L’Iran e la (non) causa palestinese

(di Germana Tappero Merlo)
04/12/23

La conflittualità in Medio Oriente, e da tempo, ci ha abituati a scenari complessi, in una sorta di guerre-matrioske, ciascuna contenente altre, da locali a quelle a rischio di un allargamento globale. È la regione più combattuta al mondo dell’era contemporanea e certamente la più articolata per interessi ideologici ed economici strategici, che sono poi quelli che definiscono le matrioske di tanti conflitti più recenti, anche oltre il territorio mediorientale. In questa regione, tuttavia, e sullo sfondo delle numerose guerre dalla nascita di Israele nel 1948, vi è sempre stata la questione palestinese, messa in disparte nell’ultimo decennio per le vicende belliche in Siria e Iraq, e per le violenze del sedicente Stato islamico e il suo terrorismo oltre quella regione. Tuttavia, se anche quest’ultima guerra fra Hamas e Israele ha riportato all’attenzione internazionale l’irrisolta questione di una terra/Stato per i palestinesi, di fatto, e sarebbe bene prenderne coscienza, quest’ennesimo conflitto è solo una parte, espressione dura e cruenta, di un contenitore bellico decisamente più ampio, con all’interno numerosi altri conflitti, limitati e in apparenza a sé stanti.

Perché non c’è solo la guerra armata fra Israele ed Hamas: nell’attuale matrioska mediorientale, le guerre sono soprattutto politiche e sono, grosso modo, almeno tre: la prima è interna alla società israeliana e riguarda il futuro dei Territori e la ripresa o l’abbandono totale dell’opzione “due Stati” per israeliani e palestinesi. Poi vi è la guerra fra estremisti israeliani e quelli palestinesi sulle rispettive visioni a lungo termine di tutto il territorio, dal Giordano al Mediterraneo, che si vuole o solo ebraico (suprematisti ebrei) o solo palestinese islamista (Hamas); quindi, vi è l’ultima guerra politica, ben più ampia, e che riguarda la difesa dei valori democratici e che coinvolge da un lato gli Stati Uniti, Israele e gli Stati arabi moderati (Egitto, Arabia Saudita, Giordania, EAU e Bahrein) e, dall’altro, l’Iran e i suoi accoliti regionali1. Ebbene, proprio a Teheran e a quest’ultimo aspetto, va la regia di quanto è avvenuto il 7 ottobre scorso e l’avvio di questa ennesima guerra israelo-palestinese, dalle diramazioni regionali e con il rischio di un ulteriore allargamento.

Ancora una volta, come già prima con le guerre arabo-israeliane del XX secolo, la questione palestinese è stata ed è solo un pretesto per piani di più ampia portata strategica, un tempo nella logica di potenze propria della guerra fredda, ora nel caos di un disordine mondiale a più soggetti (Usa, Russia e Cina) dalle forti ricadute in quella regione.

In pratica, ciò che numerosi osservatori internazionali stanno evidenziando è che si debba configurare il vile attacco di Hamas ad Israele e la sanguinosa e (prevista duratura) guerra attuale come una fra le tante della partita sul lungo periodo dell’Asse della Resistenza dell’Iran (Libano, Siria, Iraq e Yemen) non per la causa e tantomeno per lo Stato palestinesi, ma per una rivoluzione islamica a guida iraniana da Teheran al Mediterraneo.

L’obiettivo centrale di questa ennesima rivoluzione islamica a marchio iraniano è la nota ma sottovalutata affermazione nella regione della Mezzaluna Sciita, una sorta di fascia di sicurezza e protezione di interessi (ideologici, energetici e soprattutto militari) dei territori a maggioranza sciita, da Teheran a Beirut, passando da Bagdad e Damasco, usando i suoi vettori locali, le “3H”, ossia Hezbollah, Hamas e Houthi.

La Mezzaluna Sciita era, e rimane, il piano del gen. Qassem Soleimani, ucciso da un drone statunitense il 3 gennaio del 2020 a puro scopo “preventivo”2: proprio da allora sono partiti gli attacchi contro quel che restava del contingente americano anti-Isis in Iraq e Siria - che al momento conta, rispettivamente, 2500 e 900 soldati - in una sorta di ininterrotta conflittualità da anni, a differenti livelli di intensità.

Se ci si ostina a non considerare l’Iran player strategico di questa instabilità, non si potrà mai arrivare ad alcuna sorta di tregua per i palestinesi e men che meno ad una soluzione per la sicurezza di Israele. Continuare ad ignorare questo progetto strategico per pura posizione ideologica significa perpetuare tutti i conflitti in corso nella regione e porre le basi per un’ulteriore instabilità e nuovi e cruenti scontri. Questa, almeno, è la consapevolezza di numerosi analisti anche alla luce dei recenti incidenti bellici avvenuti oltre Gaza, ossia a nord, verso il Libano, e all’estremo sud di Israele (Negev, Eilat), e in Siria e Iraq, con attacchi a soldati e strutture statunitensi.

