Quello demografico è un aspetto determinante per definire la postura geopolitica degli Stati ed il loro ruolo nel consesso internazionale.
L’argomento, su una testata che assegna ai temi della sicurezza e della difesa la massima importanza, non sorprenda il lettore, date le profonde implicazioni geostrategiche che da esso discendono.
Stimare l'incremento della popolazione, il suo progressivo invecchiamento, ed osservare le dinamiche migratorie, equivale - oggi più che mai - ad affrontare temi strettamente legati al futuro della nostra società ed alla sua sicurezza, permettendo, nel contempo, di trarre importanti dati predittivi su cui basare possibili risposte.
La popolazione mondiale sta invecchiando. Rapidamente. E sta anche aumentando.
Lo scrive l'US Census, ente governativo americano che si occupa di demografia, su “An Aging World 2015”, documento redatto per il Governo federale USA.
L'invecchiamento è prodotto principalmente dall'allungamento dell'aspettativa di vita, incrementata dai progressi della medicina e dalla migliorata qualità della vita, anche sul lavoro.
Dipende inoltre dal diminuito tasso di fertilità (TFR), che corrisponde al numero di figli per ogni donna: quando è inferiore a 2.1, noto come “tasso di sostituzione” e soglia considerata fisiologica, la popolazione tende a invecchiare, come accade oggi in Europa dove la media è di 1,6, seppur in leggero aumento.
In Asia e America Latina invece è ben più alto, anche se in decremento da 6 a 3 figli per donna, destinato, da qui al 2050, a diminuire ancora.
In controtendenza è invece l’Africa, unico continente che nel 2050 avrà un TFR ben al di sopra di 2.1 per donna (al momento è di 4,4).
Dei 7,3 miliardi di abitanti del pianeta, gli anziani - (quelli in età pari o superiore a 65 anni) – corrispondono oggi al l'8,5%: 617,1 milioni di individui.
Numero che aumenterà del 60% nei prossimi 15 anni, allorquando la generazione dei baby boomers - i nati dopo il secondo conflitto mondiale - avrà lasciato il lavoro attivo.
Nel 2030 i soggetti anziani saranno saliti ad un miliardo, il 12% su scala mondiale, e nel 2050 raggiungeranno 1,6 miliardi, pari a al 16,7% della popolazione complessiva, allora salita a 9,4 miliardi di persone.
Gli ultra ottantenni, da qui al 2050 triplicheranno, ed in 23 paesi dell' Asia diventeranno quattro volte tanti.
Una crescita esponenziale, misurabile ogni anno in 27,1 milioni di nuovi anziani, la cui velocità è ancor più evidente se si pensa che quando nel 2012 la popolazione globale raggiunse i 7 miliardi, 526 milioni di questi (pari al 8%) erano soggetti di età superiore ai 65 anni; e che solo tre anni dopo, nel 2015, la fascia di popolazione anziana era già aumentata di 55 milioni, raggiungendo l'8,5% del totale.
L’invecchiamento della popolazione non procede ovunque allo stesso modo.
L’Africa, grazie al suo TFR, è l’unico continente destinato a rimanere giovane per ancora molto tempo, considerato che nel 2050 avrà “solo” 150,5 milioni di anziani, il 7% del totale, pari comunque al quadruplo degli attuali 40,6 milioni (dato 2015).
L’Asia, seguita a ruota dall’America Latina, guiderà la classifica dei paesi più vecchi in virtù della sua ingente popolazione: 617 milioni erano gli anziani nel 2015, destinati a crescere esponenzialmente.
Nel 2050, tra i primi dieci paesi più popolati, cinque saranno asiatici con India e Cina rispettivamente al primo e secondo posto (1,57 mld e 1,47 mld), seguiti dagli USA con “soli” 397 mln. (Le due nazioni avranno però traiettorie di invecchiamento differenti, dovute al diverso tasso di fertilità: quando l’India l'avrà superata per popolazione nel 2030, la Cina avrà solo la metà dei suoi cittadini anziani, 128,9 mln contro 238,8 mln).
E l'Europa?
Il trend demografico dell’Unione Europea da qui al 2060, come traspare da “The 2015 Ageing Report” della Commissione (marzo 2015), non sembra punto roseo.
Anche nel vecchio continente, tasso di fertilità, aspettativa di vita e flussi migratori condizioneranno in modo drammatico il futuro.
Nel 2050, se non cambia il trend attuale, l'Europa continuerà ad essere il continente più vecchio con gli anziani oltre il 25% (erano il 17,5% nel 2015), e tutti i paesi tranne due - (Kosovo e Islanda) – aventi almeno il 20% di soggetti ultra sessantacinquenni.
Un processo di invecchiamento irreversibile, che porterà i soggetti anziani, già dal 2020, “per la prima volta nella storia”, a superare gli individui sotto i cinque anni di vita: nel 2050 li doppieranno, 15,6% contro 7,2% di giovanissimi.
Un fenomeno inarrestabile, che posto in sistema con l'aumento complessivo della popolazione mondiale - destinata a toccare i 7 mld. entro il 2050 ed a superare i 9 mld. entro la fine del secolo – fa presagire un vecchio continente sempre più chiuso in se stesso e circondato da realtà demograficamente più dinamiche.
(Le proiezioni per la UE e UK suggeriscono solo un leggero incremento di popolazione nei prossimi 35 anni - saremo 526 mln. nel 2050 -, dovuto essenzialmente al perdurare del fenomeno migratorio).
