Lo scopo principale dei terroristi è diffondere ansia e paura tra la popolazione civile; i metodi usati sono molteplici, l’importante è che le loro azioni conseguano dei risultati sia a livello politico, sia propagandistico. Più le azioni sono eclatanti e maggiore è il messaggio di paura che le organizzazioni diramano in tutto il mondo.
La dottrina parla del terrorismo come una guerra condotta da un gruppo di persone che perseguono uno scopo politico, ma che non hanno la possibilità di affrontare il loro avversario con metodi convenzionali. I terroristi non hanno certo le capacità belliche di uno Stato sovrano, tuttavia possono arrecare danni più profondi e pericolosi di un esercito regolare. Gli attacchi suicidi rappresentano l’arma più letale a disposizione delle organizzazioni terroristiche e la sfida più ardua per il contro terrorismo.
Per la religione islamica tradizionale, il suicidio rappresenta un peccato molto grave, il Corano vieta a un musulmano di togliersi la vita, tuttavia gli islamisti giustificano il gesto estremo con il termine “martirio”, cercando così di legittimarlo presso la comunità religiosa (Istishhad sacrificio in nome di Allah). Le radici storiche del martirio per Allah sono scarse, non esiste una tradizione ufficiale in questo senso, tuttavia Michael Taarnby, nel suo Profiling Islamic Suicide Terrorism, prova a identificare due episodi ai quali gli islamisti fanno riferimento: il sacrificio di Ussein ibn’Ali nella battaglia di Karbala nell’800 a.C. e le pratiche della nota setta degli Assassini attiva tra l’XI e il XIII secolo. Se questa teoria ha suscitato qualche dubbio in diversi studiosi, quello su cui tutti concordano è che il terrorismo suicida, così come lo intendiamo oggi, abbia radici più recenti, rintracciabili tra gli sciiti iraniani. La rivoluzione islamica del 1979 e la nascita di Hezbollah ha segnato, infatti, un passo importante nella storia del terrorismo. Pensiamo per un momento alle ondate fanatiche dei Basij-e Mustazafin (La Mobilitazione degli Oppressi) nella guerra contro l’Iraq: uomini, vecchi e giovani, che si scagliavano contro il nemico consapevoli della loro morte. Per gli iraniani il fervore ideologico delle parole di Khomeni fu determinante a spingerli verso atti estremi.
Il primo attentato suicida del terrorismo contemporaneo risale al 18 aprile 1983 quando l’ambasciata americana a Beirut fu demolita da 910 kg di esplosivo causando 63 morti.
La guerra in Libano e l’arrivo della forza multinazionale di pace segnò una nuova escalation di attentati suicidi: l’uccisione di 241 marines e 56 soldati francesi segnò la fine dell’impegno americano in quella regione decretando, di fatto, la vittoria di Hezbollah.
Fino agli anni Ottanta nessun gruppo islamista poteva vantare lo stesso numero di attacchi suicidi degli iraniani; le cose cominciarono a cambiare negli anni Novanta con Hamas e al-Qaeda i quali innalzarono rapidamente la media a loro favore.
Definizione
Che cosa è un attacco suicida?
Boaz Ganor (foto sotto), Direttore esecutivo dell’International Insitute for Counter Terrorism di Herzliya in Israele, ha dato la definizione più corretta: l’attacco suicida è un metodo operativo nel quale la vera azione di attacco dipende dalla morte di chi la compie. Questa è l’unica situazione nella quale il terrorista è sicuro che se non uccide se stesso, l’operazione fallirà e il piano non verrà concluso.
Caratteristiche, motivazioni e benefici
Tra i vari luoghi comuni sugli attentati suicidi, il più diffuso è quello secondo il quale gli attentatori sono dei pazzi, asociali e fanatici. Nulla di più falso.
Concordi con le parole di Boaz Ganor, chi compie un attacco suicida, lungi dall’essere irragionevole, è autore di un atto razionale e mai frutto di iniziativa personale.
