La “Pace fredda” sinoamericana e il rischio di una “Guerra calda” europea

(di Emilio Tirone)
06/05/22

Nonostante il perdurare dei conflitti che ininterrottamente si sono succeduti dopo la fine della guerra fredda anche nella stessa Europa, non si sono dissolte le illusioni, euroccidentali ma soprattutto italiane, del raggiungimento di una pace perpetua, in cui ostilità e aspirazioni si possano comporre docilmente e naturalmente, tra leggi di mercato e altruistiche, quanto demagogiche, rinunce a ogni egoismo particolarista. La presente e crescente tensione tra la NATO e la Federazione Russa, esasperata dagli avvenimenti in Ucraina, che sta rendendo sempre più reale il rischio di una guerra diretta, freddamente invece indica, ancora una volta, due lezioni fondamentali:

1 ► la geopolitica non può prescindere dall’aspetto militare dei rapporti di forza, ovvero dalle capacità difensive e offensive degli attori in campo sullo scacchiere;

2 ► gli interessi geopolitici delle parti in campo prescindono dalle trasformazioni delle posizioni ideologiche e morali degli interpreti istituzionali del momento, riemergendo costantemente nella storia.

Nell’ambito dell’esercizio di tale disciplina, non tenere conto di queste leggi generali, o meglio di questi fondamentali aspetti epistemologici, nel primo caso rende vulnerabili e poco credibili in sede di contrattazione internazionale (nella migliore delle possibilità…), nel secondo porta alla sottomissione alle altrui esigenze e aspirazioni, politiche ed economiche. Basare invece, come accade nell’occidente europeo, l’interpretazione della realtà e i rapporti internazionali in funzione della sola morale “buoni-cattivi” è una posizione popolare, comoda e rassicurante, che ha i suoi punti di riferimento stabili e separa funzionalmente in modo chiaro gli amici dai nemici, ma folle e quindi pericolosa.

La realtà è diversa, in fondo anch’essa semplice, ma non attraverso il confortante mainstream, in cui si compongono le enunciazioni mediatiche di politici e opinionisti con la martellante messaggistica di un mondo giornalistico sempre meno indagatore e sempre più deformante nella rappresentazione dei fatti, ma attraverso la sua fredda e ferrea logica, fatta d’interessi contrastanti in competizione tra loro. In funzione del fattore geografico spaziale, l’analisi geopolitica serve a individuarli, quella geostrategica a conseguirli nel migliore dei modi. Solo l’Europa sta dimostrando di non saperlo.

In cent’anni e cento mesi torna l’acqua a’suoi paesi recita un vecchio detto veneto.i Ricercando un parallelismo esemplificativo possiamo affermare che la geopolitica si comporta come l’acqua, che risponde a una propria e imprescindibile logica dinamica. Rispetto alla geografia dei luoghi questo elemento, nonostante le artificiali deviazioni antropiche, torna sempre nel suo letto originario, allo stesso modo gli interessi geopolitici riemergono costantemente nella storia di popoli e Stati reclamando il proprio corso. Infatti, la lettura storica delle politiche russe e anglo-americane in modo chiaro evidenzia le stesse dinamiche del presente.

Al di là dei posizionamenti ideologici e morali di turno, alla prova dei fatti le articolazioni che determinano le decisioni politiche e militari delle potenze in gioco sono essenzialmente e costantemente le stesse. Per la Russia, verso l’Europa, si esplicano in una difesa contro la prospettiva di un accerchiamento militare, che si proietta in offensiva verso il sogno di un end state che la porti ad avere un ruolo di riferimento, politico e culturale, nello scenario continentale e di esercizio della propria potenza nel Mediterraneo. Una politica portata, lentamente ma costantemente avanti, dall’epoca zarista a quella sovietica, abbracciata immediatamente anche da Lenin, appena consolidato il potere dopo le iniziali rinunce legate alla pace di Brest-Litovsk con la Germaniaii. Che tale egemonia sia esercitata in nome della Santa Alleanza o in quella dell’internazionale comunista, che sia soggetta alla visione di una terza Roma di ispirazione ortodossa, ovvero di un universalismo imperiale euroasiatico, antimodernista e antiglobalista, o più semplicemente di una ricerca di un pluralistico multipolarismo identitario, che si fa difensore delle specificità nazionali e culturali, in opposizione al globalismo americo-atlanticoiii, il risultato in politica estera alla fine dei conti non cambia. Le scelte sono di una coerente e costante determinatezza.

