La settimana scorsa abbiamo parlato dell’aggressiva postura turca in politica estera e, in particolare, sul Mar di Levante, dove stanno confluendo enormi interessi economici legati allo sfruttamento delle risorse energetiche sottomarine e al passaggio di gasdotti strategici per l’Italia e l’Europa. Gli interessi turchi, tuttavia, non si esprimono solo sul mare, ma anche in altre direzioni, verso l’Asia centrale (attraverso l’Azerbaijan e l’Afghanistan), verso il Golfo Persico (attraverso rapporti più stretti con l’Iran), verso il Mar Rosso (base navale vicino a Mogadiscio), verso i Balcani (Albania, Bulgaria e Ungheria) e nel Mediterraneo orientale e centrale (basi navali e aeroporti in Libia). L’obiettivo è quello di assicurarsi l’approvvigionamento energetico e di materie prime mentre, al contempo, espande la propria influenza politica (e militare).
Nel Mediterraneo orientale, inoltre, Ankara è estremamente attiva sia su terra che sul mare, come ho già avuto modo di sottolineare (leggi articolo).
Un attivismo a tutto tondo, caratterizzato da metodi che non hanno mancato di far sorgere perplessità e attriti, anche importanti: dalla posizione assunta nella crisi siriana, che nel 2019 ha portato Ankara a effettuare operazioni militari oltre confine, ai continui interventi muscolari sul mare per impedire la ricerca e l’estrazione di risorse marine nel Mediterraneo orientale da parte di altri paesi, all’attivo appoggio militare e navale in Libia a supporto di Fayez al-Serraji, tanto per citare alcuni episodi che hanno avuto più risonanza mondiale.
La fame di energia e di materie prime
Durante l’ultimo conflitto tra Armenia e Azerbaijan, per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh, la Turchia ha attivamente sostenuto Baku con l’invio di consiglieri militari, armi e aerei. L’aviazione turca avrebbe anche partecipato attivamente alle operazioni militari contro l’Armenia.
In merito, va sottolineato che le relazioni tra i due paesi sono solidissime da tempo e Ankara è stata la prima capitale a riconoscere l’indipendenza di Baku nel 1991. Ma, soprattutto, le relazioni amichevoli permettono alla Turchia di accedere a condizioni estremamente favorevoli alle ricche risorse naturali azere presenti nel Mar Caspio.
Oltre l’acquisto di gas naturale, Ankara partecipa anche a progetti infrastrutturali come l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, il gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum e la ferrovia Baku-Tbilisi-Kars. Tuttavia, il progetto più rilevante è il gasdotto trans-anatolico, noto come Trans-Anatolian Natural Gas Pipeline (TANAP) che dall’Azerbaijan ha come destinazione l’Europa, bypassando Ucraina e Italia e attraversando i Balcani.
In Afghanistan la Turchia è stata tra i primi a salutare benevolmente il nuovo corso politico talebano, nonostante i numerosi punti interrogativi circa le libertà individuali. Punti interrogativi che trovano quotidianamente drammatiche risposte, come il barbaro assassinio di Frozan Sagi, l’attivista afghana recentemente uccisa con altre tre donne. Ciò nonostante, la Turchia ha proseguito sul percorso di avvicinamento/appoggio all’Emirato islamico d’Afghanistan, ed è stata una delle pochissime presenze alla cerimonia di insediamento del nuovo governo, insieme a Cina, Russia, Pakistan, Iran e Qatar. Un chiaro segnale su quali sono i Paesi con i quali l’esecutivo afghano intende avere rapporti di collaborazione. Un esecutivo la cui composizione non ha peraltro contribuito a dileguare i dubbi degli osservatori internazionali, anzi. La composizione dell’esecutivo, infatti, si evidenzia per la concezione monopolistica del potere e per presentarsi, se possibile, ancora più compatto del precedente sotto il profilo etnico, ideologico e di genere.
