Pechino e Taipei

(di Renato Scarfi)
16/04/22

Insieme agli aspetti della guerra in Ucraina, l’interesse è tornato sulla situazione di Taiwan, isola rivendicata dalla Cina come territorio facente parte della Repubblica Popolare (RPC). Non che le due cose siano formalmente correlate, ma la pluridecennale disputa è tornata all’attenzione degli osservatori internazionali dato che ha influito sulla posizione formalmente assunta da Pechino in ambito Assemblea Generale ONU, laddove si è astenuta dalla mozione di condanna dell’aggressione russa (che non vuol dire approvazione), sostenendo (pensando a Taiwan) che va sempre salvaguardata l’integrità territoriale di uno Stato.

Le origini della disputa

Taiwan è una nazione di fatto (ma non giuridicamente) indipendente e democratica dal 1 ottobre 1949, quando Chiang Kai-Shek fuggì sull’isola in seguito alla presa del potere da parte di Mao Zedong. Nell’occasione portò via dal Paese le riserve auree e quel che restava dell’Aviazione e della Marina cinese dopo le aspre battaglie combattute per il potere tra il Partito nazionalista (Kuomintang) e il Partito comunista. I comunisti della RPC dichiararono illegale il governo nazionalista taiwanese che tuttavia, ancora oggi, si considera l’unico governo legittimo della Cina. Nella sua costituzione, infatti, rivendica la sovranità sulla Cina continentale e sulla Mongolia esterna. La capitale de iure è Nanchino, sulla costa cinese, mentre la capitale provvisoria è Taipei.

La Repubblica di Cina (RDC), come è formalmente conosciuta Taiwan, è costituita da un gruppo di isole che, oltre a quella principale separata dalla Cina continentale da un braccio di mare di 65 nm nel suo punto più stretto, lungo circa 185 nm e con una profondità media di 70 m, comprende anche altre isole e piccoli arcipelaghi come Penghu (Pescadores), Kinmen (Quemoy) e Matsu, geograficamente situati molto più vicino alle coste cinesi. Taiwan è riconosciuta solo da 14 stati sovrani al mondoi.

Fino agli anni ’90 Pechino non ha potuto fare altro che lanciare vuote minacce contro Taipei, non avendo la capacità navale per attraversare lo stretto con grossi corpi di spedizione, in modo da riprendere il controllo di quella che viene considerata come una provincia “ribelle”. Nello stesso periodo Taiwan era nota per essere la sponda dello stretto militarmente più forte.

Ma perché Taiwan, al di là delle questioni di principio, è ritenuta così importante per Pechino?

L’importanza strategica di Taiwan

Come noto, l’isola si trova in un’area che da decenni è teatro di un complesso puzzle di dispute territoriali che vedono i paesi rivieraschi (Cina, Giappone, Vietnam. Corea del Sud, Filippine, Malesia, Brunei e la stessa Taiwan) rivendicare confini invisibili e il diritto a fruire dei tesori che vi si trovano (quel tratto di mare è ricchissimo di petrolio, gas e naturalmente pesce). In aggiunta, qualora sull’isola sventolasse la bandiera della RPC, Pechino potrebbe dichiarare una propria ZEE di 200 nm, mettendo un’ipoteca sulle notevoli risorse marine e sottomarine presenti su una vastissima area. E, come abbiamo visto, le ZEE non hanno solo un significativo valore economico, ma giocano anche un considerevole ruolo geopolitico (vedi articolo “Zona Economica Esclusiva e potere marittimo”)

A ciò va sommato il fatto che per Pechino l’area è anche ritenuta fondamentale per la sua sicurezza e per il controllo delle trafficatissime linee di comunicazione marittime del Mar Cinese meridionale. Le rivendicazioni marittime/territoriali cinesi, infatti, si basano sulla cosiddetta “linea dei nove tratti” che, a forma di “U”, parte grosso modo da Taiwan e passa lungo la costa occidentale delle Filippine, piegando a sud verso le acque al largo della Malesia per poi tornare verso nord all’altezza della penisola vietnamita, giungendo all’isola cinese di Hainan.

