Il prezzo “civile” della guerra d’Ucraina

(di Andrea Forte)
12/04/22

Si dice che la prima vittima della guerra sia la verità. Non è assolutamente vero, la prima vittima della guerra sono i civili, che vengono uccisi. I civili uccisi vengono poi usati per uccidere la verità.

La guerra in questione, quella in Ucraina, è una guerra di aggressione, e in una guerra di aggressione c’è un responsabile principale che è l'aggressore, e da questo, da questa responsabilità non si può prescindere, il che non vuol dire che questa responsabilità esaurisca le altre responsabilità più specifiche, ovvero quelle di chi materialmente abbia poi deciso e perpetrato le uccisioni.

L’esplosione della questione della violazione dei diritti umani, che è connaturata ad ogni guerra, è avvenuta nello specifico in questo conflitto in corrispondenza della ritirata, il 31 marzo, delle truppe russe dal tentato assedio di Kiev. Ad essa è seguito il ritorno di quelle ucraine e la loro entrata nella cittadina di Bucha.

Il 3 aprile giungono le immagini dei massacri di civili ucraini ivi commessi. Solo in questa città si contano quasi 400 civili uccisi, e altre centinaia stanno emergendo nei comuni dei dintorni. Da subito questi morti, e tutti quelli che ad essi si stanno aggiungendo, scoperti mano a mano che l’allontanamento dei russi si completa, sono diventati proprietà della guerra, ovvero proprietà della propaganda di entrambe le parti. Il che non vuol dire che i fatti non siano accaduti. Se però i fatti sono fatti, non per questo diventano ipso facto verità giudiziaria, ed è auspicabile che in futuro, perché a guerra in corso è impossibile, un lavoro giudiziario indipendente individui le precise e personali responsabilità.

Gli accertamenti attuali, condotti in base a fonti indipendenti (perché esistono criteri di attendibilità, indipendenza, affidabilità etc…!) imputano ad elementi militari dell’invasore i crimini commessi.

Ovviamente gli accertamenti non sono processi, soprattutto in quanto a capacità di esaurimento di tutte le informazioni, dunque se indicano dei responsabili, non ne indicano ad esempio i moventi (Ordini? Truppe fuori controllo?…) né possono accertare quanti dei cittadini ad oggi scomparsi siano morti e quanti invece vivi, ma fuggiti, e molto altro ancora.

Qui va sottolineata una cosa. Qualunque imperfezione appartenga, e ce ne sono eccome, all’occidente democratico, esso è riuscito a creare un modello di potere compatibile con la verità giudiziaria, anche quand’essa va in una direzione opposta al potere e al volere politici. L’intenzione e il sistema sono perlomeno strutturati in questa direzione, fragile quanto si voglia, ma comunque questa è.

Però, se è vero che il diritto deve avere la sua parte nella verità, la verità non appartiene solo al diritto, ma anche alle propagande che la rubano, non appena essa sorge. Perché i fatti, si diceva, sono fatti e come tali hanno un peso, che qui va analizzato geopoliticamente.

In geopolitica i morti sono armi quanto i vivi. Più questa morte in-civile è tragica, violenta, criminale, più le opposte propagande si armano e le armi sono proprio loro, i morti civili.

Partendo dal fronte a cui quei morti appartengono, quello ucraino, cosa diventa Bucha e tutti gli altri luoghi del ritrovamento? Da mappa geografica diventano mappa del sangue, mappa del dolore. Come tali i morti di Bucha trasfigurano in mito, identità, memoria, futuri monumenti e strade, ma ora e più ancora diventano, rancore, odio, guerra, i morti cioè servono a schierare i vivi. In questo senso i morti vanno “tenuti in vita”. Servono a scavare un fossato tra fronte interno, da compattare, e nemico invasore, che perde, per colpe oggettive e per propaganda, la qualifica del chi (chi è l’invasore) per assumere quella del che cos’è l’invasore (un criminale, un mostro). All’esterno invece serve a fare pressione, a spingere il mondo a cui si appartiene, o si vorrebbe appartenere, ad aiutare il più possibile l’invaso, oltre che a impedire che si creino varchi di intesa che magari scavalchino l’aggredito, vittima assoluta e dunque imprescindibile.

