Italia e Niger. Nonostante la distanza geografica che corre, le vicende geopolitiche dei due Paesi continuano ad intrecciarsi come fili della stessa trama della medesima tela mediterranea tessuta da una Penelope ormai stanca di disfare durante la notte quanto filato al mattino. La cronaca, pur essendo estremamente scarna, offre lo spunto per diverse considerazioni che, sia pur diplomaticamente, risulteranno in gran parte sgradevoli.
Dopo diversi mesi in cui si sono succeduti incontri, assessments , lettere d’intenti, voti parlamentari e pianificazioni finanziarie e logistiche, il governo di Niamey, mercè il megafono generosamente offerto da un’emittente pubblica francese, ha di fatto disconosciuto la necessità di una missione militare italiana, fatta salva una nostra presenza in funzione puramente addestrativa. Gli equilibrismi dialettici franco-nigerini fanno da sfondo a rapporti diplomatici in cui la politica di potenza francese personificata da Macron, mette a segno l’ennesimo colpo sfruttando congenite ed inguaribili debolezze unite a colpevoli distrazioni.
Così come durante il Torneo 6 Nazioni la nostra Nazionale di rugby non è stata considerata degna dello Stade de France, così i nostri esecutivi, l’attuale in decadenza di mandato e molto probabilmente anche il prossimo venturo post elettorale, non sono ritenuti in grado di interpretare una parte di peso nell’agone politico quanto meno regionale.
A fronte di un propagandato “Trattato del Quirinale”, che non può né mai potrà avere lo stesso peso politico del Trattato dell’Eliseo del 1963 che vedeva la Germania quale potente controparte, dobbiamo prendere atto di una privazione di autonomia decisionale che, ancora una volta, ci umilia. Nel Mediterraneo, nel “nostro” cortile di casa libico, dove gli interessi dell’ENI sono significativi, l’Italia ha dovuto subire l’improvvida volitività anglo-francese; in precedenza in Somalia sono stati gli americani a crearci problemi finanche per poter atterrare a Mogadiscio, senza contare la partecipazione a missioni fuori area che, come in Afghanistan ed in Irak, nulla avevano a che vedere con la nostra postura internazionale, votata ad un ruolo certamente non globale.
Per rimanere in ambito transalpino non si può non rammentare la vicenda che ha visto la crisi finanziaria di Fincantieri nella querelle STX, passando per il controverso Trattato di Caen che dovrebbe regolamentare i confini marittimi italo francesi, per arrivare agli accordi franco libici che privilegiano (neanche a dirlo) il generale Haftar, diretto concorrente di Serraj, sostenuto dall’Italia.
In sintesi, più che di alleati, tanto per rimanere in un ambito mercantile e liberista, abbiamo a che fare con una concorrenza spietata che, nel caso francese, non intende dismettere le vesti sovraniste e colonialiste.
L’Italia in Africa ha il preciso dovere di curare gli interessi nazionali nel campo dell’energia, specie dopo l’avvilente esito del confronto (?) in acque cipriote con l’altro alleato (?), il turco Erdogan; il problema consiste semplicemente nello stabilire chi è in grado di esercitare una reale politica di potenza e soprattutto chi può concretamente esercitare il concetto di profondità strategica.
Che l’Italia si trovi, as usual, in una posizione subordinata ed ancillare è un dato di fatto, come è facilmente intuibile che la resistenza francese ad una nostra presenza deriva dal fatto che mai e poi mai l’Esagono accetterebbe forze potenzialmente operative che non siano sotto il suo diretto comando, in particolare in un’area dove si combatte e dove gli interessi sono ingenti e molteplici, al di là del richiamato contrasto ai flussi migratori e jihadisti.
Francafrique nell’area del Sahel, dove continua a perseguire una linea espansiva geograficamente orizzontale, protegge gli interessi della Total, estrae uranio, vende armi per centinaia di milioni, e soprattutto continua ad imporre il Franco CFA, una moneta che impedisce un’effettiva indipendenza valutaria delle ex colonie che, ancora adesso, versano quota parte delle loro riserve al Tesoro francese che, di conseguenza, detiene il potere di stabilire quanta carta moneta africana stampare. Cosa di più facile, dunque, nell’ottenere dal governo nigerino una dichiarazione radiofonica unitamente a spontanee (?) manifestazioni di protesta contro una presenza militare straniera (italiana) quando sul terreno già operano francesi ed americani?
