Quando un impero scende in guerra, le conseguenze che questo fatto genera non possono essere né limitate né circoscritte al suo “estero vicino” o al suo nemico diretto, ma ricadono anche sulle aree più lontane sulle quali l’impero esercita la sua influenza e su quelle controllate dalle potenze rivali.
L’esempio storico calzante di questa estensione dei conflitti e delle loro conseguenze in aree lontane rispetto al campo di battaglia vero e proprio è quello della guerra tra Regno d’Italia ed Impero Britannico del 1940-1943. La dichiarazione di guerra italiana alla Gran Bretagna del 10 giugno 1940 innescò lo scontro mortale per il predominio sul Mediterraneo tra due Stati che potevano vantare vasti possedimenti coloniali ed una proiezione imperiale d’ampio respiro.
Le popolazioni africane coinvolte, già attraversate da fermenti indipendentistici e nazionalistici negli anni successivi alla prima guerra mondiale, furono costrette a “prendere una posizione” a sostegno o contro i rispettivi governi coloniali e, se Roma utilizzò l’arma propagandistica del nazionalismo anti-britannico ed anti-imperialista contro Londra, di fatto l’Italia fascista non poteva certo essere definita a tutti gli effetti una potenza “terzomondista”, viste la repressione della rivolta libica e la conquista dell’Etiopia di pochi anni prima. Ma, al netto dello scontro militare e della “guerra di propaganda” italo-britannica, il secondo conflitto mondiale in area mediterranea, in Africa e nel Levante generò fenomeni politici ed economici che trovarono un loro definitivo sbocco solo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso con i processi di decolonizzazione più o meno cruenti.
Oggi, con la guerra iniziata lo scorso 24 febbraio tra Russia ed Ucraina, l’Occidente e Mosca sono impegnati in un durissimo scontro per la conquista di cuori e menti dei popoli dei Paesi africani e mediorientali, con punte avanzate anche in Sud America, che nel corso degli ultimi anni sono stati terreno di scontro politico-economico e delle “guerre per procura” tra questi due blocchi.
Già in questi primi giorni di guerra la narrazione del blocco euro-occidentale tende a dipingere la Federazione Russa come un Paese inaffidabile, pericoloso per la sicurezza non solo europea ma globale viste anche le sue violazioni del diritto internazionale e quindi dei codici del “vivere civile” tra popoli. Conta poco qui il giudizio politico che si possa dare delle motivazioni russe poste a giustificazione della guerra contro l’Ucraina, ma il dato di fatto è che l’Occidente abbia voluto cogliere l’occasione per regolare, forse una volta per tutte, i rapporti di forza con Mosca.
La Russia sarà quindi costretta già nel prossimo futuro – ed alcuni “aggiustamenti” di traiettoria geopolitica sono già più o meno intuibili – a cercare nuovi interlocutori o a rafforzare i legami con quelli storici per non risentire troppo dell’isolamento diplomatico ed economico in cui l’Occidente ha provato – con varie gradazioni – a spingerla.
Nell’ultimo ventennio la Russia ha tentato di ristrutturare le sue proiezioni e prospettive imperiali puntando, sotto il profilo difensivo, a ricostituire il proprio “giardino di casa” georgiano (2008) ed ucraino (2014 e 2022), mentre, sotto il profilo offensivo, ha ripristinato le antiche ambizioni sovietiche in Africa e Medio Oriente per raggiungere lo storico obiettivo dello sbocco nei mari caldi, perseguendo la sua brosok na Jug (corsa verso sud), che è stata sempre il traguardo irraggiungibile (per la mancata trasformazione in potenza navale) della Russia zarista.
Se le guerre in Georgia e Donbass, per non parlare di quella attuale che si combatte in Ucraina, rispondono ad una esigenza percepita al Cremlino come strategica di ricostituire il vecchio spazio imperiale russo eroso già a partire dalla prima guerra mondiale e definitivamente evaporato con il crollo dell’Unione Sovietica; la presenza russa in Libia o in Siria, ma anche in Africa centrale, aree dove Mosca non ha di fatto interessi per la propria sicurezza da salvaguardare, sono frutto di “logiche imperiali” che le impongono quasi la presenza diretta.
Il marxismo-leninismo e la logica della contrapposizione tra blocchi hanno spinto l’URSS, fino al “disimpegno” internazionale gorbacioviano, a sostenere militarmente, economicamente e commercialmente – con un vantaggio a volte reciproco ed a volte sbilanciato a favore di Mosca, proprio come oggi avviene con Pechino – i regimi socialisti del Terzo Mondo ed hanno avuto l’effetto di ampliare il programma imperiale moscovita dallo slavismo ortodosso zarista, di dimensione principalmente europea, ad una concezione con ambizioni di portata mondiale.
La Russia contemporanea, che ha perso lo “slancio missionario” sovietico, ha comunque mantenuto idee e ambizioni – non sempre i mezzi – da superpotenza, impegnandosi in aree del sud del mondo che da una parte ne hanno aumentato il coefficiente di pericolosità per gli occidentali ma che dall’altra hanno esposto alcune sue debolezze strutturali a tutto vantaggio dei suoi nemici.