L’area all’interno di questa linea ideale è costellata di isolotti, banchi di sabbia e scogliere affioranti, per lo più disabitati che, a partire dal 2013, la Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione Cinese (People’s Liberation Army Navy – PLAN) ha deciso di militarizzare allo scopo di costituire un territorio avanzato ed estendere la propria area di influenza economica e militare su quel trafficatissimo tratto di mare.

Ma Taiwan fa anche parte della prima delle due linee con le quali dal 1950 gli USA cercano di contenere l’espansione cinese. Tali sono le “island chains”, la prima delle quali congiunge la penisola coreana, le acque a sud del Giappone, Okinawa, Taiwan, le Filippine e Singapore. La seconda, più lontana dalle coste cinesi, parte dal Giappone, passa da Guam e Palau, fino alla Nuova Guinea.

Proprio per la sua importanza strategica, va sempre più aumentando l’attenzione (e la pressione) di Pechino verso Taipei. In tale ottica, anche il conflitto in corso in Ucraina fornisce spunti di riflessione per l’eventuale opzione militare cinese. Come ha avuto modo di sottolineare l’artista e attivista per i diritti umani cinese in esilio Ai Weiwei, che dal 2015 vive e lavora in Europa, “…L’invasione ucraina è un preludio e un’esercitazione di quanto la Cina farà a Taiwan…”ii.

Tuttavia, dato che la questione della riunificazione della Cina è un punto permanente dell’agenda politica cinese, molti osservatori si domandano se Pechino, nonostante l’imponente postura navale, ha le capacità effettive di effettuare un’operazione navale di invasione dell’isola.

Le operazioni aeronavali

Una risposta non semplice. Anche se le capacità militari di Pechino sono cresciute molto in questi ultimi anni, sia in qualità che quantità, a livello di forze anfibie non sembra che la Cina abbia ancora raggiunto un livello operativo tale da poter condurre in maniera efficace uno sbarco in forze sull’isola, anche perché risulta che raramente vengano effettuate esercitazioni con grandi numeri (indispensabili per raggiungere un accettabile grado di coordinamento).

Da qualche tempo la PLAN ha mostrato la volontà di acquisire le capacità indispensabili per l’eventuale “salto” da una sponda all’altra del consistente contingente militare necessario per l’operazione. La parte più delicata dell’operazione dovrebbe essere, infatti, l’attraversamento del braccio di mare che separa il continente dall’isola. Si tratta di 65 nm (circa 120 chilometri, ndr), nel suo punto più stretto, di acque relativamente poco profonde e, per questo, inadatte alla navigazione dei sottomarini ma perfette per la guerra di mine. Tuttavia, per effetto dell’intenso traffico marittimo che lo attraversa, in tempo di pace non è possibile procedere preventivamente alla posa di campi minati difensivi troppo estesi.

Prima di sbarcare il grosso contingente, sembra si tratti di 12 brigate anfibie, con una flotta da sbarco che annovera 3 LHD Tipo-075, 8 LPD Tipo-071 (foto) e 28 LST Tipo-072, bisogna quindi arrivare ai punti di sbarco, superando la barriera difensiva costituita da 410 velivoli da combattimento e da 4 brigate dotate di missili superficie-aria.

Senza contare che la flotta di Taipei ha discrete capacità nel settore della guerra di mine e che, anche se certamente non delle dimensioni di quella cinese, risulta sufficientemente moderna, con dotazioni di missili antinave “Harpoon”, impiegabili sia da bordo che da batterie costiere, la cui portata permette di coprire tutta l’area dello stretto.

L’impiego congiunto di mine e missili dovrebbe teoricamente permettere di rendere estremamente pericoloso l’attraversamento di una forza navale aggressiva (vedi articolo “La sfida cinese alla potenza navale statunitense”).