Fin qui la Francia; e l’Italia? Cedere allo sconforto per una situazione geopolitica che ci vede sempre di più inani sarebbe facile, ma forse è arrivato il momento di analizzare ciò che “siamo”; protetti da un benevolo bipolarismo, abbiamo sempre approfittato della protezione occidentale per evitare di assumere ruoli di responsabilità. Due sono i concetti ben presenti e radicati nella cultura politica francese: Nazione e senso dello Stato, princìpi che in Italia risultano quanto mai eterei, surrogati dall’atlantismo prima e dall’europeismo poi.
Se è vero che l’Italia è riuscita a trovare una congrua dimensione commerciale, è però altrettanto vero che la mancanza di coscienza e cultura nazionali hanno impedito una completa evoluzione del Paese, fattore che ora manca per poterci confrontare con la concorrenza portata da tutti, in primis dai nostri alleati (?).
Nel contesto di una Nazione non ancora politicamente evoluta anche il pensiero geopolitico è rimasto arretrato, e questo ritardo non ha (colpevolmente) permesso di apprezzare i cambiamenti che si sono susseguiti ed ancora fanno sussultare territori, identità, egemonie e nazionalismi; i Paesi che hanno continuato a coltivare questa cultura hanno dunque un vantaggio rispetto a noi: un elevato e solido senso di appartenenza alla propria Nazione che prescinde dall’aspetto ideologico per puntare a fatti e strategie vincenti capaci di dare piena sovranità ed un’economia forte e stabile non disgiunta dal contesto politico interno e soprattutto estero.
L’Italia, almeno regionalmente, ha tutti i numeri per poter essere strategica, eppure politicamente si volge sempre su sé stessa; nei nostri emicicli si attende sempre che qualche altro giocatore faccia la sua mossa risparmiandoci l’onere di decidere, oppure si continua a sfruttare uno sterile attendismo al coperto dell’istituzione internazionale di turno sperando nello buona sorte della Stella che continua a rifulgere sulla corona di quella ragazza che, anche se potesse parlare dai mille documenti dove compare, molto probabilmente ci coprirebbe di vergogna con un silenzio assordante.
Geopoliticamente, avendo perso dalla fine della guerra la capacità di poter avere una politica estera realmente autonoma, preferiamo interpretare il ruolo ondivago del battitore libero, temuto per le scelte imprevedibili ma al contempo e per lo stesso motivo, marginalizzato. L’Italia è potenzialmente utile a tutti: come base logistica per gli americani cui rimaniamo devoti a fasi alterne e talvolta autolesioniste; come base di proiezione mediterranea per gli interessi russi; come testa di ponte commerciale per i traffici commerciali della nuova via della seta cinese. Ma il rendersi utili se non indispensabili, se da un lato offre la prospettiva di dividendi, dall’altro ha un prezzo: valorizzare il proprio patrimonio strategico e culturale ricordando l’inevitabile propensione navale e marittima che la geografia ci ha naturalmente assegnato con la necessità di poter contare su una maturità politica che, tuttavia, ci atterrisce per le precise responsabilità che comporta.
Sorge il dubbio, guardando a Saipem 12000 ed alle esternazioni nigerine, che la classe politica italiana, attenta alla polemica minuziosa sul fronte interno, in realtà non sappia nemmeno con precisione quale sia il vero interesse nazionale, che malgrado sia costretta dalle circostanze storiche e politiche non abbia la benché minima intenzione di operare scelte strategiche.
Per poter prendere parte a pieno titolo alla politica internazionale, evitando così di toccare nuovamente l’umiliante fondo nigerino, sarebbe necessario che l’Italia prendesse coscienza di doversi confrontare con la realtà circostante, di doversi affrancare dalle comode ma vincolanti direttive provenienti dall’esterno, di doversi ispirare all’accezione più ampia possibile di quel concetto di Romana Virtus richiamata all’interno del cortile di Palazzo Salviati. Ci vogliono coraggio e preparazione ora drammaticamente assenti.
Flaiano scisse che “nel nostro Paese la forma più comune d’imprudenza è quella di ridere, ritenendole assurde, delle cose che poi avverranno”: forse è arrivato il momento di finirla di essere imprudenti.
(foto apertura: fonte presidenza della repubblica - Il presidente Sergio Mattarella con s.e.la signora N'Gade Nana Hadiza Noma Kaka, nuovo ambasciatore della repubblica del Niger, in occasione della presentazione delle lettere credenziali / foto seguenti: presidenza del consiglio, ministero della difesa)