Con buona pace del tanto pubblicizzato governo “inclusivo”, il premier è Mohammad Hasan Akhund, il cui nome è inserito nella lista nera ONU dei terroristi internazionali. Seguono poi altri nomi di terroristi ricercati, cui è stata data la guida di ministeri chiave quali la Difesa (al mullah Yaqoub, figlio del mullah Omar) e dell’Interno, che sarà guidato da Serajuddin Haqqani, sul cui capo c’è una taglia di 10 milioni di USD da parte dell’FBI. Un ministro dell’Interno che molti osservatori collocano molto vicino ad al-Qaeda e all’intelligence pakistana. Tra i 33 esponenti dell’esecutivo figurano poi altri cinque ex-detenuti di Guantanamo, ora sistemati all’Informazione, alla Cultura, agli Affari tribali, agli esteri e alla vicedirezione della Difesa. A ciò che è stata da molti interpretata come un’evidente provocazione, si è aggiunto un fatto che non è apparso casuale ma piuttosto un macabro riferimento simbolico alla sfida lanciata nel 2001: l’insediamento del governo è avvenuto il giorno 11 settembre, a vent’anni esatti dall’attentato alle Torri gemelle.
Ma l’appoggio all’esecutivo talebano non è privo di interesse da parte turca. L’Afghanistan, infatti, è territorio sotto il quale si celano ricchissimi giacimenti di terre rare e di minerali, per un valore stimato di circa 1.000 miliardi di USD. Un tesoro che potrebbe risultare di importanza fondamentale, nei prossimi decenni, per l’innovazione tecnologica mondiale, occidentale in particolare. Ciò fa comprendere come la Turchia di Erdoğan non vada per il sottile quando si tratta di ampliare i propri orizzonti economici e politici.
Neanche l’interesse turco per la Libia è ideologico, poiché attorno a quelle distese di sabbia si sta giocando una partita nella quale c’è in palio la possibilità di sfruttamento delle enormi riserve di idrocarburi presenti nel sottosuolo. Riserve che fanno gola sia ai sostenitori del governo di Tripoli che di quello di Tobruk. Al momento, lo spregiudicato attivismo turco in quel paese sembra vincente, in quanto sta portando lentamente a sostituire con elementi di Ankara le storiche collaborazioni internazionali (vedi, per esempio, il programma di addestramento degli equipaggi delle motovedette libiche, fino all’estate 2020 assicurato dall’Italia).
Ma la Libia è importante anche perché con quel paese arabo Ankara ha potuto sottoscrivere l’accordo riguardante la delimitazione dei confini delle rispettive Zone Economiche Esclusive (ZEE) marittime. Un accordo che, seppure da più parti ritenuto non aderente alle norme di diritto internazionale marittimo, ha enormi implicazioni economiche, essendo il Mar del Levante denso di giganteschi giacimenti di gas, stimati in quasi 4.000 miliardi di mc. L’area rivendicata da Ankara sarebbe, inoltre, un passaggio obbligato per eventuali futuri gasdotti diretti verso l’Italia o l’Europa, come il gasdotto EastMed.
L’atteggiamento turco
Dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016 Erdoğan, parallelamente alle azioni repressive in Patria, ha manifestato un attivismo che si è fatto sempre più aggressivo e insofferente delle regole internazionali.
Un’aggressività dimostrata anche nel Mar di Levante nel 2018, in occasione del lungo braccio di ferro tra la Turchia e l’ENI per i diritti di estrazione al largo della costa sudorientale di Cipro dove Ankara, con una mossa intimidatoria e senza alcun fondamento giuridico, ha impedito le trivellazioni, regolarmente autorizzate da Nicosia, da parte della nave Saipem 12000. In quel caso l’aggressiva volontà politica turca si è espressa facendo navigare le proprie navi militari nelle acque assegnate all’ENI, impedendogli di svolgere le proprie operazioni e costringendola a rinunciare alla ricerca di idrocarburi in quell’area.
