il terrorismo mediorientale non ha ancora quelle connotazioni di terrorismo religioso del quale si permeerà negli anni successivi, ma ha esclusivamente la caratteristica di azioni volte alla “liberazione nazionale”.

La liberazione dei territori palestinesi da quello che è percepito come un paese invasore è il primo obiettivo e lo strumento utilizzato sono vere e proprie azioni militari – attraverso l’utilizzo di pratiche di dirottamenti (aeronavali), attentati, rapimenti e omicidi selettivi. Tutto condotto entro una sfera puramente laica, una lotta nella quale la forza della religione non entra in scena. La religione rimane un elemento ancora relegato entro la sfera personale dei combattenti, ma che non si inserisce quale elemento ausiliare di lotta.

Tra le moltissime azioni che, a partire dagli anni Settanta, colpiscono gli interessi occidentali attraverso gli obiettivi sopra identificati, una, per importanza, per impatto mediatico e per le conseguenze politiche e strategiche che comporterà, è degna di menzione.

I gruppi terroristici religiosi non sono soltanto aumentati di numero ma hanno anche consolidato la loro struttura, reclutando adepti in tutte le principali religioni del mondo - non solo l'Islam - e anche in molti gruppi religiosi minori.

Il periodo tra il 1992 e il 1995 mostra un aumento nel numero dei gruppi terroristi religiosi a 26, su un totale di 56 gruppi terroristici attivi identificati (46.4%). Un decremento è visibile nel 1996, quando solo 13 di 46 gruppi identificabili mostravano una componente religiosa predominante (28.2%). In quello stesso anno, tuttavia, gruppi influenzati in parte o totalmente da motivazioni religiose o teleologiche commisero 10 dei 13 più letali attacchi terroristici. Questo mostra tendenze difficilmente spiegabili con la sola analisi quantitativa, perché anche se il numero decresce, la letalità aumenta, come ben sappiamo dopo l'11 settembre.

Riprendendo le fila del discorso sul terrorismo internazionale la componente religiosa rientra preponderante nella problematica del terrorismo grazie alla Rivoluzione islamica del 1979. Sebbene anche prima di tale data ci fossero gruppi terroristici con connotazioni religiose (si pensi al cattolicesimo esasperato dell’IRA (Irish 28 Revolutionnary Army) o i lealisti protestanti dell’Ulster Volunteer Force (UVF) o lo stesso OLP, a maggioranza musulmana, le loro rivendicazioni sono prima di tutto politiche e non religiose, con una forte preminenza di obiettivi etno-nazionalisti e/o irredentisti.

L’elemento della religione serve a connotare una comune appartenenza, funzionale ad una coesione del gruppo.

La rivoluzione khomeynista del 1979 porta elementi nuovi – ovvero riprende elementi che fanno parte del retaggio storico culturalspirituale sciita – nel panorama politico internazionale, ma anche nella dimensione spirituale dell’Islam, sia nella sua componente sciita che in quella maggioritaria sunnita. Tra gli elementi che l’Ayatollah Khomeyni, attraverso il suo moto rivoluzionario riconsegna alla Storia, il più importante, ai fini della nostra analisi, è quello del martirio.

La rivalutazione del martirio – nella sua componente teorico-teologica servirà da base per le attività degli Hezbollah nel Libano martoriato dalla guerra civile degli anni ’80, restando relegato ad una dimensione sciita.

Solo nella prima metà degli anni Novanta (1993) diverrà una pratica diffusa anche nel mondo sunnita, adottata da gruppi palestinesi. Con lo scoppio della seconda intifadah (2000) o l’Intifadah di al-Aqsa, HAMAS, il Jihad Islamico e le Brigate dei Martiri di al-Aqsa hanno cominciato a farne largo impiego.

La dottrina martiriologica sciita si rifà, ancora una volta, alla tragedia di Karbala, ovvero alla tradizione storico-religiosa dell’Islām del VII secolo, e ruota attorno alla figura di Hussein, nipote del Profeta e, in quanto tale, secondo gli sciiti, suo unico erede legittimo. La lotta per il potere porterà Hussein ed i suoi 72 sostenitori a scontrarsi con l’esercito Ommayade di Yazid nella piana di Karbala, lo Sheykh designato a succedere al Profeta. Hussein verrà massacrato e la sua testa portata attraverso le città ed i villaggi, mostrata alla popolazione in segno di scempio.

Il concetto di martirio (shahada) nell’Islām può essere compreso solo alla luce del concetto di jihād, ed il concetto di jihād può essere apprezzato solo se rapportato ad una dimensione manichea, che vede contrapposti la tensione al bene (alamr bi’l-maruf) e l’apprezzamento del “giusto” alla scoperta di ciò che è “sbagliato”.

