Secondo Bloomberg il primo ministro di Tripoli Fayez al-Sarraj sarebbe pronto a dimettersi a breve o, comunque, entro ottobre, cioè prima dell’inizio dei negoziati di pace a Ginevra. Notizia prontamente smentita dal ministro del Lavoro del GNA Mahdi al-Amin sulla testata del Cremlino Sputnik. Insomma c’è un confronto molto serrato a livello politico-mediatico sul futuro della Libia e stavolta, dopo le dimissioni dell’esecutivo di Tobruk, toccherebbe a Sarraj abbandonare il campo per favorire le trattative.
Ma Sarraj non potrà dimettersi “senza colpo ferire” e sarà obbligato a sfruttare questi mesi per stabilizzare la situazione nella capitale poiché è dal consenso tripolino-misuratino che passa la buona riuscita del processo di pace, molto più delle azioni del maresciallo ribelle Khalifa Haftar.
Innanzitutto perché il primo ministro al-Sarraj non può lasciare a Tripoli un vuoto di potere di cui potrebbero approfittare immediatamente i suoi tanti avversari, specie ora che i contatti con i rappresentanti della Cirenaica sembrano portare a soluzioni positive del conflitto.
A Tripoli Fayez al-Sarraj non gode di una situazione tranquilla, l’estromissione e la reintegrazione del ministro dell’Interno Fathi Bashagha (v.articolo) ha lasciato strascichi perché l’operazione ha avuto come pilastro un complicato gioco delle parti, una sorta di divide et impera in salsa libica attuato contro le milizie di Misurata e con la condotta ambigua di importanti “signori della guerra” della capitale. Nel corso dell’ultimo periodo il primo ministro libico ha provato a svincolarsi dagli ambienti politico-militari di Tripoli “internazionalizzando” nuovamente l’elenco dei suoi sostenitori ed appoggiandosi quindi agli Stati Uniti – che sono tornati prepotentemente in campo – e, flebilmente, anche all’Italia. Cercare l’appoggio dei suoi storici partner internazionali può essere utile ad al-Sarraj per avere un più ampio margine di manovra e favorire la transizione verso la nascita del nuovo Consiglio Presidenziale voluto nel 2015 a Skhirat e mai entrato realmente in funzione per l’opposizione sia di Tripoli che di Tobruk.
Affidare il potere esecutivo ad un organo collegiale, con rappresentanti di entrambi gli schieramenti, è l’unico modo per favorire la “soluzione politica” del conflitto e garantire l’unità del Paese. Proprio quello che i “falchi” sia tripolini che cirenaici vorrebbero evitare per mantenere i propri scampoli di potere. Per assurdo è stata proprio la linea dura ad aprire le porte ai negoziati in quanto l’offensiva turco-tripolina ha permesso di ottenere militarmente la liberazione della Tripolitania e politicamente lo scollamento di Aguila Saleh Issa (e dell’ormai ex governo cirenaico) da Khalifa Haftar. L’isolamento politico in cui oggi si dimena Haftar – che ha tentato di sfruttare a proprio favore la crisi determinata dalle dimissioni di Abdullah al-Thani – è determinato dal successo dei colloqui di Bouznika (v.articolo). Senza contare che anche importanti attori internazionali della crisi libica hanno scelto di percorrere una strada diversa da quella del maresciallo cirenaico: l’Egitto su tutti guarda con favore alle trattative e questo spiega anche perché molte delle tribù della Cirenaica – legate a doppio filo con il Cairo – abbiano abbandonato Haftar finendo per appoggiare (benché con le armi pronte) la “soluzione politica” sponsorizzata da Saleh. Anche gli Emirati Arabi Uniti sembrano più attenti alle mosse delle “colombe” cirenaiche che non a quelle del “falchi” poiché il rischio di una completa “turchificazione” della Libia pare ormai tramontato di fronte ai positivi risultati dei colloqui preliminari.
Certo le dimissioni di Sarraj, l’uomo che ha “gestito” la guerra e rivestito – nonostante il suo governo fosse riconosciuto dall’ONU – in sostanza il ruolo del capofazione, consentirebbero alle parti di accelerare sulla ricomposizione dell’unità libica e quindi sull’avvio del processo di pace. Però è anche vero che allo stato attuale il premier non può lasciare Tripoli ostaggio di una guerra per bande che dal palazzo tracimerebbe inevitabilmente nelle strade condannando al fallimento le trattative con la Cirenaica.
Attualmente la permanenza al potere di Sarraj, almeno fino all’avvio dei negoziati ginevrini, è la migliore garanzia per gli interessi della Libia ed anche per quelli degli Stati che puntano sulla salvaguardia dell’unità nazionale (come l’Italia per l’appunto) e non sullo smembramento del Paese. Resterà l’incognita sulle reali possibilità di Fayez al-Sarraj di “sistemare” la situazione politica a Tripoli e depotenziare le milizie entro e non oltre ottobre così da poter arrivare a Ginevra da una posizione di forza.
Foto: presidenza del coniglio dei ministri