L’Italia non può fare a meno di considerare l’Africa come un pilastro di fondamentale importanza per la propria sicurezza. Proiettata nel Mediterraneo centrale e con le coste nordafricane a poche miglia da quelle nazionali, per chiunque governi a Roma è impossibile pensare a una strategia che non guardi verso sud. Con quel misto di opportunità e pericoli che da sempre caratterizza il rapporto dell’Italia con il continente africano.
In questi ultimi decenni, l’Italia ha tuttavia spesso dimenticato il suo ruolo in Africa e anche le sue stesse possibilità di inserimento e influenza in quell’immenso continente. Il nostro antico spazio di manovra si è assottigliato sempre più gradualmente facendo diventare Roma un elemento attivo, ma sempre meno importante in tutto lo scacchiere africano, a vantaggio di altre potenze sia europee che extra-europee. Prove in questo senso ne sono arrivate dal Corno d’Africa, da cui l’Italia sembra quasi essere stata espulsa. Ma le conferme arrivano anche dalla Libia, dove l’impegno italiano ha rischiato di essere tramortito dalle mosse della Turchia e della Russia. Ma lo si vede anche nei rapporti con l’Egitto, che da partner fondamentale del Levante Vicino si è trasformato in un interlocutore difficile da gestire, su cui pesa l’ombra dell’affaire Regeni.
In questo contesto di inquietante “ritirata strategica”, esistono però delle necessità che rendono impossibile per l’Italia dimenticarsi dell’Africa. Perché è lì, sulle coste settentrionali ma anche nella fascia del Sahel, nel Golfo di Guinea così come in quello di Aden, che è posto uno dei “limes” dei nostri interessi strategici.
La proiezione italiana non può infatti essere racchiusa nel semplice bacino del Mediterraneo. Oggi si ripete in maniera ormai sempre più costante il concetto di “Mediterraneo allargato”. Ma questo può essere considerato per certi versi ormai quasi un punto di partenza: perché nel mondo globalizzato degli anni Venti del Duemila appare addirittura superato alla luce dei grandi flussi di persone, di capitali, di beni e di mezzi che si trovano al confine della stessa macroregione pensata dalla Marina Militare. E questo ci fa comprendere come sia ormai impensabile costruire una strategia di Difesa che non abbia i suoi avamposti proprio al confine di questa grande area strategica che supera non solo il Mar Rosso, ma anche il Golfo di Guinea.
La conferma è arrivata dallo stesso ministro della Difesa, che in un’intervista a Repubblica ha espresso delle frasi molto interessanti. Alla domanda sul ruolo della missione italiana in Mali, inserita nel contesto della Task Force Takuba, Lorenzo Guerini ha riposto ampliando subito lo spettro alle campagne antipirateria nel Golfo di Guinea e in Somalia, ritenendo un blocco unico tutte le missione italiane in quella enorme fascia africana.
La scelta di Guerini non è casuale. Osservando una carta geografica del continente, è facile notare che l’intervento nel Golfo di Guinea, quello in Niger e Mali, e quello in Somalia possono essere considerati dei veri e propri centri nevralgici degli interessi italiani che, se uniti con delle linee immaginarie, è come se costruissero una nuova linea di confine. Un limes che non rappresenta quello del territorio nazionale, evidentemente, ma quello che è da considerare a tutti gli effetti come un’area di interesse strategico primario per il Paese. Tutelare lì l’Italia significa non soltanto sostenere i nostri interessi nell’area, ma anche “esternalizzare” alcuni rischi che possono essere risolti prima ancora che deflagrino nel resto del continente. O addirittura vicino ai nostri confini (case study: la tratta di esseri umani in Libia).
Una sfida che chiaramente non ci vede da soli. L’Italia si trova a competere con potenze radicate da molto tempo in quelle regioni - in particolare la Francia - ma anche con nuovi attori emergenti che rendono sempre più complesso muoversi in piena autonomia.
La Cina, protagonista di una lunga e complessa fase di penetrazione nel continente africano, ha da tempo messo gli occhi su quelle regioni che un tempo erano appannaggio dei vecchi imperi coloniali europei.
La Russia, con la scelta di inserirsi nel conflitto libico e con l’accordo per la base navale in Sudan, ha posto i paletti per la sua presenza in tutto il Mediterraneo allargato. E infine non va dimenticata la Turchia, che ha non solo costruito una solida presenza politica e militare in Somalia - come ci ha ricordato il caso di Silvia Romano (v.articolo) - e in Libia, ma ha avviato una politica di forte espansione in tutta la fascia del Sahel, anche in quell’area dove sono intervenuti o interverranno i militari italiani. Tutto questo in uno scenario che vede muoversi anche altre potenze regionali sempre più dinamiche come le monarchie arabe e l’Egitto.
In un contesto così turbolento, la scelta obbligata per Roma è quella di puntare su questi avamposti per evitare di rimanere schiacciata da una conflittualità che può essere pericolosa. Sfida che richiede non solo una grande capacità tattica e diplomatica, ma soprattutto strategica. Difficile, se non impossibile, fare tutto da soli. E in un questo senso appare molto importante il richiamo a un rinnovato impegno della Nato sul fronte sud, quello appunto del Mediterraneo, evitando un coinvolgimento eccessivo e quasi esclusivo sul fronte orientale. Partita che dovrà essere giocata puntando anche su un riequilibrio dei centri di potere europei che appare sempre più imminente.
Lorenzo Vita (Centro Studi di Geopolitica e Strategia Marittima)
Foto: ministero della difesa / xinhua