Ma le difficoltà non finirebbero con l’attraversamento dello stretto. Data la conformazione orografica dell’isola, un eventuale sbarco dovrebbe avvenire sulla sua costa occidentale, dove le truppe cinesi potrebbero restare letteralmente impantanate nelle c.d. "piane di marea"iii. Il profilo costiero occidentale taiwanese, quello prospicente il continente, presenta inoltre meno di una quindicina di punti favorevoli alle operazioni anfibie e gli ingegneri militari locali hanno ormai ben rafforzato le difese in quei punti, che sono peraltro efficacemente difendibili dalle forze terrestri taiwanesi, che ammontano a 13 brigate (di cui 4 corazzate) in servizio attivo e 31 brigate di fanteria di riserva.

A Formosa (altro nome con il quale è conosciuta l’isola) sono, infatti, settant'anni che si preparano all'eventualità di uno sbarco cinese e gli USA ne supportano l'indipendenza anche militarmente a livello di formazione, fornitura delle armi e pattugliamento dello stretto, che Pechino considera come mare territoriale cinese. In tale ottica, unità militari statunitensi lo attraversano regolarmente, allo scopo di affermare il principio di libertà di navigazione in quelle acque.

Un articolo pubblicato nel 2017 dal quotidiano singaporiano “The Straits Times” ha, inoltre, rivelato che Taiwan avrebbe acquisito la capacità di colpire la Cina continentale con missili la cui portata sarebbe superiore ai 1500 km. A ciò si aggiunge la notizia, pubblicata il 25 marzo 2021 sul “South China Morning Post” di Hong Kong, che Taiwan si starebbe dotando di missili a lunga gittata che avrebbero, in caso di conflitto, la capacità di colpire bersagli nel cuore del territorio cineseiv.

Con la presidente Tsai Ing-wen, in carica dal 2016, l’apparato militare di difesa taiwanese ha infatti investito milioni di dollari in materiale di armamento statunitense. Kolas Yotaka, portavoce della presidente, ha recentemente dichiarato che “…non abbiamo mai smesso di prepararci per operazioni di contingenza, avendo ben presente il principio di autodifesa, non di aggressione…”.

Tuttavia, dato che la valutazione delle capacità operative non sono mai limitate al solo materiale d’armamento, ma assumono significato nel quadro operativo specifico, non va sottaciuto che un punto di debolezza di Taipei è rappresentato dalla catena di comando centralizzata, che rende lo strumento militare vulnerabile a eventuali azioni che isolino i reparti dagli stati maggiori. Una vulnerabilità che potrebbe essere mitigata attraverso la pronta dispersione delle proprie forze e comandi. Ciò chiama in causa il servizio informazioni, che deve essere in grado di decodificare prontamente i segni premonitori dell’eventuale attacco (es. attività di cacciamine).

Ad ogni modo, quanto sta drammaticamente succedendo in questi giorni in Ucraina, offre significativi spunti di riflessione alla leadership taiwanese. La resistenza degli ucraini ha, infatti, sorpreso e ispirato e ha fatto riprendere vigore agli sforzi per la costruzione di una difesa che meglio si adatti al contesto territoriale specifico.

Come sta dimostrando l’accanita resistenza ucraina, quando ci si difende, più che i carri armati e i caccia servono gli armamenti anti-tank e anti-aircraft che, se ben usati da personale adeguatamente addestrato, possono fare la differenza. In sostanza, sotto il profilo tecnico-militare, gli ucraini hanno dimostrato che quando si gioca in difesa contro un avversario più consistente, sono fondamentali la mobilità e l’agilità delle forze. Ciò sta facendo imboccare una strada che privilegi tali aspetti e che permetta di acquisire capacità specifiche per il modello di difesa che va configurandosi. Un esempio può essere la tecnologia UUV (Underwater Unmanned Vehicle), nel settore delle mine navali. Si tratta di una capacità che, permettendo di programmare, pilotare, armare e disarmare mine navali semoventi darebbe a Taiwan la possibilità di rendere enormemente più difficile sia il transito delle navi che lo sbarco in forze sulle sue coste.