Uno scenario che studiato con modelli di simulazione appropriati, delinea inoltre, da qui al 2060, una graduale diminuzione (-8,2%) della forza utile di lavoro (i soggetti in età compresa tra i 20 – 64 anni “impiegabili” nel processo produttivo): 19 milioni di persone lavorativamente non più utilizzabili (nell’area Euro la percentuale di caduta sarà del 9,2%, pari a circa 14 milioni di lavoratori).
Ed un livello di occupazione (età 20-64) che, raggiunto il picco di 215 milioni nel 2022, inizierà a scendere sino a 202 milioni nel 2060.
Cosa dedurre dal quadro su esposto? Di seguito alcune considerazioni per il nostro Paese:
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l’invecchiamento della popolazione richiederà nei prossimi anni nuove politiche di welfare ed investimenti ulteriori nella sanità pubblica, sostenibili solo con un allargamento della base contributiva ed una diminuzione dei servizi prestati oggi in forma universale;
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il fenomeno migratorio, proveniente soprattutto dalla fascia sub sahariana – (quella con TFR pari o superiore a 7 figli per donna) - è destinato a continuare indefinitamente: le promesse di accordi bilaterali tra UE e singoli stati volte ad incentivare le economie locali rischiano di infrangersi sul dato numerico delle popolazioni autoctone.
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l'inclusione di nuovi cittadini immigrati, favorita dal perdurare del fenomeno migratorio, potrà risultare funzionale alle esigenze della nostra società nell' ottica di un “riempimento demografico” (anche a compensazione della citata riduzione della forza utile da lavoro) e del necessario allargamento della base contributiva;
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l’accoglienza, però, non dovrà essere generalizzata - pena la “belgizzazione” del paese ospitante -, ma strettamente controllata ed attagliata alle necessità socio-economiche di chi accoglie, mediante l'individuazione di percorsi di graduale “assorbimento” nel quadro giuridico e culturale locale, tenendo bene a mente che l' “integrazione” è tale solo in riferimento al nostro sistema socio-valoriale;
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le coppie DINK (Double Income, No Kids: “doppio stipendio nessun figlio”), ormai comuni tutte le società occidentali, sono destinate a rimanere determinanti per lunghi anni, essendo il prodotto di una molla perlopiù culturale (si pensi solo alle reazioni sollevate dalla recente, sacrosanta – magari discutibile nella forma – campagna per il “Fertility day”).
Occorrerà allora trovare strumenti che rendano molto conveniente fare figli, così come lo è oggi cambiare gli infissi di casa, o rottamare una macchina vecchia.
Misure urgenti, concrete, che vadano direttamente nelle tasche delle famiglie e ne influenzino la qualità della vita; cose che i cugini d'oltralpe fanno da anni.
Ma soprattutto iniziative di tipo culturale, perché la denatalità che - suole ricordare, è fenomeno trasversale a tutti i ceti sociali, non solo a quelli meno abbienti -, risulta in caduta libera, come ha recentemente scritto l’Economist, non solo in stati come l’Italia e la Grecia che molto han sofferto la crisi, ma anche in realtà come l’Australia e la Norvegia, che l’hanno appena sfiorata; ed in nazioni come la Danimarca, in cui enormi sono stati, nel tempo, gli interventi pubblici, economici o mirati ai congedi parentali, a sostegno della genitorialità.
D’altronde, il nostro Paese ha iniziato a fare meno figli molto prima del 2008.
Se negli anni Cinquanta – come ha recentemente scritto Giulio Meotti – il tasso di fecondità italiano era tra i più alti d’Europa (2,5 figli per donna, secondo solo a quello della Francia), già nel 1987 (nel pieno di una fase espansiva) , il TFR era sceso in molte regioni italiane ben al di sotto dell’unità (la Campania, in quegli anni tra le regioni più feconde con un TFR pari a 1,80, si posizionava comunque dietro alla Svezia, forte di 1,87).
Cosa fare allora? Tanto per iniziare, basterebbe - come ci ricorda Caro Blangiardo su IL FOGLIO del 25 agosto u.s. - riprendere alla mano un documento di 40 pagine denominato “Piano Nazionale per la Famiglia” (http://www.politichefamiglia.it/media/1055/piano-famiglia-definitivo-7-giugno-2012-def.pdf), approvato nel 2012 dall’Esecutivo Monti, senza che da allora abbia avuto alcun seguito.
In esso sono indicate le direttrici da seguire per una politica nazionale di supporto alla famiglia, tra cui misure di equità fiscale ed economica per dare ossigeno ai nuclei familiari, provvedimenti di natura abitativa finalizzati all’acquisto ed all’affitto di case da parte di giovani coppie, azioni di sostegno anche economico alle genitorialità ed alla cura dei figli ecc..
Eppoi tante, ma tante altre campagne a sostegno della fecondità (magari migliori di quella appena conclusasi), a dispetto delle tante anime belle che vivono nel nostro Paese, pronte a tacciare come “di regime” qualsiasi azione in tal senso.
Sarebbe un primo passo per evitare la fine per consunzione di una società, di una civiltà.
Perché di questo, in fin dei conti, si tratta.
La storia è lì a ricordarcelo; e se è vero, come è vero, che sovente non si ripete, è pur certo - come ha recentemente ricordato il generale Camporini - che molto spesso fa rima.
(foto: U.S. Army)