È obiettivo di Teheran mantenere costantemente Israele sotto pressione (Territori e nucleare), far fallire gli accordi di Abramo, creando fratture all’interno della compagine musulmana sunnita, contrastare in ogni modo la presenza degli Stati Uniti nella regione e presentare l’Iran, come di fatto è accaduto con questa guerra, grazie anche all’abile manovra offensiva mediatica propagandista dell’apparato teocratico iraniano, come l’unico vero difensore della Palestina e del suo popolo. Ma è solo il pretesto, perché le mire sono decisamente altre.

Non è più un mistero, nonostante le smentite ufficiali, che l’Iran arma, addestra, sostiene e muove le 3H, sue pedine armate, con anche una trentina di milizie sull’intero territorio iracheno, legate a doppio filo con i pasdaran iraniani. Sono le stesse kata’ib che si sono rese protagoniste, dal 7 ottobre scorso, di 74 attacchi con razzi e droni contro le truppe statunitensi in Siria e Iraq, da cui numerosi feriti, e contro cui il Pentagono ha risposto, in una logica (al momento) contenuta di tip for tat, con 4 raid aerei, uccidendo una ventina di miliziani. A ciò vanno aggiunte le minacce anche dal mare e nelle acque tutt’intorno la penisola arabica3. In definiva, una tensione continua contro gli Usa e Israele propria di questo progetto di rivoluzione islamica che l’Iran persegue fuori dai propri confini.

Sebbene l’Hamas palestinese sia sunnita ha infatti ottenuto forniture e addestramento da Teheran all’unico scopo di coinvolgerla in questa partita dal marchio sciita, certamente nel lungo periodo contro Israele, ma anche contro la presenza militare occidentale nella regione, in particolare quella statunitense, perché la più potente alleata dello Stato ebraico. Secondo questo piano, quindi, Stati Uniti ed Israele, debbono essere smantellati, in due differenti modi: più che lo scontro armato diretto con Washington, rendendo insostenibile la sua presenza militare in Iraq e, dall’altro, cancellando lo Stato ebraico dalla regione. E a dar man forte ad Hamas, ecco il ricorso agli altri vettori, Hezbollah, Houthi e le kata’ib irachene che, di fatto, controllano il loro Paese, dal ritiro americano nel 2011, non diversamente dalle Guardie della Rivoluzione in Iran.

Hamas condivide con Hezbollah, sia l’ideologia estrema dell’islamismo e l’odio per Israele, entrambi derivanti dalle loro origini di formazioni politiche radicali, scaturite, a loro volta, dalla fine della deterrenza del bipolarismo proprio della guerra fredda, ma soprattutto dalla carenza di forze politiche laiche e moderate, sia in Libano che nei territori palestinesi, di cui la pesante crisi economica e sociale libanese come il grave indebolimento dell’ANP, da tempo esautorata e delegittimata dagli estremisti di Hamas e di Jihad islamica (questa sì, sciita) ne sono chiare testimonianze.

Vi sono poi gli Houthi del Nord dello Yemen, da un decennio elemento di grande instabilità in quella che, assieme allo stretto di Hormuz, è la regione più strategica per i traffici marittimi e quindi per gli equilibri geopolitici, ossia la parte occidentale dell’intera Penisola Arabica. Da essa, infatti, dipendono la stabilità e la sicurezza del traffico mercantile in movimento nel Mar Rosso, così come dello stretto di Bab el-Mandeb, ossia quel ponte fra Asia e Africa orientale (Somalia, Egitto, Sudan ma anche Gibuti) da intendersi come elemento strategico sufficiente per l’Iran per sostenere una decennale, costosa e sanguinaria guerra dallo Yemen contro la potenza regionale antagonista, l’Arabia Saudita. E gli attacchi iraniani, in questi anni, a navi mercantili di varie bandiere, con un intensificarsi nelle ultime settimane contro quelle di proprietà israeliana, sia nelle acque attorno a quegli stretti, sono significativi circa i veri obiettivi di Teheran4.

Gli scopi finali iraniani sono, quindi, creare instabilità, difficoltà nei rapporti e negli spostamenti fra Stati, così come scardinare gli accordi di Abramo, firmati da Israele e alcuni paesi arabi moderati anche in funzione di contenimento di queste mire iraniane sulla regione e oltre, sino a voler minare i già precari rapporti fra Israele e Russia.

Alla luce di questa sintetica e certamente non esaustiva disamina dei rapporti di forza in Medio Oriente, è difficile continuare a credere che l’azione criminale di Hamas sia solo pro-causa palestinese. Non affatto è a sé stante. È parte interna, così come ultima nel tempo, di una lunga serie di guerre matrioske, ora a rischio di deflagrazione più ampia, addirittura regionale, in nome del progetto rivoluzionario islamista della Mezzaluna sciita. Mantenere l’intensità del conflitto sottosoglia richiede parecchio equilibrio, perché a confrontarsi sono un progetto rivoluzionario e differenti visioni del proprio destino territoriale e nazionale: forze islamiste estremiste votate al martiro contro la determinazione ebraica a sopravvivere, a distruggere Hamas, a smilitarizzare Gaza e a deradicalizzare tutti i territori palestinesi. E quest’equilibrio, al momento, pare alquanto precario per i due autentici, grandi antagonisti della guerra in Gaza, ossia Israele e Iran, da cui il rischio di un perpetuarsi di guerre matrioske anche oltre quella regione.