Consapevoli della differenza numerica con la RPC e di quanto accade in Ucraina, la leadership taiwanese ha anche modificato i concetti operativi di difesa territoriale, privilegiando tattiche asimmetriche per contrastare l’eventuale invasione. Il tutto si riconduce a tecniche di combattimento favorite da una configurazione montagnosa del territorio (la cima più alta raggiunge i 3952 m), in cui la sola parte piatta, come detto, è rappresentata dalla costa occidentale.

In sostanza, il concetto che guiderebbe i taiwanesi nella loro difesa si può riassumere in “difesa risoluta, dispersione e mobilità”.

L’aggressione russa ha anche riportato all’attenzione della popolazione l’aspetto della capacità di resistenza diffusa. Ora i taiwanesi sembrano meno riluttanti a parlare di difesa con le armi e la dirigenza ha raddoppiato il periodo di addestramento per i riservisti. Un recente sondaggio ha messo in evidenza che oltre il 70% degli interpellati ha manifestato la volontà di combattere nel caso di un’aggressione da parte cinese. La popolazione è, infatti, convinta che il miglior deterrente sia dimostrare una credibile volontà di resistere, combinando un buon addestramento militare con un’adeguata capacità di protezione civile (sanità, intervento in disastri, ecc…). In quest’ottica la resilienza ucraina fornisce importanti spunti di riflessione per Taipei.

Per un’efficace opera di dissuasione, quindi, Taipei dovrà dimostrare che può abilmente sfruttare le vulnerabilità dell’apparato militare cinese e controbilanciare efficacemente i suoi vantaggi numerici e di capacità complessiva. Nel frattempo, per mantenere alta la pressione nei confronti di Taipei, mentre la Marina cinese continua a mostrare i muscoli incrociando sempre più spesso nelle acque attorno all’isola, i circa 360.000 militari di stanza nel settore cinese dello Stretto di Taiwan (sui circa 915.000 complessivi a disposizione di Xi Jinping) continuano ad addestrarsi.

Alcuni aspetti geopolitici

Al di là degli aspetti squisitamente militari, la questione di Taiwan presenta notevoli implicazioni geopolitiche. Qualunque operazione militare cinese contro Taiwan, infatti, dovrebbe essere effettuata in un contesto strategico particolare che impone un calcolo costo/benefici complesso che includa anche la percezione giapponese, statunitense e degli altri attori dell’Indo-Pacifico circa la rispettiva sicurezza. Un’eventuale aggressione armata, infatti, originerebbe notevole ostilità nell'area da parte di Giappone, Corea del Sud e di tutti gli altri paesi, filoamericani o comunque in allerta da sempre verso l'ingombrante vicino. Non ultimo tra questi l’Indonesia, la cui preoccupazione per le ambizioni e la postura cinese sta aumentando, tanto da portare il paese asiatico a un crescente riarmo, proprio in chiave anti-cinese. Le ripercussioni negative a livello internazionale e, soprattutto, economico potrebbero quindi essere molto maggiori degli eventuali vantaggi.

Tuttavia, quando si parla di Repubblica Popolare Cinese, bisogna ricordare che tra i suoi obiettivi principali dichiarati vi sono la riunificazione della Cina (con chiaro riferimento a Taiwan) e la riaffermazione dei suoi “diritti storici” su gran parte del Mar Cinese meridionale. La storia degli ultimi decenni ha insegnato che Pechino non si lascerà “distrarre” da eventi, seppur tragici e con ricadute globali, come quello in atto in Ucraina, e continuerà tenacemente a perseguire i propri interessi nazionali, consapevole che le leadership occidentali sono abbastanza ondivaghe e soggette a ribaltamenti a ogni nuova consultazione popolare.

Alla Cina, quindi, oggi fa comodo che l’attenzione della comunità internazionale sia polarizzata altrove. Maggiore è l’attenzione verso altre aree geopolitiche e minore sarà l’attenzione degli USA e dei suoi alleati sul teatro dell’Indo-Pacifico in merito alle ambizioni cinesi. Alla Cina fa anche comodo una Russia economicamente vitale, in modo da protrarre nel tempo la guerra in Ucraina minando, al contempo, la credibilità occidentale e i suoi strumenti per porre fine al conflitto.

