Il Congo come un “non luogo” ai primordi del mondo per citare Joseph Conrad ed il suo “Cuore di tenebra”, una terra che si nutre di sangue e dello stesso silenzio assoluto che il protagonista del racconto conradiano Marlow ascoltava risalendo il corso del grande fiume disseminato di mangrovie.
L’uccisione dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio e del carabiniere scelto Vittorio Iacovacci ha fatto emergere la Repubblica Democratica del Congo da quel “silenzio assoluto” con il rischio massiccio della sovraesposizione mediatica sulla vicenda personale di due servitori dello Stato uccisi in terra straniera ma che getta una cappa plumbea sugli interessi posti in gioco in quel vasto quanto sconosciuto (ai più) territorio africano.
Il Congo è vittima di quella che è stata definita “maledizione delle risorse” ed è inserito a pieno titolo tra i pezzi pregiati del nuovo “scramble for Africa” lanciato dalla Cina. Nel Paese si trovano legno, rame, cobalto, coltan, diamanti, oro, zinco, uranio, stagno, argento, carbone, manganese, tungsteno, cadmio e petrolio; accanto alle tradizionali risorse naturali si trovano minerali diventati essenziali con il rapido avanzamento tecnologico degli ultimi anni e che fanno gola alle grandi potenze.
Su tutti il coltan congolese, ad alto tasso di tantalite, è una terra rara essenziale per la produzione di telefoni cellulari, telecamere, computer. Il tantalio estratto ed utilizzato sotto forma di polvere metallica serve a costruire condensatori ad alta capacità e ridotte dimensioni, ottimizzando il consumo di corrente elettrica nei dispositivi hi-tech di ultima generazione. L’80% del coltan in Congo viene estratto nella regione del Nord Kivu, che è proprio il territorio soggetto alla massiccia presenza di gruppi armati – organizzati a volte come veri eserciti regolari – in lotta tra loro per il controllo dei giacimenti minerari e della manodopera ridotta in condizione di semischiavitù.
L’altro importante tesoro presente nel sottosuolo congolese è il cobalto, terra rara che ha spinto la Repubblica Popolare Cinese a lanciare una sorta di OPA neocoloniale nell’Africa centrale. In Congo si estrae il 60% del cobalto mondiale e la sua importanza nella produzione di componentistica per strumentazione ad alta tecnologia era stata intuita dai cinesi prima di tanti altri, tant’è vero che ad oggi è proprio Pechino a detenere sul mercato mondiale una sorta di monopolio sull’estrazione, la lavorazione e la vendita del cobalto.
In Congo il 50% del comparto minerario del cobalto è di proprietà di società cinesi e la conquista del mercato da parte del “dragone” è iniziata nel 2007 con l’accordo “minerali per le infrastrutture”: un consorzio di società statali cinesi formato ad hoc con il nome di “Sicomines” si impegnò con le autorità congolesi ad investire oltre 6 miliardi di dollari nelle infrastrutture della Repubblica Democratica del Congo in aggiunta a circa 3 miliardi di dollari nel settore minerario, per ottenere diritti di concessione ed estrazione di 10 milioni di tonnellate di rame e 600.000 tonnellate di cobalto per un periodo di 25 anni, per un valore complessivo stimato tra i 40 e gli 84 miliardi di dollari.
Gli investimenti infrastrutturali – con la costruzione di strade, autostrade, ospedali, ferrovie e strutture per servizi di vario tipo – sono essenziali per uno Stato in via di sviluppo che punta ad aprirsi ai capitali stranieri. Gli strateghi di Pechino offrono prestiti a tassi d’interesse decisamente vantaggiosi ai Paesi africani in via di modernizzazione in cambio dell’ottenimento di concessioni per lo sfruttamento delle risorse principali prodotte nella regione. L’obiettivo perseguito è l’accesso preferenziale (e di fatto monopolistico) alle catene di produzione di materiali essenziali e, parimenti, soggetti a scarsità, per l’industria dell’alta tecnologia. Il risultato di una tale strategia è presto detto: per restare al cobalto congolese, il 90% viene esportato direttamente in Cina e lì lavorato e rivenduto sul mercato mondiale.
La Cina è diventata il primo partner commerciale della Repubblica Democratica del Congo ed il 45% dell’export Paese africano è diretto verso il colosso asiatico. Gli investimenti nello sviluppo delle infrastrutture digitali di comunicazione e delle tecnologie sostenibili – che sono il grimaldello attraverso il quale Pechino punta a diventare una superpotenza e ad invertire verso oriente l’asticella del potere geopolitico mondiale – trovano la loro “sostenibilità” nella penetrazione aggressiva di società pubbliche cinesi (nella quale è abbastanza facile intravedere la longa manus politico-militare) nei mercati emergenti con i metodi di cui si è parlato.
L’idea dietro al “neocolonialismo” cinese è pragmatica e priva del “fardello umanitario” degli occidentali: USA ed europei in Africa hanno sempre tentato di influenzare la politica interna degli Stati africani utilizzando come ricatto la concessione di investimenti, i cinesi al contrario non hanno mai avuto troppo interesse per chi governasse e con quali metodi purché favorisse gli interessi di Pechino.
Nel tormentato passaggio dagli “imperi militari” agli “imperi tecnologici” (per utilizzare una fortunata espressione del politologo Ennio Di Nolfo) il petrolio resta ancora la principale risorsa contesa ma questo perché, per i mercati del futuro, quelli delle terre rare e dei minerali utilizzati nell’industria hi-tech, eventuali frizioni sono state schiacciate sul nascere dalla massiccia immissione preventiva di capitali cinesi in Africa.
Foto: MONUSCO (Missione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione nella Repubblica Democratica del Congo)