Lo stesso dicasi per la politica degli Stati Uniti d’America eredi dell’Impero britannico, entrambe potenze talassocratiche, mercantili e finanziarie, proiettate su scala imperiale planetaria, o come si usa dire oggi, in modo più affabile e rassicurante, globale; la cui politica è da sempre tesa a evitare che in Europa possa sorgere una potenza regionale che faccia da traino e coagulo per tutte le diverse energie in essa presenti o anche semplicemente che possa formarsi un asse di forze che abbia una piena indipendenza politica, economica, militare e ideologica. Soprattutto, in quest’ultimo campo, evitando l’affermarsi di una realtà non suddita del modello d’oltremare, che ha crescenti pretese assimilatrici antinazionali, essendo l’aspetto sovranazionale necessario alla sua stessa sopravvivenza. Un modello di controllo caratterizzato da sempre più affinati meccanismi economici, politici e culturali (parametri monetari di riferimento, prima sterlina e poi dollaro, economia di borsa e del prestito, liberismo, ma anche affermazione del diritto internazionale, del laicismo, etc.). Meccanismi utilizzati in forme pervasive e a volte intolleranti, risultando essere le più efficaci armi funzionali, il cui uso ininterrotto si affianca a quello saltuario, ma determinate, dello strumento militare. Una politica per molti versi non dissimile da quella coloniale.

I principali successi anglo-americani conseguiti in Europa si devono soprattutto all’aver saputo alimentare lo scontro divisorio nel suo stesso seno, col duplice fine di indebolirne le varie componenti e decapitare ogni tentativo egemonico interno nascente. Una politica ormai plurisecolare, ininterrottamente condotta in modo vincente, che ha segnato il destino prima del vecchio continente e poi mondiale. Un percorso logico nel quale si inquadrano innumerevoli scontri e avvenimenti storici, in cui la Gran Bretagna e poi gli USA hanno combattuto o appoggiato Stati e fazioni politiche, a volte in fasi successive in apparenza incoerenti. È possibile, infatti, individuare un’intima coerenza: dal XVI secolo contro la Spagna e il sostegno ai Paesi Bassi alla Guerra dei sette anni, dal conflitto con la Francia napoleonica allo scontro con la Russia zarista, da quello con gli Imperi Centrali e poi con il III Reich tedesco, con la finale forzata divisione in due dell’Europa e del suo motore centrale, la Germania, alla guerra fredda contro l’Unione Sovietica, ieri, e contro la restaurazione russa, oggi. Una politica che nel suo addentellarsi nel Mediterraneo ha coinvolto anche l’Italia, la cui unità risorgimentale fu agevolata dall’Inghilterra al fine di creare una nuova potenza bilanciatrice, tanto nel sud del continente quanto nel Mediterraneo. Una indipendenza, però, concessa e poi tollerata, a sovranità limitata, senza possibilità di avere una politica estera, non solo espansiva ma neanche pienamente autonoma. Un ruolo che ha visto momenti di crisi palesi, come durante il tentativo di affermazione coloniale in Etiopia e nella Seconda guerra mondiale, od occulti, da Mattei a Craxi, per citare superficialmente degli esempi.