La presenza politica e militare, ufficiale o tramite la longa manus della Wagner e della Patriot, del Cremlino in Siria, Libia, Mali, Repubblica Centrafricana, Burkina Faso, Mozambico, Sudan e Madagascar ha, da un lato permesso a Mosca di avere un “coefficiente imperiale” da rivendicare in quest’area, ma dall’altro la costringe ad impiegare risorse che potrebbero essere strategicamente dirottate altrove e con ben altra efficacia. Se, infatti, avere una forte presenza in Siria (confermata a pochi giorni dall’invasione dell’Ucraina con massicci bombardamenti dell’aviazione russa nell’area vasta che va da Deir ez-Zor a Raqqa e nel Governatorato di Idlib contro i rimasugli dell’ISIS) può essere giustificato in chiave strategica per i Russi, vista l’importanza per la loro politica navale della base di Tartus e la possibilità di adattare al mare quanto già viene fatto per terra, cioè costruire una sorta di “cuscinetto” nel quale affrontare un eventuale nemico prima che metta piede sul suolo russo che è tendenzialmente indifendibile; lo sperpero di risorse in Africa non risponde pienamente agli interessi strategici di Mosca o, almeno, questo fino al 24 febbraio scorso.
Vista la massiccia influenza commerciale e finanziaria di Cina ed Occidente nel continente nero, l’unica fetta della “torta africana” (oggetto di nuovo scramble a livello globale) appetibile per la Russia è quella militare. Se il 2014 con l’occupazione della Crimea e la guerra nel Donbass ha rappresentato l’anno di svolta per la postura geopolitica della Russia putiniana, ormai inserita appieno tra le potenze revisioniste-rivoluzionarie, è stato il 2015 l’anno “africano” del Cremlino con la firma di accordi di cooperazione militare con 21 Paesi africani nei quali erano previste anche ingenti forniture di armi ed equipaggiamento russo agli stessi, nonché l’addestramento di ufficiali in Russia e la presenza sul terreno di “consiglieri militari” moscoviti. La cooperazione militare è uno strumento che Mosca, in assenza di altri mezzi, utilizza in Africa per ottenere vantaggi sull’approvvigionamento di metalli pregiati e pietre rare, ormai fondamentali per le industrie di tutto il mondo, e concessioni minerarie ed estrattive.
Basti pensare alle ingenti concessioni minerarie e di sfruttamento di risorse come diamanti, uranio, oro e legname ottenute da società specializzate russe come la Lobaye Invest Sarlu o la Sewa Security Service (quest’ultima opera anche nella sicurezza privata) nelle prefetture centrafricane di Lobaye e Ouaka in cambio dell’appoggio militare di Mosca alle Forze Armate della Repubblica Centrafricana nella guerra contro la Coalizione dei Patrioti per il Cambiamento (v.link). Appoggio militare che si sostanzia nella forte e capillare presenza dei mercenari del gruppo Wagner nel Paese africano e nella loro partecipazione diretta (sempre negata fino all’inizio del 2021) ai combattimenti. Non è un caso che proprio dal Centrafrica siano arrivate le prime dichiarazioni di sostegno a Putin con la richiesta da parte di alcuni militari di Bangui di partire volontari per combattere al fianco dei Russi in Ucraina e “restituire il favore” agli alleati.
Le reciproche sanzioni – sulle quali non si vuole dare un giudizio politico ma, dal momento che sono in essere, riflettere su possibili scenari – impediranno a molti Paesi occidentali, ivi compresa l’Italia, che hanno anche interessi importanti in Africa e per i quali il continente nero rappresenta, anzi, uno scenario strategicamente prioritario, di ripristinare rapporti quantomeno cordiali con la Russia anche al termine della guerra in Ucraina.
La pericolosità di una situazione del genere è sotto gli occhi di tutti. Una Russia tagliata fuori dai suoi tradizionali mercati sarà costretta a ritagliarsi spazi altrove e, al di là del suo avvicinamento strutturale – indotto - alla Cina (che sembra rispondere abbastanza freddamente per il momento alle avances moscovite), nel sud del mondo tenterà di giocare un ruolo di primo piano per prendersi quegli spazi che le sono negati altrove.
In questo contesto reso particolarmente fluido dai riflessi della guerra in Ucraina, la cui portata è di molto superiore a quella meramente “territoriale” ed investe l’intero globo, si prospetta un rinnovato attivismo, maggiormente aggressivo ed “arrischiato” da parte della Russia in Africa, dove la scarsità di risorse potrebbe rappresentare certamente un vulnus ma anche la molla per spingere Mosca ad accelerare i tempi per il raggiungimento dei suoi obiettivi imperiali. Inutile dire che la presenza di una “scheggia impazzita” russa in Africa – vista anche la sostanziale estraneità politica di Mosca al tradizionale scramble – rappresenti un rischio concreto per gli interessi e la sicurezza dei Paesi occidentali.
Per l’Italia i mercenari Wagner in Cirenaica hanno rappresentato un ostacolo al pari dei Turchi in Tripolitania e lo stesso vale per i Francesi, oggi sul punto di essere espulsi dall’Africa centrale per essere soppiantati proprio dai Russi prima ancora che dai Cinesi.
Anche i Paesi africani, in perenne crisi, istituzionalmente e militarmente fragili, dovranno scegliersi “referenti” con i quali dialogare ed ai quali chiedere aiuti e fare concessioni. Per i Paesi mediterranei della NATO, Italia e Francia in particolare, il fronte della guerra d’Ucraina non è al confine polacco ma sulla sponda sud del Mare Nostrum e tra la savana e la foresta pluviale degli antichi possedimenti coloniali transalpini.
Foto: MoD Fed. Russa