In quest’ottica, ha senso l’ambigua posizione cinese sulla questione ucraina, avendo scelto di lasciare che i contendenti (Occidente e Russia) continuino a indebolirsi vicendevolmente. Un’ambiguità che ha portato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi a ribadire il concetto della collaborazione “senza limiti” con la Russia, al termine dell’incontro con l’omologo russo Sergey Lavrov, mentre l’inviato cinese a Washington D.C., Qin Gang, prendeva le distanze dalle azioni russe sottolineando come i rapporti sino-russi abbiano come riferimento i principi e le limitazioni sanciti dalla Carta ONU, il diritto internazionale e le norme di base che regolano le relazioni internazionaliv.

D’altronde, la diplomazia è l’arte di mantenere abilmente le proprie relazioni internazionali e nel trattare questioni sensibili anche con persone suscettibili. E la Cina sta oggi navigando in acque turbolente mantenendo il timone sulla sua personalissima rotta, senza sbilanciarsi e senza manifestare quali sono le sue vere intenzioni, dosando sapientemente dichiarazioni assertive e manifestazioni di matura cautela, in costante equilibrio tra loro. Un equilibrio che in questo periodo sembra mancare a molti attori internazionali, a partire dagli USA, il cui presidente Biden non fa altro che gettare benzina sul fuoco che divampa sul palcoscenico internazionale.

In tale ambito, il 2 gennaio 2019 Xi Jinping ha pronunciato un lungo discorso diretto alla popolazione cinese e taiwanese, con il quale ha sottolineato la volontà di giungere a una riunificazione nazionale, ventilando la possibilità che il futuro assetto di una Cina riunificata possa prevedere “…un Paese, due sistemi…”. Un’affermazione che, viste le vicende di Hong Kong e Macao, nei taiwanesi ha suscitato molto turbamento e nessun entusiasmo. Lo stesso Xi Jinping ha poi più volte dichiarato che il suo obiettivo è una riunificazione pacifica delle due sponde dello Stretto ma che, anche se con estrema riluttanza, la Cina è pronta a usare tutta la forza militare di cui dispone e disporrà per riportare Taiwan nel continente.

L’isola di Taiwan, quindi, si trova al centro di un duro confronto geopolitico tra due potenze concorrenti. In tale contesto, è presumibile che le relazioni tra Cina e Stati Uniti rimarranno abbastanza tese e problematiche e, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, non appare ipotizzabile un ammorbidimento dell’approccio dei due Paesi, a partire da quelle che Pechino reputa indebite manifestazioni di appoggio all’affermazione internazionale di Taiwan quale entità indipendente e, a maggior ragione, alle forniture militari che esso riceve da Washington.

Un appoggio statunitense che ha recentemente portato Pechino a protestare vivacemente per la ventilata visita a Taipei da parte della portavoce della camera Nancy Pelosi. Una visita che non era programmata e che era stata inaspettatamente inserita in agenda, cancellando un incontro a Seul, proprio perché le implicazioni della guerra in Ucraina hanno spostato l’attenzione sulla situazione nello stretto di Taiwan. L’agenda dell’incontro prevedeva uno scambio di opinioni sulla situazione in Ucraina ma, probabilmente, anche sul supporto USA alla difesa di Taiwan e ai piani per contrastare l’espansionismo cinese.

La visita, inizialmente prevista per il 10 aprile, è stata poi annullata per una non meglio precisata malattia della Pelosi. Si sarebbe trattato di una data significativa in quanto, proprio il 10 aprile 1979, l’allora presidente Jimmy Carter firmò il Taiwan Relations Act, il documento che regola il sostegno di Washington a Taipei.

Conclusioni

La Cina considera Taiwan un problema irrisolto. Le motivazioni che hanno indotto Mosca all’opzione militare in Ucraina vengono proiettate da Pechino sulla disputa con Taipei, nei confronti della quale rivendica come legittimo l’uso della forza. Un eventuale scontro che per Pechino non considererebbe un’invasione.

