"Conosci il tuo terreno. Conosci la gente, la topografia, l’economia, la storia e la religione. Conosci ogni villaggio, strada, campo, gruppo, leader tribale e le più radicate ragioni di malcontento […] leggi la carta topografica come se fosse un libro, studiala ogni sera prima di coricarti e riportala alla memoria ogni mattina finché non sarai in grado di riprodurne mentalmente la sua plastica minuta. Sviluppa un modello mentale della tua area, una sorta di cornice in cui inserire ogni pezzo della nuova conoscenza che nel tempo acquisisci"1. In questa frase di David Kilcullen, all’epoca chief strategist dell’Ufficio del Coordinatore per il Controterrorismo del Dipartimento di Stato USA, è racchiusa tutta l’importanza del legame tra dimensione territoriale (si potrebbe dire anche “geopolitica del campo di battaglia”) e guerra.
Nello specifico il concetto espresso da Kilcullen si adatta alle teorie della guerra di guerriglia dove per “territorialità” non s’intende solo ed esclusivamente la dimensione geografica del campo di battaglia, essa infatti è commistionata dagli elementi politici, culturali, sociali, religiosi, ideologici e via dicendo. In altre parole il fattore antropico nella guerra rivoluzionaria diventa parte integrante della geografia e deve necessariamente essere “mappato”. Scrisse Mao Tse-tung nel periodo della seconda guerra sino-giapponese che se il popolo "può essere paragonato all’acqua"2, le forze guerrigliere sono "il pesce che in essa vive", a dimostrazione del fatto che in sostanza la posta in gioco dello scontro asimmetrico prolungato è il controllo fisico e l’ottenimento del supporto (e quindi del consenso politico) della popolazione civile.
Un concetto che verrà ripreso qualche anno più tardi dall’ex tenente colonnello dell’Armée de terre francese David Galula3, teorico della controguerriglia, per il quale la vittoria nella guerra rivoluzionaria passa non per la conquista del territorio ma per quella della popolazione, la quale inevitabilmente si trasforma nel “nuovo terreno” del campo di battaglia. Galula, influenzato tanto dal pensiero militare di due ufficiali coloniali francesi come Joseph Simon Gallieni e Hubert Lyautey4 quanto dalle sue esperienze dirette quale comandante di una compagnia di fanteria coloniale nella Cabilia algerina dal 1956 al 1958, nella sua teoria affianca ai 130 anni di guerre coloniali transalpine le più innovative idee sul tema espresse da Mao e dal generale americano Edward Lansdale. Ne deriva una dottrina “politica” della guerra rivoluzionaria dove le operazioni militari vengono o debbono essere pianificate tenendo conto degli effetti politici che potrebbero generare ed a sua volta la fase di pianificazione viene influenzata dalle questioni politiche cosicché la “cornice” geografico-antropologica di cui parla Kilcullen diventa fondamentale.
L'approccio population-centric galuliano, che è stato fatto proprio dalla moderna dottrina americana della counterinsurgency e adottato in Irak e Afghanistan, è oggetto di dibattito tra gli analisti e gli storici militari, al pari dell'approccio enemy-centric. Di recente alcuni studiosi5 hanno sostenuto infatti che la strategia controinsurrezionale necessita di un approccio bilanciato che vada oltre la dicotomia population centric contro enemy-centric, suggerendo un approccio a matrice declinato secondo due dimensioni: azioni (uso della forza fisica contro attività politica) e obiettivi (insorti contro chi supporta gli insorti). Questo approccio multidimensionale genera quattro assi strategici che rappresentano ciascuno una parte fondamentale per condurre efficaci campagne controinsurrezionali secondo un approccio ibrido ideale6.
Anche nel film “The Outpost” (2020) sulla battaglia di Kamdesh nel Nuristan afghano del 3 ottobre 2009 è rappresentata l’importanza del dialogo con la popolazione civile che, in base alle corde toccate dai vari comandanti dell’Avamposto Keating, può rapidamente trasformarsi da amica in nemica e viceversa. L’interdipendenza tra popolazione e militari impegnati in azioni di controinsorgenza è l’elemento fondante dell’approccio population-centric.
Nell’ecosistema del conflitto gli insorgenti, le forze governative, le minoranze etniche, la malavita locale, le multinazionali del crimine e del traffico illegale, le agenzie e le organizzazioni umanitarie internazionali, i rifugiati, hanno l’interesse di rafforzare il proprio legame con la popolazione civile, nello specifico con quella maggioranza che, senza prendere parte alcuna al conflitto in corso, mantiene una spiccata posizione di neutralità nell’attesa del volgere degli eventi. Conquistare cuori e menti di questa fetta della popolazione è la chiave per la vittoria nella guerra rivoluzionaria.
In questo meccanismo la “popolazione diventa il nuovo terreno” e, come ha spiegato il comandante delle Truppe Alpine generale Claudio Berto, "l’isolamento fisico e politico non favorisce l’insorgenza quanto un territorio vasto. La compartimentazione del terreno, la fitta vegetazione e l’asprezza del clima freddo, piovoso o con temperature alte così come il sovrappopolamento nelle grandi città o, il suo contrario, la dispersione sul territorio di piccoli villaggi rurali, sono elementi che vanno considerati attentamente per l’impatto che hanno sulle operazioni in termini di mobilità e sopravvivenza"7.
Gli spazi geografici sostituiscono le linee geometriche del campo di battaglia convenzionale e quindi il “terreno umano” assume un ruolo centrale ed i consiglieri politici inseriti negli staff dei comandi sia periferici sia centrali hanno il compito essenziale di studiare, comprendere e dipanare la matassa della stratificazione storico-sociale delle regioni interessate dal conflitto e quindi fornire informazioni utili al comandante per la pianificazione operativa.
Mappare il territorio e mappare l’uomo che in esso vive sono attività che da sempre la scienza militare porta avanti, ma oggi con l’accelerazione del ritiro delle truppe della coalizione occidentale dall’Afghanistan – che dell’approccio population-centric e dell’antropologia applicata alla guerra di guerriglia è stato un case study - diventa ancor più importante avviare una riflessione sul tema.
1 D. Kilcullen, The twentyeight articles fundamentals of company level counterinsurgency, in “Small War Journal”, 2006
2 M. Tse-tung, On Guerrilla Warfare, Champaign, First Illinois Paperback, 2000 (ed. or. Lùn Yóujĩ Zhàn, 1937)
3 D. Galula, Counterinsurgency Warfare. Theory and Practice, Wesport, Connecticut: Praeger Security International, 1964
4 Dei quali si ricordano le opere “Une colonne dans le Soudan français (1886-1887)” (Gallieni, 1887), “Deux campagnes au Soudan français en 1886-1888” (Gallieni, 1890), “Madagascar de 1896 à 1905” (Gallieni, 1905), “Du rôle colonial de l'armée” (Lyautey, 1900), “Dans le Sud de Madagascar, pénétration militaire, situation politique et économique” (Lyautey, 1903)
5 C. Paul, C.P. Clarke, B. Grill e M. Dunigan, Moving Beyond Population-Centric vs. Enemy-Centric Counterinsurgency, in “Small Wars & insurgencies”, vol.27/2016 - issue 6
6 N. Festa, David Galula: Counterinsurgency Warfare, in “Difesa Online”, 06/06/2018
7 C. Berto, Boots on the grounds: Il “terreno” fisico e umano, resterà ancora il fattore decisivo delle operazioni militari terrestri?, in “Storia militare della geografia” Quaderno della Società Italiana di Storia Militare, 2020
Foto: NATO / U.S. DoD