Robert A. Pape, tra i massimi studiosi di terrorismo dell’Università di Chicago, concorda con la dottrina dell’ICT spiegando come gli attentati seguano una logica strategica che ha un inizio e una fine, determinata dai risultati conseguiti.
Sul perché le organizzazioni adottino sempre più questo tipo di aggressione, la risposta unanime è semplice: perché funziona.
Lo stesso Ganor definisce gli attentatori suicidi le “smart bomb” (bombe intelligenti) nelle mani delle organizzazioni: un attentatore con il suo carico di morte può decidere dove e quando farsi esplodere, può cambiare obiettivo all’ultimo momento e in qualsiasi modo si tenti di fermarlo provocherà comunque danni irreparabili. Le organizzazioni terroristiche contano poi sulla spasmodica attenzione dei mass media, i quali amplificano a dismisura la gravità dell’accaduto facendo così da megafono al loro messaggio.
Ma cosa spinge un uomo a diventare uno shahid? Ma soprattutto, chi sono i martiri della causa jihadista?
Riguardo la prima questione, specifichiamo che esistono delle motivazioni comuni, mentre altre derivano dalla particolare situazione in cui crescono i futuri martiri di Allah. Ovviamente il terrorismo islamista è mosso da una forte spinta religiosa derivante da un’interpretazione distorta della parola Jihad. Abdul Hadi Palazzi, direttore dell’Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana, rammenta come la religione islamica sia stata rapita e piegata dagli wahhbiti per avallare la loro barbarie.
Tracciare un profilo che accomuni i terroristi suicidi è problematico; come ha fatto notare Michael Taarnby ciò che valeva per il passato non è più valido oggi e sarebbe imprudente creare delle categorie. Nella visione comune, tipicamente occidentale, immaginiamo i “martiri” come persone profondamente religiose, isolate, socialmente emarginate o disperate e in questa descrizione è vero tutto, ma anche niente.
Muhammad Atta, leader dei terroristi dell’11 settembre, non era uno spiantato: era cresciuto in Germania, faceva una vita agiata, aveva una cultura medio alta e beveva alcolici, eppure il suo gesto è stato guidato da una profonda coscienza religiosa. La sera prima di schiantarsi su una delle Torri Gemelle, solennizzava l’evento scrivendo al fratello delle horrias (le 72 vergini del paradiso islamico) e dell’imminente espiazione dei suoi peccati grazie alla morte.
Il caso di Muhammad Atta non è difforme da quello di altri attentatori i quali hanno alle spalle storie analoghe: nascita ed iter formativo occidentale, condizioni di vita accettabili, cultura medio-alta, ma soprattutto una improvvisa e irrefrenabile ricerca di se stessi e delle proprie origini. Sono quelli che gli analisti definiscono “Arabi rinati”, vale a dire persone nate e vissute in Europa o America, con uno stile di vita occidentale nel quale però non sono riusciti ad identificarsi.
Questo disorientamento causa diversi interrogativi come ad esempio: “Ma chi sono io veramente?”. Su questa precarietà e desiderio di risposte fa perno l’azione della propaganda islamista. Sono queste le persone che ingrossano le file di al-Qaeda che fornisce loro una nuova identità morale e riscontri ideologici ai loro dubbi esistenziali. Da questo momento inizia una sorta di isolamento e/o emarginazione volontaria del veolontario dal resto della società, dettato soprattutto dalle esigenze dell’organizzazione. Tra le dinamiche che spingono una persona a trasformarsi in martire, gioca un ruolo sostanziale la logica del gruppo, non le caratteristiche individuali. Scott Aran, antropologo e autore di The Moral Logic and Growth of Suicide Terrorism, individua la “cellula” come l’embrione principale all’interno del quale matura la volontà di suicidarsi per la causa.
