L’impertinenza appartiene alla politica; chi dunque più del Reis può entrare di diritto nelle accezioni di Oscar Wilde? Per cominciare: parlate (di lui), magari male, ma parlatene. L’oblio sarebbe di certo la pena peggiore per un politico che aspira a presentarsi nell’Olimpo ottomano, il più tardi possibile, carico di rispolverata gloria e non prima di aver celebrato nel 2023 il centenario repubblicano. Peccato che l’impresa, al momento, risulti abbastanza difficile, visti sia gli antagonismi ideologici continentali, sia le contraddizioni interne, sia soprattutto l’estrema complessità di un Paese che ancora si percepisce come Grande Stato, dove il concetto di nazione poggia sulla necessità di organizzarsi politicamente su una razza padrona1 in grado di forgiare i suoi leader, dove l’idea di Stato in sé sovrasta quella confessionale.
La Turchia difetta di risorse, non di volontà politica e nazionalista che si riflette peraltro negli aspetti formativi, tanto da trasformare la scuola in un tempio di catechesi di dottrina dello Stato, anche se spesso fondata su teorie scientificamente inconsistenti, talvolta negazioniste, ma propagandisticamente funzionali. Il nazionalismo turco non è solo quello del Capo, ma anche quello dell’opposizione laica, poiché è la Turchia stessa che lo genera in quanto priva della tradizione internazionalista europea. Con l’avvento dell’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo fondato da Erdogan nel 2001, ndr), con le sue promesse di democratizzazione ed apertura sociale, le anime belle hanno creduto nella riforma di programmi scolastici finalmente liberi dai vincoli ideologici soprattutto in ambito storico religioso; si è potuto serenamente prendere atto che le promesse hanno fatto la fine dei sogni shakespeariani. La memoria storica turca viene dunque forgiata in funzione del presente, diventa espressione narrativa geopolitica perché rivela quella che è la percezione nazionale della propria collocazione nel mondo.
Di pari passo corre la simbologia; da qui l’appropriazione del simbolo rabaa2 dei Fratelli Musulmani d’Egitto; da qui la riconversione in moschea di Santa Sofia, cassa di risonanza ricca di significati e di progetti politici che volgono il patrimonio culturale verso un futuro in cui la Turchia si legittima come leader politico islamico autorizzato a rivendicare un passato imperiale da mostrare agli antagonisti sauditi, egiziani ed emiratini.
Guardare alla storia contemporanea della Turchia richiede un’attenzione particolare: se fosse un film, la sua visione richiederebbe la capacità di seguire immagini a velocità frenetica, specialmente quelle dei Trattati di pace di Parigi del 1919-1920 che determinarono di fatto una conflittualità nazionalistica alla base dei crimini della II GM.
Geopolitico nell’intimo, Kemal Atatürk nel 1935 decise di denominare la neonata Facoltà di Lettere come Facoltà di Lingua e Storia e Geografia, sintetizzando il rapporto simbiotico tra le due materie.
L’approccio geopolitico turco mette lo Stato al centro, conferendogli una laicità tuttavia non estesa automaticamente alla figura del Capo di turno. Se è vero che i turchi hanno sempre avuto una religione, è altrettanto vero che Atatürk considerava l’Islam un’ideologia straniera propagandata da un popolo non turco; un’ideologia divisiva differente dal nazionalismo che aggrega, ma che l’esotico materialismo ateista non riesce a sostituire3 tanto da non aver potuto impedire l’ascesa di Erdogan, esempio di elemento refrattario alla socializzazione kemalista. Paradossale pensare che Kemal era macedone ed Erdogan, proteso verso un’impossibile melting pot turco arabo e latore di una sorta di scontro di civiltà, di probabile origine georgiana; paradossale notare come l’attuale numero dei turchi osservanti sia in diminuzione.
In Turchia il capo, che per essere tale deve conquistare il potere, è espressione del sentimento nazionale, non il contrario; come nella Russia attuale, con cui Ankara condivide interessi ma non amicizia, il potere promana dalla persona che lo esercita non dalla carica che ricopre; comprendere un sentimento così intenso porta ad intendere il concetto di deep State, da sempre vivo prima con la Teškilati Mahsusa4 di Enver Pascia5, non estranea al genocidio armeno, poi con la Kontrgerilla di epoca NATO-statunitense, e tornato in auge con Gülen, l’arcinemico di Erdogan.