Il 27 maggio 2020, nel corso dell’operazione NATO di sorveglianza marittima “Sea Guardian”, la fregata francese Forbin (foto), in pattugliamento davanti alla Libia, ha cercato di effettuare un’ispezione a bordo del mercantile Cirkin, salpato dalla Turchia e la cui destinazione era chiaramente la Libia. Due fregate turche sono immediatamente intervenute, impedendo l’ispezione. L’indomani il Cirkin é “regolarmente” approdato a Misurata, dove ha sbarcato mercenari e materiale di armamento pesante. Il successivo 10 giugno il Cirkin è stato intercettato dalla fregata greca Spetsai ma, ancora una volta, due navi militari turche hanno impedito l’ispezione a bordo. Più tardi, la fregata francese Le Courbet ha ritentato l’ispezione ma, questa volta, i turchi hanno diretto il proprio radar del tiro verso la nave francese (essere bersaglio del radar del tiro significa che l’avversario si sta preparando per fare fuoco con le proprie armi), aggiungendo la chiamata del proprio equipaggio al posto di combattimento. Un comportamento estremamente provocatorio e aggressivo, cui i francesi hanno risposto rinunciando all’ispezione e sospendendo, per protesta, la partecipazione all’operazione NATO “Sea Guardian”. Il tracciamento via satellite ha poi confermato che la destinazione del Cirkin era la Libia.
La versione francese è stata contestata dalla Turchia che, tuttavia, è stata comunque da più parti accusata di violare l’embargo onusiano sulle forniture di armi alla Libia, consegnate ad al-Sarraj da mercantili scortati da navi militari di Ankara.
In merito al conflitto siriano la Turchia appoggia le fazioni che si oppongono al presidente Bashar al-Assad. I gruppi di opposizione sono presenti nella regione nord-occidentale di Idlib e si oppongono alle forze del governo siriano sostenute da Russia, Iran e milizie libanesi di Hetzballah. Il difficile cessate-il-fuoco concordato il 5 marzo 2020, inoltre, appare sempre più barcollante a causa delle perduranti tensioni presenti nell’area. Da una parte e dall’altra, infatti, si parla di bombardamenti e reciproche rotture della tregua.
L’origine della disputa sta nella presenza al confine siro-turco delle truppe delle "Forze democratiche siriane" (SDF), un’alleanza multi etnica e multi religiosa composta da curdi, arabi, turkmeni, armeni e ceceni, che ha svolto un ruolo fondamentale nella lotta contro l’ISIS. Ciò ha portato Ankara a effettuare diverse operazioni militari oltre i propri confini, l’ultima delle quali si è svolta nel 2019 (operazione Sorgente di Pace), con la quale la Turchia ha preso il controllo di alcune città del nord-est della Siria.
All’inizio di questo mese la Turchia si stava preparando per una nuova operazione militare in territorio siriano, in direzione di Kobane. Tuttavia, considerando chi aveva di fronte (la Russia), a titolo preventivo è stata avviata una negoziazione per assicurarsi la neutralità di Mosca. Una neutralità che non è stata garantita in quanto le controproposte russe non sono state accettate dai turchi. La prevista offensiva turca non è, quindi, scattata per timore di violente reazioni da parte di Mosca e di Washington, attore che non ha forze sul campo ma che è ancora presente politicamente sul teatro e si manifesta con l’attivo sostegno alle forze curde (fornitura di materiale). Nella stessa area è poi giunto un convoglio russo. Alcuni osservatori ritengono che i curdi, in cambio degli aiuti, abbiano concesso a Mosca la possibilità di costruire una base aerea, dalla quale potrebbero controllare tutto il sud della Turchia. Le SDF hanno dichiarato che, in caso di attacco turco, sarebbe scattata una devastante reazione in direzione di Idlib, che porterebbe anche all’occupazione di un’importante arteria stradale.
Nel frattempo si sta registrando un graduale riavvicinamento tra Siria, Giordania e altri paesi arabi, che farebbe presagire un rafforzamento politico del governo siriano a livello internazionale, a danno dei ribelli appoggiati dalla Turchia. In tale quadro, alcuni analisti ritengono che Erdoğan avrebbe partecipato al G20 ma non alla COP26 proprio per poter essere in sede e poter valutare le possibili opzioni, in vista dell’eventuale operazione militare. Tuttavia, di fronte all’inattesa evoluzione politica e alle decise reazioni delle controparti, al momento della pubblicazione di questo articolo l’offensiva turca non è scattata.
Conclusioni
Erdoğan sta dimostrando di essere tutt’altro che un folle. Egli, infatti, impiega in maniera spregiudicata lo strumento militare ma valuta attentamente le proprie mosse e affonda il colpo solo laddove ha una credibile possibilità di ottenere il risultato. È sostanzialmente uno spietato dittatore che recita il suo ruolo facendo spesso dichiarazioni sopra le righe, nel tentativo di catalizzare l’attenzione, incutere timore e rimanere al suo posto.