Con l’attenzione di tutti concentrata sull’Ucraina, Xi Jinping ha oggi l’opportunità di osservare come la comunità internazionale reagisce all’invasione di un territorio contestato, permettendogli di “…valutare la consistenza militare delle due parti, le possibilità in campo, come funziona il quadro politico internazionale, come reagiscono Europa e Usa. Tutto questo aiuta parecchio a capire che cosa aspettarsi una volta scoppiata un’eventuale guerra con Taiwan…”vi. Tuttavia, come abbiamo visto, i due teatri non sono paragonabili e l’area taiwanese ha delle peculiarità che richiedono spiccate capacità anfibie e di coordinamento interforze.

Avviare nel breve termine un’operazione anfibia contro Taiwan sembrerebbe al momento abbastanza temeraria, anche perché la PLAN non sembra avere ancora raggiunto l’indispensabile livello di esperienza e coordinamento per far operare congiuntamente ed efficacemente le decine di navi e di aerei necessari a saturare le difese taiwanesi. A ciò si aggiunge la concreta possibilità di un possibile confronto con i gruppi navali statunitensi e dei loro alleati nell’Indo-Pacifico, per il quale la Cina non sembra pronta.

Un fallimento dell’operazione comprometterebbe irrimediabilmente i sogni di una rinascita internazionale cinese e distruggerebbe l’immagine e la carriera di Xi Jinping. Un’eventualità, quest’ultima, che sicuramente non è gradita al leader cinese, specialmente in vista del Congresso del Partito, il prossimo autunno. È, quindi, ragionevolmente prevedibile che nel breve termine la disputa tra Pechino e Taiwan possa rimanere a livello di scaramucce militari, atte a saggiare la reattività di Taiwan e a mantenerne alto il suo livello di attenzione (e di logoramento). Obiettivi limitati che potrebbero peraltro giocare a favore di una crescita del potere nelle mani dell’attuale leadership cinese.

Nel frattempo, la guerra in Ucraina rappresenta sempre più un conflitto che comporta numerose ricadute in ambito internazionale. La Cina, una potenza economica con interessi globali, sta attentamente prendendo nota e ridisegnando la propria strategia in politica interna ed estera, oltre che in campo militare. Nel fare ciò, l’attuale dirigenza non potrà trascurare che un’eventuale conflitto avrebbe comunque pesanti implicazioni sull’intenso traffico mercantile che contraddistingue tutta l’area e che questo si ripercuoterebbe negativamente sulla crescita economica cinese e, molto probabilmente, anche sui suoi equilibri interni, sulla stabilità sociale e sulla stessa tenuta del regime.

Non resta, quindi, che confidare nella lungimiranza politica di tutti gli attori, e nella loro capacità di contemperare le diverse esigenze e ambizioni, nella consapevolezza che solo la dialettica diplomatica può consentire il raggiungimento di una soluzione condivisa.

i Belize, Città del Vaticano, Guatemala, Haiti, Honduras, isole Marshall, Nauru, Palau, Paraguay, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, eSwatini, Tuwalu.

ii Marco del Corona, Questo conflitto per la Cina è una prova generale (in vista di Taiwan), Corriere della sera, 6 aprile 2022. Ai Weiwei è andato in esilio dopo aver trascorso 81 giorni (2 aprile-22giugno 2011) detenuto in località sconosciuta, a causa della sua irridente opposizione al regime cinese.

iii Sono porzioni di territorio costiero controllate dal flusso e riflusso della marea. Si sviluppano lungo coste basse, a debole inclinazione, con elevata escursione di marea, nelle quali le variazioni del livello marino comportano sommersione ed esposizione ciclica di ampie estensioni di territorio.

iv Hugues Eudeline, Vers une defence active de Taiwan pour contrecarrer une aggression de la Chine populaire?, Diplomatie, 30 marzo 2022

v Zi Yang, Russia stalled invasion of Ucraine: lessons for china leader’s, The Diplomat, 6 aprile 2022

vi Marco del Corona, Questo conflitto per la Cina è una prova generale (in vista di Taiwan), Corriere della sera, 6 aprile 2022.

Foto: Ministry of National Defense of the People's Republic of China / web / Twitter / Xinhua