Altra paradossalità di un Paese avaro di sofà per donne di potere, è la presenza del gentil sesso nei gangli del deep state con l’Asena6 Meral Güner, una delle poche donne ammesse alle riunioni dei Lupi Grigi, più nota con il cognome del marito, Akşener, ed ex ministro dell’interno nel governo Erbakan. Insieme alle vicende che accompagnano l’evoluzione dello stato profondo, ritornano in voga già dagli anni 60 i confessabili desideri di liaison con il Cremlino, in vita dal 1921 e reiterati con l’attuale pipeline Turk Stream, i sistemi missilistici S4007 ed i progetti nucleari, che rimangono di volta in volta di contorno ai vari colpi di stato. In fondo Turchia e Russia, come sempre, si cercano non per qualcosa, ma contro qualcuno, ora UE e USA.
Negli anni 80 il kemalismo comincia a svanire per lasciare il posto alla sintesi turco islamica. I personaggi politici si susseguono: alcuni sono fondamentali: il curdo Abdullah Öcalan, l’ambizioso premier e poi presidente della Repubblica Turgut Özal, il predicatore Fethullah Gülen. Gülen, appoggiato dai Clinton ed organizzatore della rete Hizmet8, è magnetico: tiene conferenze, crea un network di fedeli facoltosi, diviene un protagonista di primo piano del deep state, ordina ai suoi adepti di infiltrarsi nelle maglie dello Stato di cui Özal gli ha spalancato le porte. I militari, custodi dell’ortodossia kemalista, si percepiscono scavalcati dal sottile potere politico orientato verso l’Atlantico; comincia ad ascendere al firmamento il sindaco di Istanbul, Recep Tayyip Erdoğan.
I militari decidono di intervenire contro l’estremismo religioso serpeggiante, stringono accordi tattici con Israele; tuttavia nel 2001 la situazione sfugge loro di mano: gli americani ora guardano a Erdoğan, che stringe un’alleanza tattica con Gülen riparato negli USA, mentre una crisi economica di rara intensità si abbatte su Ankara. Mentre Erdoğan dà protezione politica all’imam, che gli garantisce l’appoggio del deep state che ha coltivato, i militari, che cercano di mettere al bando l’AKP, arretrano, ed arrivano le prime purghe con il caso Ergenekon, uno dei processi più discutibili della storia turca a carico dei vertici delle FA; di chi fidarsi?
Erdoğan intuisce che Gülen, che controlla la magistratura, potrebbe riservargli la stessa sorte dei militari a cui offre un irrinunciabile ruolo comprimario; è per questo che, nell’equazione del potere, cerca di stringere rapporti con il curdo Öcalan ed il PKK. Mentre parte l’offensiva interna contro Gülen, si schiera al fianco del Qatar, contro l’Arabia Saudita, a difesa della Fratellanza Musulmana disarticolata alla caduta del presidente egiziano Morsi. Non a caso dall’Emiro Al Thani arrivano nelle casse di Ankara non meno di 15 miliardi di dollari. Erdoğan tenta di appropriarsi delle spinte politiche delle inconcludenti Primavere Arabe, si lancia in Siria convinto della rapida fine di al Asad, sacrifica sull’altare della ragion di Stato convincimenti e carriera di Davutoğlu.
Tra il 2012 e il 2016 il quadro si definisce: il realismo geopolitico sconfigge Gülen ed il mentore americano; i Pascia rientrano nei loro ranghi. Trovano ora un senso compiuto le parole di un consigliere di Ahmet Davutoğlu9 quando afferma: “Dobbiamo accompagnare il signor Atatürk alla tomba”, e sono tanto più significative se si considerano le critiche rivolte al Gazi in merito al Trattato di Losanna quando prevede la cessione di isole alla mai troppo odiata Grecia.