Diversamente, questo succedersi di eventi, non coinvolge gli arabi afghani che, viceversa, sono il gruppo meno propenso a farsi esplodere per la jihad. È statisticamente provato che i mujaheddin addestrati e con esperienze dirette sul campo di battaglia, ripudino il suicidio come metodo di lotta, rappresentando così la percentuale più bassa fra gli attentatori.
Di diversa foggia sono gli attacchi di matrice palestinese dove l’individuo è dominato da un senso di frustrazione e irrisolutezza che favorisce un atteggiamento autodistruttivo. Secondo Khalil Shikaki, del Center for Palestine Research and Studies di Nablus, i palestinesi sono schiacciati tra la presenza opprimente dell’esercito israeliano e la violenza di Hamas. La continua frizione tra questi due poli crea, infatti, una situazione intollerabile cancellando ogni speranza per un futuro diverso. In più dobbiamo considerare una caratteristica peculiare tra i palestinesi, il patriottismo; le loro azioni suicide sono, infatti, sostenute da un forte senso dell’onore (presente in tutta la società musulmana), ma soprattutto dall’amore verso la loro terra. Una profonda religiosità, quantunque falsata, accomuna tutti gli attentatori i quali però hanno caratteristiche che variano secondo il luogo in cui sono nati e cresciuti, dalla famiglia, le esperienze e le amicizie.
Colui che offre la vita per il Profeta, gode di favori paradisiaci, ma anche terreni: i primi sono rintracciabili tra le righe del Corano, mentre i secondi sono strettamente connessi alle organizzazioni terroristiche. In tutti i casi l’attentatore è visto come un eroe, soprattutto per la sua famiglia poiché proprio quest’ultima trarrà i maggiori benefici dal suo martirio. La famiglia di uno shahid acquisisce immediatamente i favori dell’organizzazione, tangibili sotto forma di denaro e prestigio sociale. Quindi chi si toglie la vita non compie solo un gesto politico e religioso, ma anche altruista rispetto ai suoi congiunti. I prescelti hanno anche occasione di lasciare un testamento che avvalora il loro gesto; sovente i martiri registrano dei video nei quali raccontano il sacrificio per Allah facendosi ritrarre accanto al luogo in cui si faranno esplodere.
I terroristi suicidi sono, dunque, armi micidiali e la vera sfida dell’anti terrorismo è riuscire a prevenire o sventare questi gesti, tutt’altro che folli.
La tecnologia e un addestramento mirato del personale di sicurezza aiuta certamente a fronteggiare la situazione, tuttavia quando si combatte questo tipo di minaccia bisogna sempre mettere in conto un buon numero di vittime.
Conclusioni
I dati scaturiti da ricerche accurate come quella di Michael Taarnby diventano uno dei nodi cruciali per tentare di comprendere il fenomeno del terrorismo suicida; i casi analizzati spiegano come il movente sia sempre lo stesso, malgrado le storie personali siano profondamente diverse. Ancor più allarmante è la notizia, confermata dagli studi dell’ICT, che addita l’Europa come il principale centro di reclutamento dei futuri attentatori e i fatti recentemente accaduti a Parigi lo dimostrano. Le comunità islamiche di Parigi, Londra o Berlino sono potenziali fabbriche di terroristi; le condizioni in cui vivono certi giovani, quelli che non hanno saputo o potuto sfruttare la grande occasione “occidentale”, è una delle chiavi di lettura per comprendere non solo il terrorismo suicida, ma lo jihadismo in senso più ampio.
Emarginazione, integrazione, razzismo sono tutte parole che fanno comodo nei salotti bene della Comunità Europea, ma che assumono un senso diverso tra la popolazione di città sempre più oppresse da uno spietato dinamismo economico. La ricerca delle proprie origini attraverso la religione non è un fatto condannabile, tuttavia appare molto strano come il messaggio degli islamisti suoni più forte di quello dell’Islam tradizionale.
Per concludere, l’affermazione di Palazzi sul rapimento della sua religione è calzante, ma non risponde al quesito su come l’Islam buono, quello della maggioranza, possa liberarsi dal suo “lato oscuro”.