Jihād è inteso in senso di “sforzo virtuoso”, sia personale che collettivo, ed è uno strumento essenziale per poter accedere all’aldilà. Il Corano infatti afferma: “Credete di poter entrare in Paradiso senza che Dio sappia chi tra voi si e' sforzato ed e' stato paziente?

I termini shahada (martirio), e quindi shahid o istishhad (“martire”, ma anche “modello”) derivano dalla radice verbale shahad, che significa “vedere”, “testimoniare”, “divenire un modello ed un paradigma”.

Lo shahid è una persona che “vede” e che “dà la propria testimonianza”. Egli stesso è quindi testimone, testimone di una verità che vede fisicamente e per la quale è pronto a lottare e a combattere, fino a sacrificare la propria vita e quindi a divenire un martire. In questo senso e attraverso la sua lotta ed il suo sacrificio per la verità, egli diviene un “modello” per gli altri, un paradigma, un esempio da seguire e che merita di essere seguito.In questo processo la chiave di lettura è la “verità” (haqq), il suo riconoscimento e la sua proclamazione, lo sforzo e la lotta per il suo raggiungimento e per la sua conquista.

L’essere preparati a morire per la verità rappresenta il modello per coloro i quali sono alla ricerca della verità. Lo scopo fondamentale è quello di determinare la verità, attraverso lo strumento del jihād, il quale può anche portare al sacrificio estremo, al martirio. In questo preciso contesto non è necessario immolarsi solo sul campo di battaglia (così come avvenne per Hussein), ma il martirio può e deve essere perpetrato durante la lotta per la ricerca della verità e per la sua imposizione. Quindi, secondo tale concezione dottrinaria, non vi può essere né jihād né martirio al di fuori del “regno della verità e, pertanto il martirio può essere valido, accettato ed eseguito solo se preceduto dal jihād, dallo sforzo di ricerca della verità e quindi un mujahed (combattente) muore come martire anche se non cade sul campo di battaglia.

Ma se il martirio è considerato come una morte ideale ed idealizzata, il Corano in realtà proibisce in maniera categorica e formale il ricorso al suicidio. Tuttavia tale questione, come del resto anche le innovazioni introdotte dal progresso, sono materia di interpretazione. Secondo alcuni ecclesiastici gli atti di martirio (istishhad) sono distinti e per nulla riconducibili al suicidio (intihar), poiché “i primi sono portati a termine dai nostri giovani dietro nostra ispirazione. Il suicidio è un atto personale e va contro il disegno di Dio.

Il martirio è un atto per avvicinarsi a Dio

Nel Corano, si fa esplicito riferimento al suicidio una sola volta. Nella Sura delle Donne (IV, 29) si dice: “O voi che credete, non divorate vicendevolmente i vostri beni, ma commerciate con mutuo consenso e non uccidete (…). Allāh è misericordioso con voi”. Al richiamo coranico si affiancano alcuni Hadith del Profeta e numerose fatwā’, tutti contro la pratica del suicidio. Tuttavia, come si ricorda in una recente fatwā’ (2000) sulla guerra in Cecenia, emessa probabilmente dallo Sheykh Hamud bin Uqla al-Shu‘aybi, ultraconservatore wahhabita, le operazioni nelle quali il mujahid si immola non sono atti di suicidio, ma di “martirio” o di “sacrificio di sé”. “Il nome di operazioni suicide, usato da alcuni, è impreciso e in realtà questo nome è stato inventato dagli ebrei per scoraggiare la nostra gente dal compiere queste operazioni. Quanto è grande la differenza tra chi commette suicidio a causa della sua infelicità e chi sacrifica se stesso in nome della forza della sua fede e della sua convinzione, per la vittoria dell’Islām e per l’esaltazione della Parola di Allah.

Per gli sciiti, e in particolare i militanti di Hezbollah, il martirio di Hussein è preso a simbolo per la lotta contro i tiranni dell’era contemporanea. Secondo l’interpretazione data dalla guida spirituale sciita, l’ayatollah Sayyed Mohamed Hussein Fadlallah, la tragedia di Karbala simboleggia la tragedia umana. Essa è stata incarnata da una persona – Hussein – che ha vissuto in nome di un intero popolo e dell’Islām, e che ha combattuto la corruzione della società. Hezbollah incarna la volontà di sacrificio per combattere la tirannia di Israele e degli Stati Uniti, considerati invasori, colonizzatori e corruttori di una società pura come quella islamica.

Per legittimare il martirio, alcuni gruppi ricorrono ad una delle fonti giurisprudenziali per eccellenza, il Corano, riprendendo le tematiche che rendono il conflitto iustum ac pium, ovvero quando la comunità islamica può ricorrere al conflitto. In prima istanza ciò è per giustificare la resistenza armata e gli atti di guerra contro la Francia, Israele e gli Stati Uniti.

(foto: web / Michelchaton)