Il diverso atteggiamento riscontrato negli episodi precedentemente illustrati rende, quindi, chiari i limiti dell’azione politica e militare di Ankara, che non si può assolutamente permettere uno scontro contro forze meglio preparate, con il rischio di un clamoroso smacco militare e di un rafforzamento dell’opposizione interna, peraltro alimentata dalla grave crisi economica in corso.
Ankara sta, quindi, disperatamente cercando delle vittorie politiche (con il concreto supporto dei militari) per rafforzare la sua immagine, oggi sensibilmente più opaca.
In tale ambito la questione della ZEE rivendicata da Ankara, che include l’area di passaggio del gasdotto EastMed, diventa di importanza primaria sia economica sia politica per i turchi ma anche per gli europei (e l’Italia).
Il gasdotto EastMed é, infatti, un progetto che gli Stati Uniti (ma non solo loro) ritengono strategico in quanto permetterebbe all’Europa di ridurre la propria dipendenza dal gas russo. Nonostante le lobbies europee filoturche abbiano sempre insistito sul fatto che il progetto sarebbe troppo costoso e non redditizio, i calcoli smentirebbero le loro affermazioni. EastMed avrebbe, infatti, un costo di circa 7 miliardi di Euro, a fronte del ben più costoso Nord Stream 2*, valutato in circa 9,5 miliardi di Euro. A regime, inoltre, la capacità del gasdotto mediterraneo sarà di circa 20 miliardi di mc/anno. L’importanza è tale che nel 2013 la Commissione europea ha definito EastMed come progetto di interesse comune, nel quale l’Italia sarà presente con una partecipazione del 50% di IGI Poseidon (proprietaria di EastMed) con Edison-Italia. L’altro 50% vede la partecipazione di DEPA International, detenuta per il 65% dalla Grecia e per il 35% da Hellenic Petroleum. L’Italia, quindi, sarà la principale beneficiaria.
In secondo luogo va sottolineato che altri benefici arriveranno qualora la gara di appalto per la posa del gasdotto venga vinta da aziende italiane. In questo contesto l’Italia, con la SNAM, potrebbe essere un’autorevole concorrente con ottime possibilità di aggiudicarsi la commessa.
Ci saranno poi da conteggiare anche i guadagni derivanti dall’estrazione del gas dagli enormi giacimenti ciprioti e israeliani, per l’esportazione in Europa. Un’attività che vede la presenza di ENI insieme a Total, Chevron, Exxon, Shell ed Energean. In tale ambito sarà di importanza vitale mantenere i nostri diritti di trivellazione nel “Blocco 6” con la Total in quanto nel “Blocco 10” è presente Exxon e nella ZEE israeliana c’è la Energean. Ricordo che si parla di giacimenti con riserve stimate di miliardi di mc di gas.
Sotto il profilo politico-economico non va sottaciuto che la Puglia (punto di approdo di EastMed) diventerebbe uno dei grandi hub dell’energia europei, con tutto quello che è intuibile ne conseguirebbe sotto il profilo economico, industriale e occupazionale.
Gli israeliani non hanno mai nascosto la loro determinazione a difendere, eventualmente anche con le armi, la costruzione di EastMed, un progetto per il quale non è assolutamente in questione il finanziamento né è in discussione la sua redditività. La Turchia, gli USA e gli altri attori che recitano su questo fondamentale teatro sanno perfettamente quali sono i loro interessi strategici e li perseguono senza se e senza ma.
In tale ambito, la lentezza con la quale l’Europa reagisce alle affermazioni turche sulla questione dell’autoproclamata ZEE, non appare più accidentale se si considera che nel caso di un ritardo nella concretizzazione del progetto EastMed, chi ci potrebbe guadagnare qualche miliardo sarebbe la Germania, grazie ai gasdotti Nord Stream 1 e 2. Se poi consideriamo anche lo stretto legame da sempre esistente tra Berlino e Ankara, con la prima che accoglie un gran numero di turchi sul suo territorio, si comprende meglio il motivo per il quale Erdoğan non si sente impensierito più di tanto dalle dichiarazioni provenienti da Bruxelles.
