La prima volta era accaduto nel 2015, quando il cacciatorpediniere statunitense USS Lassen si spinse entro le 12 miglia da Subi Reef, una formazione emersa nel mar cinese meridionale occupata da Pechino e rivendicata da Filippine, Taiwan e Vietnam.
L’ultima, lo scorso 23 marzo, allorquando due fregate della Marina militare cinese hanno intercettato e respinto il cacciatorpediniere statunitense USS Mustin, inoltratosi nelle acque “territoriali” di Mischief Reef, uno degli isolotti dell'atollo delle Spratly (mar cinese meridionale), provocando il forte disappunto di Pechino per la “provocazione che ha seriamente danneggiato la sovranità e la sicurezza cinesi, violato le norme basilari del diritto internazionale e nuociuto alla pace e alla stabilità regionali".
Se da parte americana entrambi gli episodi sono stati definiti come “missioni di libertà di navigazione”, a dimostrazione del grande interesse di Washington su un tratto di mare in gran parte (circa l’80%) rivendicato da Pechino (sulla base di un principio di demarcazione definito unilateralmente, denominato “nine dash line”), la rapidità e il tono della reazione cinese confermano la determinazione del Dragone a perseguire nell’area una politica “espansiva”.
Per Pechino, il controllo sul mar cinese è parte fondamentale della nuova postura globale, politica e militare. Ne son prova, nella sua parte meridionale, le rivendicazioni per il controllo degli atolli delle Paracel (occupati dalla Cina e rivendicati dal Vietnam) e delle Spratly (rivendicati interamente dalla Cina, Vietnam, Taiwan, e solo in parte da Brunei, Filippine e Malesia), sui quali Pechino è da tempo impegnata nella realizzazione di infrastrutture militari con batterie missilistiche, e dove, secondo gli Usa, sarebbe prossima ad ultimare alcune basi aeree.
Le immagini del CSIS - Asia Maritime Transparency Initiative/DigitalGlobe (https://amti.csis.org/) indicano che solo nel 2017 la Cina vi ha costruito più di 29 ettari di impianti e strutture di natura militare come depositi, sistemi radar, postazioni di sensori, piste di atterraggio e punti di attracco, che i cinesi definiscono come parti della “portaerei inaffondabile” realizzata nell’area. Nelle isole Spratly, secondo il Dipartimento della Difesa USA, come ha recentemente evidenziato il sito formiche.net, i cinesi hanno “ricavato” dal mare, su soli tre isolotti, ben 1280 ettari.
Anche nel mar cinese orientale non mancano elementi di tensione, in questo caso con il Giappone per la sovranità sull’arcipelago delle isole Senkaku: otto isolotti controllati dal Sol Levante, ma rivendicati da Pechino per motivazioni storiche (sin dal XVI secolo, avrebbero fatto parte dell’Impero cinese, da cui sarebbero stati distaccati durante la guerra sino-giapponese del 1894-5).
In questo caso, i rischi di un conflitto sarebbero addirittura più elevati, per l’assenza di procedure di “deconfliction” tra i due Stati, ragion per cui il presidente Obama assicurò alle eventuali contese sul mar cinese orientale la copertura del trattato militare USA-Giappone (È dello scorso 7 aprile la notizia della costituzione in Giappone di una prima brigata di fanteria di di marina di circa 2100 unità, che avrà il compito esclusivo di difendere le isole Senkaku).
La politica di Pechino nel “mare suum” è pertanto la plastica dimostrazione del suo cambio di passo e della sua volontà di giocare un ruolo di competitor globale.
Dopo gli anni di Mao, vissuti all’insegna del motto “La Cina deve rialzarsi”, e quelli di Deng Xiaoping improntati al grido “ La Cina deve diventare ricca”, Xi Jinping ha più volte ripetuto che “La Cina deve diventare potente”.
Nel corso del 13° Congresso Nazionale del Popolo, che nelle scorse settimane lo ha rieletto Presidente della Repubblica Popolare e Capo del Partito, Xi ha detto che “ questa volta siamo vicini come non mai nella storia a costruire un Esercito di Liberazione del Popolo (il PLA, nome con cui sono comunemente indicate le forze armate) forte e in grado di essere un player globale”.
A riprova di questa univoca volontà di potenza, già da tempo negli ambienti diplomatici cinesi circola un vecchio adagio - “se combatti per la pace, la pace prevarrà; ma se giungi a compromessi per la pace, questa svanirà” - che illustra non solo la completa assimilazione del pensiero di Xi nei più importanti gangli dello Stato e del Partito, ma anche la raggiunta consapevolezza di un rinnovato ruolo internazionale, a premessa del quale c’è il raggiungimento di un benessere sociale diffuso, anche questo, aspetto caratterizzante il “sogno cinese” di Xi sin dal 2013, l’anno della sua prima investitura.
E se la realizzazione della via della seta (che nella sua parte marittima attraversa proprio il mar cinese), è la cifra di quello che la potenza economica della Cina rappresenterà nel prossimo futuro, la postura cinese nel mar cinese ne anticipa la proiezione di potenza che ben presto adotterà a livello globale.
Nel “suo” mar cinese, la Cina fa le prove generali di quello che intende esprimere un domani non lontano: sperimenta una rinnovata assertività diplomatico-militare (dopo i secoli dell’umiliazione) e dosa il suo crescente “peso” militare con una diplomazia mirata a bilanciare i rapporti a livello bilaterale con le nazioni che si affacciano sul bacino, con quelli previsti (con le stesse nazioni) nell’ambito dell’Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico (ASEAN). In tal modo, da un lato impedisce che le si coalizzino contro come ASEAN, dall’altro riesce a limitarne le singole rivendicazioni grazie alla sua possibilità di destinare ingenti somme di denaro sotto forma di progetti a favore delle controparti del momento.
Nel mar cinese la Cina dimostra di conoscere le lezioni della storia, che non ha mai concesso il rango di potenza globale ad una nazione che non fosse prima di tutto potenza marittima, come lo fu il Regno Unito e lo sono attualmente gli USA.
Il graduale rafforzamento della sua marina militare, non più solo orientata a compiti di "difesa delle acque profonde" ma anche a compiti di "protezione dei mari lontani", e la costruzione di nuove portaerei, il tutto a discapito di un PLA tradizionalmente strutturato attorno all’esercito, dimostra che la Cina intende fare sul serio.
(foto: China MoD / AMTI)