Mentre l'attenzione mondiale è focalizzata sul Medio Oriente, il Mar Cinese Meridionale ed il Venezuela, anche l'Asia Centrale potrebbe essere presto il teatro di una nuova ondata destabilizzatrice. In particolare negli ultimi tempi sembra che la situazione interna nella Repubblica del Tagikistan sia andata incontro ad un netto peggioramento.
Nonostante vari anni di notevole crescita, nel corso del 2018 l'economia del paese centroasiatico ha dato notevoli segni di rallentamento, per altro in linea con quanto sta avvenendo a livello globale. Tuttavia, proprio in Tagikistan, la frenata dell'economia potrebbe fare da catalizzatore per l'inizio di qualcosa di molto serio.
Paese centro-asiatico ed ex-sovietico privo di sbocco al mare, il Tagikistan fu teatro, tra il 1992 ed il 1997, di una sanguinosa guerra civile conclusasi solamente grazie al determinante intervento militare della Russia che, da allora, mantiene nel paese un robusto contingente militare di circa 10-15.000 uomini e sostiene attivamente il governo del presidente Emomali Rahmon, ininterrottamente al potere dal novembre 1992. Ed è stato proprio il vice-ministro degli interni della Federazione Russa, Igor Zubov, a lanciare l'allarme il 28 gennaio 2019, affermando che i servizi segreti russi hanno registrato nel corso degli ultimi mesi un importante spostamento di militanti dell'ISIS e di elementi facenti parte delle fazioni più radicali dei Talebani da varie zone dell'Afghanista e persino del Pakistan verso il confine del Tagikistan, dove hanno già ingaggiato sporadicamente in combattimento sia i militari tagiki che quelli russi. Il 28 agosto 2018, per esempio, aerei non identificati (quasi sicuramente russi) hanno bombardato una zona boschiva situata sul versante afghano del confine tra i due paesi dopo che 2 guardie di frontiera tagike erano morte in uno scontro a fuoco all'atto di respingere un tentativo di infiltrazione islamista.
Un contagio islamista in Tagikistan può facilmente espandersi alla Russia grazie alla cosiddetta "carovana dei migranti". Secondo le ultime stime delle Nazioni Unite infatti, la popolazione del Tagikistan dovrebbe aggirarsi intorno a 8.574.000 persone; tuttavia, secondo un report stilato dalla organizzazione non governativa russa "Federazione dei Migranti" oltre 1.745.000 Tagiki si sarebbero trasferiti in Russia nel solo periodo tra gennaio e settembre 2018 (una cifra di poco inferiore al numero totale di migranti arrivato nell'intera Unione Europea nel biennio 2016-17). Se teniamo in considerazione il fatto che il tipico migrante-lavoratore tagiko in Russia è maschio, di età compresa tra 18 e 45 anni, e che la popolazione tagika in quella fascia d'età corrisponde a circa 5.498.000 persone (dei quali 2.723.000 uomini e 2.775.000 donne) sembrerebbe quindi che quasi la metà della popolazione maschile tagika attiva si sia trasferita in Russia, con il rischio di provocare una doppia bomba sociale e securitaria in patria come all'estero.
A ben vedere però, quelli tagiki non sono gli unici dati preoccupanti per Mosca; sempre secondo l'ong "Federazione dei Migranti", nello stesso arco temporale, tra il gennaio ed il settembre 2018, circa 3.400.000 cittadini dell'Uzbekistan (pari ad oltre il 10% della popolazione totale del paese) si sono anch'essi trasferiti in Russia. Gran parte dei migranti-lavoratori dell'Asia Centrale serbano poi sentimenti di rancore verso le leadership politiche e le élite dei rispettivi paesi, colpevoli ai loro occhi della drammatica situazione sociale locale venutasi a creare nell'ultimo decennio, e ciò li espone notevolmente al rischio di contagio da parte delle ideologie estremista. A titolo esemplificativo basterà ricordare che sono stati oltre 11.000 i "combattenti stranieri" che l'ISIS è riuscito a reclutare negli anni tra gli abitanti delle repubbliche ex-sovietiche dell'Asia Centrale.
Se la situazione di crisi dovesse perdurare indefinitamente, il Tagikistan e l'Asia Centrale tutta potrebbero presto trasformarsi in un nuovo focolaio d'instabilità.
Foto: MoD Fed. russa