Per chi invece è accusato di essere responsabile dei morti, la battaglia è in un certo senso più facile, perché è sufficiente insinuare il dubbio, reiterando continuamente il “non è vero”. “È tutto un trucco, un falso”, “è propaganda”, “non è successo” oppure “è successo, ma non siamo stati noi” etc… sono formule tipiche. Non importa quanto siano attendibili le prove che vengono presentate, il “non è così” non deve dimostrare l’infondatezza della prova, ma far dubitare chi ascolta. Non è rivolta al fatto, ma a chi lo osserva. Ai morti come arma viene opposto il dubbio come arma, purtroppo molto spesso anche ai morti veri viene opposto il dubbio come arma.

Finché si rimane in ambito di propaganda, dunque dentro progetti geopolitici contrapposti, i morti non possono né riposare né “esprimere” la loro verità immediatamente. Anche da morti devono lottare per essa, proprio perché sono morti. In un certo senso con la propaganda, soprattutto quella negazionista, continuano a morire, continuano a essere uccisi e dunque non muoiono mai definitivamente.

Questo tipo di vittime non determina il destino della guerra, ma la sua qualità, la sua mitologia. Questi morti “parlano”, ma non “decidono”.

C’è una storia che riguarda i nostri morti, quelli italiani delle foibe, trucidati dai titini perché appunto italiani. Su di essi, sui loro corpi già mietuti, già dissacrati, venivano gettati cani neri, in omaggio al folclore istriano-balcanico secondo cui quei cani, di quel colore, latrando, avrebbero impedito la pace a quegli esseri umani anche nell’aldilà. La propaganda che oggi nega quei morti in Ucraina è come un cane nero, che latra su di loro, che li tormenta, che li nasconde in una foiba digitale, buia, bugiarda. Certo, lo si diceva, anche la propaganda che li afferma, li utilizza, ma almeno ne rispetta il fatto di base, la morte violenta avvenuta.

Ungaretti nel 1945 compose una lirica, intitolata Non gridate più, inserita nella raccolta Il dolore, per ricordare il bombardamento del cimitero Verano a Roma del 19 luglio del 1943.

Così recitava:

Cessate d’uccidere i morti,

Non gridate più, non gridate

Se li volete ancora udire,

Se sperate di non perire.

Hanno l’impercettibile sussurro,

Non fanno più rumore

Del crescere dell’erba,

Lieta dove non passa l’uomo.

In essa sembrano riecheggiare proprio quei lamenti di cani neri.

Un po’ di diritto

Si deve precisare che la stessa verità giudiziaria è destinata a divenire oggetto di opposte fazioni e propagande. Se ne può mettere in dubbio la legittimità, la metodologia, l'imparzialità, la sentenza etc…

Per quanto riguarda il caso in questione, ovvero i crimini contro i civili avvenuti in Ucraina, essi sono oggetto di due organismi internazionali. La Corte Internazionale di Giustizia, che è un organismo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) e che può limitarsi solamente a giudicare i contrasti fra gli Stati, non i crimini personali. Nel caso attuale essa ha chiesto alla Russia di porre fine all'invasione, ma questa ha rifiutato di partecipare all'udienza. Per quanto riguarda invece il secondo organismo, si tratta della Corte Penale Internazionale dell’Aja, in realtà già attiva sul caso ucraino. Essa non è un organismo dell'ONU, ma ad essa possono essere deferite situazioni che esulano dalla sua diretta giurisdizione, qualora uno stato, pur non aderendovi, ne richieda l'intervento e si dimostri pronto a collaborare, come l’Ucraina ha mostrato di voler fare al procuratore della Corte, Karim Khan, i cui investigatori sono presenti sul territorio ucraino. A tale Corte non aderiscono né Russia né Ucraina né Stati Uniti, ma ciò appunto non impedisce la sua attuale attivazione.

Tali tribunali non hanno né avranno potere assoluto, incontreranno ostacoli di ogni tipo, ma rappresentano per ora quanto di più indipendente e imparziale esista, e soprattutto delineano un confine morale preciso, perché, se è vero molto spesso che non è il diritto a decidere della potenza, è anche vero che nelle democrazie la potenza non ha ogni diritto.

I crimini di guerra sono crimini di guerra, a prescindere dal merito delle ragioni che si possono avere in un conflitto.

Foto: web