Diamo ragione a Leone Tolstoj secondo il quale “ci sono eroi che si dedicano interamente alla loro missione e che periscono senza raggiungere una meta”. Uno fra questi fu, senza dubbio, uno dei protagonisti del fallimento del colpo di stato a Mosca del 18-21 agosto di trent’anni fa: il generale Alexander Ivanovich Lebed.
Avrei voluto fare di questo pezzo un’ucronia sulla vittoria dei golpisti e sulla sopravvivenza dell’Unione Sovietica, poi mi sono reso conto che la miseria umana e materiale di Gennady Yanayev e della sua banda era talmente profonda e insanabile che nessun colpo di fortuna avrebbe potuto rovesciare le sorti: il loro destino era segnato. O forse no?
Ci fu un momento, nel breve volgere di una notte, quella fra il 20 e il 21 agosto, in cui le cose avrebbero potuto prendere una piega imprevedibile: la presa del quartier generale di Boris Yeltsin, la messa fuori gioco e forse l’eliminazione fisica di “corvo bianco” e dei dirigenti della resistenza russa al colpo di coda del PCUS. E forse l’inizio di una guerra civile russo-sovietica dalle conseguenze inimmaginabili…
Ma cerchiamo di capire che cosa successe. Il 20 agosto il comandante e altri alti ufficiali del gruppo Alpha, unità d’élite del KGB, il generale Viktor Karpukhin si mescolarono alla folla dei sostenitori di Yeltsin, insieme al vicecomandante delle truppe aviotrasportate, il generale Alexander Lebed, allo scopo di valutare la fattibilità di un’operazione militare. Era innegabile che si preparava un bagno di sangue.
Lebed, con il consenso del suo superiore Grachev, tornò al quartier generale del leader russo e informò in segreto che l'attacco sarebbe iniziato quella notte stessa alle due. Questo semplice gesto permise agli uomini e alle donne radunati nella “Casa bianca” di Mosca di organizzare una difesa efficace e fu alla base del rapido dissolvimento della giunta golpista nelle ore successive.
Lebed non era arrivato lì per caso: era stato protagonista nella maggior parte dei conflitti militari dell'ultimo decennio dell'Unione Sovietica: dal 1988 al 1991 aveva comandato la 106ª divisione aviotrasportata, impiegata prima in Afghanistan e poi nella repressione delle rivolte in tutto il Caucaso sovietico, in Georgia (1989) e Azerbaigian (1990). Proprio nel Caucaso rifiutò di usare la brutalità per reprimere i manifestanti.
In seguito divenne vicecomandante delle truppe aviotrasportate russe, proprio la posizione in cui lo colse il colpo di stato del 1991. Il suo prestigio, anche e soprattutto presso l’opinione pubblica russa, crebbe di molto per il ruolo che ebbe, in qualità di comandante della 14ª armata russa nella fase militare del conflitto in Moldova tra i separatisti della Transnistria e il governo moldavo nel 1992. Grazie a lui, ancora oggi la Federazione russa esercita il potere, sia pure indirettamente, in quella striscia di territorio fra la Moldova e l’Ucraina.
La crescente visibilità mediatica e popolarità di Lebed gli tirò addosso le critiche dell’establishment di tendenze più liberali, secondo cui un “partito della guerra” stava alzando la testa nel paese1.
Lebed, a dire il vero, non era un futuro golpista, ma un critico costante della corruzione e della leadership incompetente: le sue dimissioni dall'esercito nel 1995 furono accolte, come dicono i suoi biografi, per “averle offerto, una volta di troppo al ministro della Difesa dopo una serie di scontri”2.
Lungi dall’incrinarne l’immagine, le dimissioni dall’esercito gli misero il turbo per partecipare alle elezioni presidenziali del 1996, giungendo terzo con poco meno del 15% dei voti, e per diventare il dominus delle forze armate russe, dalla poltrona di presidente del consiglio di sicurezza, in teoria secondo solo a Yeltsin. Mettendo fine alla prima guerra russo-cecena del 1994-1996, dette prova di essere “uno dei pochi politici russi pragmatici – o scaltri – abbastanza da rendersi conto che i combattimenti nel Caucaso settentrionale dovevano finire”.
All’inizio 1997 si concesse persino un tour “in stile presidenziale” negli Stati uniti, ricevendo un prestito dal Fondo monetario internazionale che permise alla Russia di pagare lo stipendio ai dipendenti pubblici e partecipò all’inaugurazione della seconda presidenza di Bill Clinton. Da qui, il nostro uomo sembrava pronto per spiccare il volo per il Cremlino di Mosca. Invece, il suo stile caustico e la reputazione di mina vagante lo portarono allo scontro diretto con l’inner circle di Yeltsin.
Lebed a quel punto, novello Cincinnato, lasciò la politica moscovita per sempre, ritirandosi a fare il governatore di Krasnoyarsk Krai, una enorme regione nel cuore della Siberia. Lungi dal passare gli anni come un generale in pensione, continuò a essere incontrollabile e a scoprire molti altarini, cadendo in conflitto con i “baroni” locali che lo avevano aiutato a diventare governatore, ma che in seguito denunciò come "mafiosi". Nel frattempo, aveva chiamato Mosca, dove Yeltsin intanto era stato sostituito da Vladimir Putin, per chiedere al potere centrale di fare chiarezza sugli affari sporchi dei suoi ex grandi elettori. A quel punto la morte lo colse in un incidente con l’elicottero che ricorda, ai più maliziosi, quello di un certo Enrico Mattei. Ma non si dovrebbe pensare male…
Così, si concluse la storia, umana e politica, di uno dei protagonisti dell’ultimo decennio del Ventesimo secolo.
“Dalla costituzione fisica di un orso e con mani come morse, era burbero, schietto e non si inchinava a nessuno": fin da subito mise in chiaro che “la democrazia non era la cosa più importante per lui: lo era il Paese".
Avrebbe potuto ricalcare le orme di Napoleone o di De Gaulle, come molti gli avevano preannunciato; tuttavia, niente andò come ci si sarebbe aspettati. “Un bravo giocatore che perde a scacchi è sinceramente convinto che la sua perdita sia dovuta a un proprio errore e ricerca quest’errore all’inizio del proprio gioco; ma dimentica che a ogni nuova mossa, a mano a mano che si svolgeva la partita, sono stati commessi altri errori del genere; che nessuna delle sue mosse è stata perfetta”, per dirla di nuovo con Tolstoj.
Ci piace ricordarlo, in conclusione, con l’accesa discussione che ebbe col ministro della difesa sovietico Verennikov, nel pomeriggio del 20 agosto:
"Stanno costruendo barricate. Sarà impossibile evitare numerose vittime", disse Lebed.
"Sei un generale ed è tuo dovere essere ottimista", ribattè il superiore.
Dopo di questo, Lebed - d’accordo con altri colleghi - corse a informare e organizzare i patrioti asserragliati nella Casa Bianca.
Chi l’ha detto che un militare deve sempre ubbidire agli ordini, anche quelli più sanguinari contro gli inermi?