Dalla caduta del muro di Berlino la politica degli USA nei confronti dell’Europa è palesemente quella di sempre: evitare un coagulo di forze tali da renderla, per capacità culturali, tecniche, economiche e militari, un competitor su scala globale. Una possibilità che la caduta della cortina di ferro ha fatto sembrare possibile. Il pericolo di un asse Mosca-Berlino è stato chiaramente denunciato dagli influenti think tanker statunitensiiv, così come esplicitato dall’espressione di GeRussia dal Centro Studi di Geopolitica della Duma negli anni Novanta del secolo scorso.v Per contrasto gli USA hanno condotto una politica, diretta e indiretta, che di fatto ha boicottato l’inserimento di una Russia democratica nell’ambito Europeo, sia EU sia NATO.

Dopo aver ottenuto la dissoluzione dell’impero sovietico, gli statunitensi hanno condotto una campagna, a tratti anche spregiudicata, che ha fomentato le forze centrifughe, non solo dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia ma anche nell’ambito delle Repubbliche dell’ex Unione Sovietica, affinché la nuova Federazione ne uscisse territorialmente ridotta. Parallelamente l’allargamento della NATO ha aumentato l’accerchiamento militare di contenimento della Russia, mentre, con la crisi del Kosovo, nei Balcani veniva mortificato il suo tradizionale ruolo panslavista di riferimento.

Molti analisti geopolitici indicano delle teorie omnicomprensive per individuare delle semplificate spiegazioni alle odierne relazioni internazionali, cercando di fornire delle risposte agli interrogativi aperti. Ma non esiste un unico teorema. La realtà è più rispondente alla teoria degli insiemi. Vi sono vari insiemi e sottoinsiemi di elementi e di interessi che si intersecano tra loro.

In tale ottica il confronto Russo-Ucraino si avvicina sempre più a quello di un conflitto per procura nell’ambito del più grande insieme del confronto sino-americano. Ma esiste una sostanziale differenza: durante la “guerra fredda”, uno scontro militare diretto USA-URSS era reso impossibile dal pericolo di una escalation atomica, ora Cina e USA, oltre a non potersi permettere una “guerra calda”, non possono permettersi neanche una “guerra fredda” a causa delle strette interconnessioni economiche esistenti tra loro. Tra questi due Paesi si profila pertanto, sempre più, uno scenario che potremmo definire di “pace fredda”. Un’ostilità non dichiarata caratterizzata da rapporti formalmente pacifici.

Anche questo status, come la vecchia guerra fredda USA-URSS, ha i suoi conflitti per procura e quello Russia-Ucraina pare avere questo destino. Ugualmente si inquadra la crisi Russia-Europa occidentale, rispetto alla quale Cina e Stati Uniti ne conseguirebbero nell’immediato un duplice vantaggio: primo, rafforzando il proprio peso, politico, economico e militare, a fronte dell’indebolimento del proprio rispettivo alleato; secondo, evitando per i prossimi decenni il rischio di una loro unione (rischio GeRussia).

Gli Usa, e con loro la Gran Bretagna, sembrano però più interessati a forzare la situazione per mettere completamente fuori gioco la Russia. Senza questo fondamentale alleato la Cina resterebbe infatti completamente isolata e la sua scalata alla leadership mondiale sarebbe conseguentemente compromessa o fortemente rallentata. Situazione che certamente la RPC non potrà considerare accettabile. Ma gli Stati Uniti guadagnerebbero ancor più da un coinvolgimento diretto della Cina in supporto della Russia. Questo gli darebbe la possibilità di sanzionarla, passando da uno scenario di “pace fredda” quello di “guerra fredda”, e di bloccare il suo sviluppo, che punta a superare l’intero occidente nel prossimo futuro. Circostanza di cui gli USA non possono non essere consapevoli. Si consideri, tra l’altro, in tal senso, come indicatore il lento declino del dollaro sottolineato e accompagnato dalla graduale perdita d’interesse cinese verso i titoli del debito pubblico americano.