Erdoğan non è Nasser, e la Turchia non è l’Egitto; sarebbe saggio non dimenticare le lezioni che la storia in MO ha di volta in volta impartito ai leader più ambiziosi, ipnotizzatori ispirati da pericolosi populismi cui non è stato estraneo l’esperimento fallito della Repubblica Araba Unita che congiunse temporaneamente il Cairo e Damasco; quel che è certo è che se Ankara è riuscita a proporsi in modo così eclatante è perché il MO sunnita ha mostrato un declino panarabo inarrestabile per effetto di differenze politiche ed economiche, per la mancanza di chiarezza ideologica e nonostante la comune base culturale che invece agevolato il fenomeno islamista.
Non è un mistero che Erdogan intenda muoversi secondo tre direttrici: una che lo veda egemone sunnita; un’altra panturca, colposamente dimenticata, che spazia fin nel Turkestan e nello Xinjiang; l’ultima, neo ottomana, che si vorrebbe estesa dai Balcani al teatro arabico. Attenzione quindi al secondo vettore, il meno pubblicizzato, che contempla i vincoli di sangue estesi da Istanbul all’Asia Centrale Turcofona occupata dai paesi degli Stan secondo la dottrina panturanica, che vorrebbe uniti tutti i popoli di comune origine turca colonizzati dai russi, agevolata dalla caduta Sovietica a sua volta causa di un enorme vuoto di potere regionale, e da una temporanea crescita economica.
Se la solidarietà turcofona rappresenta il leverage politico eurasiatico, l’obiettivo mediterraneo riguarda invece l'ampliamento della sovranità a fronte di un marcato regresso democratico interno, segnato dagli eventi di Gezi Park, dai persistenti fenomeni di corruzione, dall’inutile, farsesco e momentaneo allontanamento di 10 diplomatici occidentali, ultimo atto di una politica che intende creare, per quanto concerne l’architettura dello stato di diritto, un’area interdetta al Consiglio UE.
È proprio la constatazione dell'impossibilità di fare breccia in Europa che spinge nuovamente a guardare alle steppe dell’Asia centrale per dare vita ad un’entità estesa dal Bosforo alla Cina, malgrado armeni e curdi. Il turanismo10 è transnazionale, ampio, raccoglie i popoli turco altaici, estende il concetto di panturchismo; negli ultimi anni ha rappresentato un punto fermo della politica dell’ungherese Fidesz che ha portato Budapest a chiedere lo status di osservatore del Consiglio Turco.
L’ideologia panturca di Ankara punta dunque a creare una coalizione eurasiatica unita da un comune background rappresentando una potenziale minaccia per la Russia, che vede minacciata la sua leadership eurasiatica di ascendenza sovietica11, e per la Cina, interessata allo Xinjiang ed alla sua rilevanza per la BRI.
Il Consiglio Turco12, che ha un impianto simile a quello della Lega araba, dell’Organisation internationale de la Francophonie e del British Commonwealth, è il grimaldello di Ankara per trovare alternative ad una politica estera che la vede accerchiata nel Mediterraneo e chiusa a Bruxelles, magari quale rinnovato ponte atlantico verso il Cremlino.
Dall’altro lato, l’ascesa del panturchismo potrebbe condurre ad alimentare una latente instabilità regionale caratterizzata da Stati multietnici animati da forti nazionalismi, e dove Armenia e Georgia temono comunque un condominio russo turco.
Quanto può pesare, ora, l’aspetto confessionale? L’allontanamento dell’aspetto laicale in Turchia se può risultare accettabile in Russia, lo è molto meno in Stati che, della confessionalità, hanno una considerazione molto relativa. L'elenco dei partecipanti mostra comunque quello che si presenta come un insieme di leader autoritari e populisti, una piattaforma utile sul piano politico interno e per ottenere una certa indipendenza dagli egemoni prevalenti.
Il programma approvato e proiettato al 2040, fissa obiettivi orientati alla politica estera, alla cooperazione economica ed alle relazioni internazionali, con l’istituzione di un fondo di investimento comune. Notevoli, sotto l’ottica di una lungimirante geopolitica dei trasporti, gli sforzi volti a migliorare i collegamenti tra gli Stati membri, compreso il corridoio transcaspico est-ovest dalla Turchia alla Cina.