Quando ci sono bracci di ferro che implicano l’economia, è sempre bene porsi una domanda: cui prodest?
E l’Italia? Sembra balbettare e recitare a soggetto, senza avere chiari i propri obiettivi e, quindi, senza utilizzare tutti i mezzi di cui dispone per tutelare i propri interessi nazionali (leggi articolo). Soprattutto, lascia ampi spazi agli altri attori per manovrare e, spesso, per sostituire il nostro paese in alcuni settori.
Basta guardare le cifre e si comprende come nel Mar di Levante si stia combattendo una battaglia in punta di diritto ma che andrebbe, purtroppo, sostenuta con le armi per evitare che la prepotenza turca possa causare un danno di miliardi di euro all’economia nazionale ed europea, proprio nel momento in cui più forte è la necessita di riprendersi dalla crisi causata dalla pandemia.
EastMed non è solo un progetto strategico, ma anche vitale per il nostro paese. Tenuto conto delle sue potenzialità e delle sue implicazioni economiche e politiche, anche l’Italia deve avere una politica chiara e dovrebbe dimostrare la propria determinazione a far sì che non possano più ripetersi le angherie subite della SAIPEM 12000. La logica conseguenza dovrebbe essere una politica tendente a proteggere i nostri diritti nell’area, assicurati da una legittima concessione rilasciata da Nicosia e per la quale l’ENI sta pagando, pur non avendo la possibilità di fare trivellazioni.
Una politica tesa a proteggere, anche contemplando l’eventuale uso delle armi, sia la costruzione che l’operatività del gasdotto, contro ogni minaccia proveniente sia da organizzazioni terroristiche sia da Stati sovrani poco inclini al multilateralismo e al rispetto del diritto internazionale.
Il Mediterraneo orientale sta diventando sempre più un crocevia di fondamentali interessi geopolitici ed è ormai un’acclarata fonte di importanti risorse energetiche. I progetti energetici in corso potrebbero risolvere definitivamente il problema dell’approvvigionamento del Vecchio Continente, in attesa di fonti di energia più rispettose dell’ambiente.
Mentre è chiaro e comprensibile l’interesse turco a entrare nel grande business dei gasdotti, é molto meno giustificabile il metodo adottato. Un metodo estremamente aggressivo che ha condotto a un desolante quadro complessivo e che fa capire come questo atteggiamento rischi di incendiare il Mar di Levante e di trascinare con sé tanti altri attori, magari al momento non ancora pienamente consapevoli delle implicazioni economiche e politiche della loro indifferenza, che si traduce in una sponda per le pretese turche. Come detto, Erdoğan è tutt’altro che folle e ha dimostrato che, di fronte a una credibile dura reazione, non manifesta l’arroganza e la prepotenza che fa vedere di fronte ad avversari timorosi o indecisi.
Di conseguenza, se non vi sarà una decisa presa di posizione internazionale contro le provocazioni turche nel Mediterraneo orientale, c’è da aspettarsi analoga aggressività anche in occasione della prevista ripresa delle trivellazioni sia da parte di ENI e Total (primo semestre 2022) che da parte statunitense e qatarina (novembre 2021).
Il controllo delle vie marittime e della legalità internazionale sul mare è vitale per il benessere e il progresso di una nazione e, mentre molte importanti crisi si sviluppano di fronte a casa nostra, su un mare di fondamentale importanza è diventato indispensabile, parallelamente a una fortissima azione diplomatica nazionale e multilaterale, permettere alla nostra flotta di navigare in piena efficienza e con idonee regole di ingaggio, a tutela degli interessi politici ed economici nazionali ed europei.
Renato Scarfi (CESMAR)
* I gasdotti Nord Stream 1 e 2 provengono dalla Russia, saltando a piè pari i Paesi baltici e la Polonia. Nord Stream 1 è operativo dal 6 settembre 2011, mentre Nord Stream 2 è stato completato lo scorso settembre e dovrebbe diventare pienamente operativo nel prossimo dicembre 2021.
Foto: presidency of the republic of turkey / Texas Air National Guard / web / Türk Silahlı Kuvvetleri / Marine nationale