In definitiva la politica statunitense, che in apparenza sembra sprovveduta, con questa crisi ha messo contemporaneamente all’angolo Russia, Europa occidentale e Cina. Il reale interesse di quest’ultima sarebbe che l’attuale tensione si limitasse a produrre una crisi economica, energetica e commerciale, questa, similmente a quanto già accaduto con il Covid si tramuterebbe in un’ulteriore occasione di sviluppo sia per gli USA, che aumenterebbero i loro scambi con il vecchio continente, sia per la RPC (con la pandemia il PIL 2020 e 2021 cinese è già cresciuto), che diverrebbe, praticamente, l’unica partner commerciale di rilievo per la Federazione Russa. Ma di fatto, complice l’intransigenza occidentale dettata da Washington, si sta andando incontro verso l’imposizione di una sorta di nuova cortina di ferro (Paesi democratici-Paesi autocratici o accusati di esser tali). Un mondo nuovamente bipolare a fronte del multipolarismo tanto invocato da Putin. Condizione che però danneggerebbe nel tempo la Repubblica Popolare Cinese. Una Cina che fino ad oggi silenziosamente, apparendo docile e arrendevole, continua a rafforzarsi sul piano militare, economico e geopolitico, sfruttando la stabilità e l’apertura del sistema globale, puntando a diventare la prima potenza mondiale.

Ma un’ipotetica cortina di ferro potrebbe essere il danno minore rispetto alla tentazione di un conflitto mondiale che potrebbe essere visto dagli Stati Uniti, che ancora possiedono il primato militare, come un vantaggioso deviatore dell’attuale trend mondiale di sviluppo. L’ipotesi guerra è però accompagnata dalla preoccupante incognita dello “sdoganamento” dell’uso dell’atomica innescato dal braccio di ferro USA-Russia, alla quale quest’ultima, messa all’angolo, potrebbe far ricorso.

La guerra totale, dopo decenni di naftalina, sembra di nuovo concepibile, spazzando in un colpo decenni di teorie sul suo definitivo superamento in favore di “guerre chirurgiche” e “operazioni militari diverse dalla guerra (MOOTOW)”vi. Ritorna lo scenario di Herman Khan di “pensare l’impensabile”,vii ritenendo possibile vincere un confronto atomico al di là del prezzo da pagareviii.

La guerra con l’Occidente è resa sempre più probabile dalla incomunicabilità tra Russia e Ucraina, frutto soprattutto della mancata funzione di intermediazione del resto del mondo. C’è un’aria da resa dei conti, dove incoscientemente si crede di poter guadagnare dalla ricomposizione degli equilibri di forza.

L’unico attore che sicuramente ha solo da perdere, in ogni caso, è l’Europa occidentale, che con una semplicistica noncuranza corre verso rischi incalcolabili senza nessuna logica geopolitica, mossa unicamente da imperativi ideologici. Il comportamento del vecchio continente, più che da analisi geostrategica sarebbe da analisi psichiatrica. L’Europa è infatti vittima di sé stessa, dei sensi di colpa instillati da una concezione strettamente moralistica della storia, che gli impedisce di individuare i propri reali interessi e di progettare con una visione indipendente di grande respiro, rischiando, invece, di farla scivolare verso l’abisso.

i G. Boerio, Dizionario del dialetto veneziano. Aggiuntovi l’indice italiano veneto, Cecchini ed., Venezia 18562, p. 758.

iiCfr. I. M. Majskij, La politica estera della RSFSR 1917-1922, a cura di O. Dubrovina, Biblion edizioni, Milano 2020, pp.250.

iiiCfr. A. Dugin, Putin contro Putin, AGA, Milano 2018. pp.389.

vCfr. S. Santangelo, Gerussia: l’orizzonte infranto della geopolitica europea, Castelvecchi, Roma 2016, pp. 192.

viCfr. Q. Liang, W. Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra simmetrica fra terrorismo e globalizzazione, a cura di F. Mini, Leg, Gorizia 2001, pp. 199.

viiCfr. H. Khan, Thinking about the unthinkable, Horizon press, New York 1962, pp. 254.

viiiCfr. H. Khan, Filosofia della guerra atomica. Esempi e schemi, ed. del Borgese, Milano 1966, pp. 376.

Foto: U.S. Marine Corps