Tutti d’accordo allora? No, nessuna rosa è senza spine; intanto nessuno sembra rammentare che, una volta dissolto, nessun impero si è mai ricostituito, e che nessuno dei partner turchi ha inteso riconoscere la Repubblica di Cipro del Nord; la mancanza di sostegno politico su una questione così sentita smentisce la propaganda floreale di un’Unione Turca, e rilancia una visione realistica e pragmatica incentrata sull’economia del tutto scevra da considerazioni etniche, prova ne sia la decisione assunta circa l’istituzione del Fondo Turco per gli investimenti. E qui riaffiorano le perplessità, perché a fronte delle posizioni di alta politica estera prendono quota le debacle finanziarie della lira turca, mai così volatile ed inflazionata pur a fronte delle rassicurazioni presidenziali, ricche di demagogia ma povere di fondamento effettivo e lontane anni luce dalla crescita e dall’aplomb democratico degli anni 2000.
Lo spettro di Gezi Park si riavvicina, così come si riapprossimano le elezioni politiche, su cui grava l’insuccesso delle amministrative, che hanno certificato sconfitte di non poco conto nei più grandi centri urbani anatolici. Al momento, e nel senso più deteriore del termine, di sultanale rimangono le spese militari e quelle per infrastrutture faraoniche e di dubbia opportunità13.
Che piaccia o meno, l’indebitamento statale in valuta forte estera ingessa il bilancio pubblico e l’inflazione colpisce i ceti popolari; Durmus Yilmaz, uno dei numerosi ex governatori della banca centrale, ha asserito che il Reis sta trasformando la Turchia in “un laboratorio per esperimenti strampalati”, dove gli ordinativi esteri, pur in grande quantità, non possono essere soddisfatti per effetto del rialzo dei costi delle materie prime, e dove il fuggi fuggi generale è già nelle corde.
Altro che Organizzazione degli Stati Turchi; se in Italia si temevano gli autunni caldi, in Turchia fin d’ora si potrebbe scommettere su una primavera bollente. Del resto solo secondo analogie populiste ed insensate si potrebbe puntare ad un’economia di esportazione basata su una divisa di scarso valore: se così fosse il centro Africa dominerebbe i mercati, e una perdita del 48% sul dollaro e l’azzeramento delle riserve non indurrebbero ad alcuna preoccupazione.
Al di là dei confini, malgrado i proclami, la koinè turca stenta a decollare: i turcofoni ex sovietici parlavano russo, non certo turco; cosa resterebbe dell’AKP e di Erdogan se il 2023 non confermasse il Reis al comando, malgrado i suoi tentativi di emendamento della legge elettorale, e se l’opposizione riuscisse a produrre una vera alternativa? Probabilmente terminerebbero le politiche ancirane più dirompenti ed un nuovo regime sarebbe più moderato, ma di certo sarebbe difficile immaginare un completo stravolgimento politico.
E i turcofoni dell’Organizzazione? Alla finestra, in attesa, come è sempre stato, del vincitore di turno, in contrasto con l’Occidente e pronto ad una liaison irano russa in Eurasia. Mica facile.
1 Teoria del 1905 del tataro Yusuf Akçura
2 4 dita
3 Tra novembre e dicembre 1947, durante il settimo congresso del partito unico kemalista, İsmet İnönü suo successore adottò lo slogan «Non può esistere una nazione irreligiosa»
4 Sicurezza Interna
5 generale e politico, capo della rivoluzione dei Giovani Turchi
6 Donna lupo
7Strategicamente, l'acquisizione dei sistemi missilistici ha dato a Mosca un notevole vantaggio sul suo fianco meridionale, e ha cassato la Turchia dal novero dei Paesi Nato detentori di F35, senza contare la richiesta di acquisizione di F16, divenuti ormai preziosissimi. S400 potrebbe divenire motivo di deterrenza e negoziazione
8 Servizio
9 Stratega dell’Islam politico, già ministro degli esteri e poi premier
10 Il bassopiano turanico si trova tra l'attuale Turkmenistan, al confine con Iran, Uzbekistan e Kazakistan. Tradizionalmente il termine si riferisce a tutta l'Asia Centrale.
11 In particolare con il Kazakistan, ricco e strategico
12 Ne fanno parte Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan e Turchia. Turkmenistan e Ungheria osservatori
13 Ponte sul Bosforo e nuovo aereo presidenziale acquistato usato dai Paesi del Golfo
Foto: Türk Silahlı Kuvvetleri / presidency of the republic of Turkey / web